Spazio di Claudia Zironi | Giocare con gli abiti e le poesie di Grata Somaré: l’antimoda
Grata Somaré, con il suo “vèstiti per gioco” ha fatto della sartoria un’arte performativa e del suo corpo una galleria d’arte itinerante poiché la si può spesso incontrare, anzi, veder sfilare per le strade di Bergamo. Come scrittrice ha all’attivo un certo numero di libri di viaggio, la poesia per lei è una recente forma espressiva ancora totalmente inedita.
Vi proporrò qui le foto e le storie di alcune sue creazioni da indossare, pazientemente ideate, tagliate e cucite da lei stessa e abbinate con accessori fatti magari da altri artigiani ma sempre su suo disegno, intervallate alle recenti produzioni della sua penna.
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Il pesce rosso. Questo vestito l’ho chiamato: «Alla fiera». Sottotitolo: «Il pesce rosso». Ma devo raccontare prima tutta la favoletta inventata da me. Il vestito visualizza il finale della storia. Dunque:
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L’omino e la donnina sono andati alla fiera. Sono saliti sull’otto volante, la ruota, le autoscontro, il toboga; sono entrati nel labirinto di specchi, nel tunnel dell’orrore, hanno visto la donna cannone e la donna sirena, fatto amicizia con il nano e il gigante, hanno sparato ai barattoli e ai palloncini e picchiato pugni per stabilire la forza. Alla fine sono arrivati al tavolo con le bocce di vetro dei pesciolini rossi, che bisogna cercare di centrare con le palline da ping pong per vincere il pesce. La donnina però è stanca e dice all’omino: «vai avanti tu. Io ti aspetto seduta su questa panchina.» L’omino tira 33 palline e vince il pesce rosso. Torna dalla donnina con il classico sacchetto di plastica che contiene il pesce nell’acqua, e, alzando le braccia al cielo in segno di trionfo, grida: «Ho vinto!». E la donnina risponde, facendo con la mano un segno che significa «vieni»: «Si, bravo, però adesso andiamo a casa» Il mio vestito è il sacchetto con il pesce rosso conquistato (l’acqua è di tulle azzurro e qualche bambino stupito mi chiede -del pesce tridimensionale, a cuscino- «ma è vero?»). Al collo ho una collana di 33 palline da ping pong e sulle palline ci sono l’omino che esulta con le braccia alzate e la donnina, ancora seduta sulla panchina, che lo chiama per tornarsene a casa.
Al risveglio
impresto la vita
alle rassicuranti abitudini
dei gesti semplici
Apro la porta al cane
che vuole uscire
Accarezzo il gatto
che si stira sulla soglia
Fischio “ecco qua” agli uccelli
che hanno fame
Salvo il millepiedi
scivolato nella vasca
Guardo la luce
che filtra tra gli alberi.
Scaduta la breve tregua
del cessate il fuoco
riconsegno la vita
al mondo avvelenato
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La geisha con il ventaglio. L’estetica giapponese segue regole diverse da quella occidentale. Per esempio, nella costruzione di un vestito, parte spesso da forme geometriche elementari e non cerca di seguire le curve del corpo con aderenze, pinces, sbiechi.
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Mi sono rifatta grossomodo a quest’idea per la serie di vestiti che ho chiamato «la geisha col ventaglio», perché il taglio di base è più o meno un semplice rettangolo -a volte doppiato- che nasconde in parte la sua geometria solo per i rimborsi -decisi allo specchio all’ultimo momento- che lo fanno ricadere ai lati e sul davanti gonfio e ammorbidito. Il ventaglio è quello delle pieghe che si aprono a raggiera sullo scollo.
Come richiesto dall’esame
ho consegnato il tema sulla vita
in bella copia
versione scolastica
banale neutra un po’ noiosa
qui sorvola là si dilunga
come quando non bastano le idee
e bisogna comunque
arrivare a riempire almeno
la terza pagina del foglio protocollo.
Avendo rispettato
diligentemente
le regole della grammatica
un sufficiente
lo potrei forse meritare
magari anche un 6+.
Quell’altro foglio
scritto
in brutta copia
l’ho buttato nel cestino
della carta straccia
ho cancellato prima
ogni parola e frase inconcludente
e alla fine
sono rimasti solo
le virgole i punti
e, in fondo,
-ben evidenziato-
un punto di domanda
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Vetrina di New York. Asia Week – Marzo – New York – Manhattan. Anche se l’argomento non ha nessuna influenza sui fatti, mi piace incominciarne il resoconto contestualizzandoli in quella vera e particolare mattinata di sole primaverile di una ventilata città di mare. Solo un quarto d’ora di strada mi ci vuole per arrivare, come ogni mattina, alla Pace Gallery, dalla 64esima alla 57esima, lungo Park Avenue. È in una traversa tra Madison e Park che ho notato la vetrina di quel negozio. Non era chiaro se fosse un negozio di antiquariato o di cornici, ma era pieno di specchi incorniciati di tutte le misure, di cui uno enorme in bella mostra con una cornice gialla rococò. Per ricordo l’ho fotografato e, come sempre per deformazione mentale, mi è venuta l’idea di un vestito. Vestito con doppio titolo: «Vetrina di New York», ma anche: «Il salottino inglese», per via dello sfondo/tessuto da tappezzeria, che scherza sulle carte da parati che si usano a Londra.
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Il punto di domanda. Significa: Non ci sono risposte alle eterne domande sull’esistenza ( è anche la visualizzazione del mio “tema sulla vita”)
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La vedova allegra. Ho fatto un vestito tutto nero di chiffon a ondine. Doveva essere finito lì e chiamarsi semplicemente “la vedova nera». Ma mi sembrava troppo austero e menagramistico. Per ingentilirlo ho incominciato a cucirci qua e là dei fiorellini bianchi. Per arricchire il risultato ho fatto poi girare intorno al collo anche i rami con le foglie di quegli stessi fiori. Viste le aggiunte fatte, alla fine sono stata praticamente costretta a chiamarlo “la vedova allegra”.
Come scrive Hikmet:
“La vita non è uno scherzo
Prendila sul serio
come fa lo scoiattolo… “
che non si aspetta nulla
oltre alla vita.
Così , un giorno,
lo scoiattolo
entra in casa
si nasconde nel camino
e crede lì
di essere al sicuro,
ma,
se lo trova il cane,
è morto.
Ho appoggiato in un vaso
di menta
il suo corpicino fragile
P.S. Così morbido, non ho potuto seppellirlo. Qualche giorno dopo, sono tornata per guardarlo, ma non c’era più. Forse l’aveva preso qualche altro animale, ma a me piace credere che sia resuscitato.
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Regina. Della serie riciclo fa parte, tra altri svariati materiali , il cartoncino dei tubetti su cui è avvolta la carta igienica. Ho chiamato infatti questo sottogruppo del riciclo: “papier toilette” o “toilet paper”, giusto per dare al titolo un tono meno prosaico e un po’ più bon ton rispetto a quello più diretto del nome in italiano.
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Ho fatto a fette il cartoncino, ne ho ricavato dei petali, che ho disposto a fiori o foglie, li ho dipinti ( riprendendo a volte sul vestito i colori e lo stesso disegno creato con il cartoncino), ho aggiunto qualche decoro e, cuciti insieme, ne sono risultati dei corpetti traforati da abbinare al vestito sottostante. Il titolo del vestito con il corpetto lasciato al colore naturale (grigio pallido con le scritte azzurre), solo inframmezzato da fiorellini blu, è “regina”, dalla marca stampata a vista sul tubetto utilizzato.
Kairós contro Kronos- Kronos contro Kairós
Era quello inventato
il mio tempo di mezzo
-perfetto-
dove il più impercettibile movimento
si allungava disteso
sull’onda dei desideri esaudibili
mentre il tempo di fuori
-contato-
rotolava
a precipizio
giù per la china
dell’esausta esistenza
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Il fiore di carta. Non ricordo più da dove mi sia venuta l’idea di farmi un cappello di carta, piatto, a larghe tese/ petali, bianco. Di carta rigida per non spiovere sul viso e impedire la visuale. Doveva essere grande, ma, alla fine, era così grande, che bastava un soffio di vento, o l’aria smossa camminando, a obbligarmi a trattenerlo con le mani per non farlo volar via. Mi sono per questo rassegnata a tenerlo in testa solo da ferma o, dovendo andare in giro, a appenderlo alle spalle come uno zaino, così, solo per (esagerata) bellezza. Poi, di cappello di carta, ne ho fatto anche uno piccolo perché fosse più pratico all’uso.
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Dalla finestra il tramonto non si vede. La finestra guarda a oriente e il sole è sceso alle mie spalle. È già quasi buio e quello che contiene la sera di tutta la giornata e di tutti i giorni i mesi gli anni -della vita intera- è un pensiero denso e senza forma, fatto di tempi passati, speranze allegria errori guai mancanze. Senza parole per esprimersi, rimane in quel quasi buio solo il peso sospeso di una sensazione.
Anche le malattie, come le febbri, alla sera si aggravano.
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La pera. Il mio vestito “pera” ha una pera tagliata a metà e aperta sul davanti. Quando mi giro di spalle, si vede il dietro della pera. Il disegno non è dipinto, ma è fatto di panno bianco, con i contorni e il picciolo di filo di lana verde. Anche i noccioli sono di stoffa.
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Ho dipinto invece con un pennarello il disegno centrale. Forse la mia pera è un’eco della pera di Enzo Mari vista su un poster degli anni ‘70. Sulle foglie c’è una lumaca che quando cammino muove la testa; la borsa è fatta di contenitori riciclati di succo di pera e in testa – per togliere ogni dubbio residuo sul tema – ho una pera.
Piove. Persiane chiuse.
Nell’attesa di un cenno
gentile
l’unico segno di vita
è il tuono
che spaventa il cane
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Le spose di Bruxelles. Al mercato delle pulci di Bruxelles, alla place du Jeu de Balle, dove la merce è buttata su teli per terra e tutta ammonticchiata, ho comprato per un niente tre vestiti bianchi e lunghi da sposa -dallo stile- (forse) dell’est. Li ho disfatti e ritagliati direttamente nell’albergo e ho tenuto solo le stoffe per l’ampiezza, eliminando strascichi esagerati, corpetti sagomati e maniche a sbuffo, per farne qualcosa dopo, a casa. Alla mia partenza la femme de chambre si sarà poi certo chiesta strabiliata da dove diavolo fosse arrivata tutta quella massa di avanzi spumeggianti di mussola pizzi veli ricamati, pressati malamente e straboccanti dai cestini dei rifiuti. Comunque a uno di questi vestiti riciclati -di cui mi piaceva in particolare il plumetis e che ho gonfiato a palla con il tulle, stretto con un elastico sul fondo, lasciando uscire poi l’arricciatura- ho cucito due guanti di lana neri sul davanti, per aggiungere all’eterea leggerezza del tessuto lo scherzo irriverente delle mani.
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Al secondo ho voluto dare un tocco un po’ spagnolo, con un volant sul fondo della manica. Lo strascico sul retro si può lasciare andare o, come nella foto, abbottonarlo per farlo rimborsare. Sul davanti ho poi aggiunto dei fiori che non volevo dei soliti colori e per questo sono rosa, quasi bianchi, ma soprattutto verdi. Del terzo non ne ho fatto niente di particolare. Ho tenuto solo un pezzo di tessuto di paillettes, per farne la maglietta sopra, a cui ho aggiunto una gonna a ruota, rosa. Il risultato non mi ha mai convinto, l’ho chiuso nell’armadio e non l’ho messo più. Quando per la strada chi mi conosce (e sa che ai miei vestiti dò sempre un titolo che spiega ), vedendolo mi chiede come si chiama uno di questi tre, rispondo che fa parte della serie: «Le spose di Bruxelles»
Tengo la mia consolazione
in un posto sicuro
segreto
La tengo di riserva
e la uso solo
di nascosto
e per necessità.
È il segno che io metto
-tra l’ultima pagina che ho letto
e quella che devo ancora incominciare
-tra il prima e il dopo
-tra il dire e il fare
-tra la sorpresa che mi è stata fatta un giorno
e l’accontentarmi l’indomani di quella che mi era stata fatta ieri
-tra il sole di oggi e il
“forse domani pioverà “
-tra il “è ancora inverno”
e il ”oh, guarda! Il mandorlo è fiorito”
È il tempo che non c’è
-rubato-
impercettibile e nascosto
-tra i minuti le ore e i giorni
della normalità.
Ma se quell’esile intervallo
interposto a scandire
-e messo lì apposta
per non dimenticare-
non fosse solo
un sottile
<tra>
una cosa e l’altra,
potrebbe essere il tutto
che comprende
abbraccia e dà
un senso
al quotidiano
vivere
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L’agenda. A tempo perso e per divertimento ho fatto anche una serie di vestiti intitolata a degli oggetti: una finestra, una tovaglia, una boccetta di profumo, un diario, una caramella, un libro, un disco, una casa e così via. Il vestito che si vede qui in fotografia l’ho chiamato «l’agenda».
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Dipinti sparpagliati sul vestito ci sono numeri telefonici disarticolati, ma sull’agenda, aperta sul davanti del vestito (sul dietro, invece, la si vede chiusa), sono elencati numeri veri di amici, alla lettera “A”
Non dico il mondo vero
ma almeno il mondo che non c’è
-perché fatto solo di parole-
dovrebbe essere pieno
di buoni sentimenti
di entusiasmo di trasporto
di impulsi di sollecitudine
di calore a braccia aperte
di dolcezze immeritate
di mancanze riempite
di desideri espressi
di speranze appagate
di maldestri tentativi in buona fede
di belle sorprese
di apparizioni magiche
di voli alti in libertà
di manifestazioni di affetto
incontrollato
di cuori sorpresi
da felicità in prova
di qualsiasi poca cosa
ma soprattutto buona
di tutto quello che dovrebbe
ma non è
Invece
questo mondo immaginario
è una stanza vuota
-in rassegnata e indefinita attesa-
mentre
nella stanza accanto
si sente solo il cane
che
dormendo
sogna di abbaiare.
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Frange. Quando mi viene l’idea di qualche tipo di tecnica da applicare a un vestito (sempre elementare, perché sono una totale autodidatta) la coltivo per un po’, inaugurando (alla maniera dei pittori) un mio periodo: di nodi, di lane cardate, di pon-pon o, come in questo caso, di frange. Le mie frange sono fatte di nastri o strisce di tessuto mescolati, di lunghezze, larghezze e a volte fantasie diverse.
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Un giorno avevo un vestito con le frange azzurre e -guarda caso- sotto i portici della Biblioteca in Piazza Vecchia, avevano montato un’installazione con frange proprio identiche alle mie.
Vieni
e scendi con me di corsa i cento scalini che portano alle rocce bianche e piatte della spiaggia di Sirmione
Vieni
e, per non perderci, attraversiamo, tenendoci per mano, la nebbia di Milano
Vieni
e accompagnami ogni mattina a scuola, attraversando piazza del Duomo, la galleria, via Manzoni,
l’arco in fondo e, camminando alla fine sulla ghiaia scricchiolante dei giardini pubblici -superato il busto di Dante nell’ingresso- arriva con me nel salone buio con gli affreschi del Tiepolo al soffitto
Vieni
e unisciti con me alle compagne mentre entriamo alla fiera campionaria di San Siro, dove fingiamo per gioco di essere francesi
Vieni
non lasciarmi sola. Impara con me a leggere in cadenza l’esametro dattilico del De Rerum Natura mentre, confinata a letto, aspetto di guarire dalla mia malattia
Vieni
e, se conosci quel paese, ascoltiamo insieme quella voce antica che recitava in classe la poesia che proprio adesso avrei potuto recitare anch’io:
«Kennst du das Land
wo die Zitronen blühn?
Im dunklen Laub die Goldorangen glühn
Ein sanfter Wind
vom blauen Himmel weht
Die Myrte still und hoch
der Lorbeer steht
Kennst du es wohl?
Dahin, Dahin möcht ich mit dir
Oh, mein Geliebter, ziehn!»
Vieni
l’appuntamento è in via Festa del Perdono, alla Statale. Prendi il braccio di un compagno nel cordone e scendiamo in piazza insieme per la Spagna, il Vietnam, la Palestina, il Cile e per difendere i diritti che crediamo più fondamentali
Vieni
non a cantare oggi le solite belle canzonette, cantiamo invece in coro con voce forte e chiara le canzoni degli Inti Illimani e degli Stormy Six
Vieni
ritorna
rimani
non lasciarmi andare.
Il mondo brucia.
Ma chi sente il mio richiamo e viene a ripercorrere con me queste malinconiche tracce del passato? Chi? Soltanto io, «quella di allora, che più non sono
la stessa»
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Cravatte. Due cravatte intersecate e unite formano una fascia che si annoda in alto sul vestito. La figura dipinta che si vede è quella del Modulor di Le Corbusier e le scale suggeriscono metaforicamente la sua funzione.
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Il panier. Procedendo senza una prefissata direzione – come la vispa Teresa a caso dietro una farfalla – solo attratta da qualsiasi novità, all’improvviso sono capitata sull’idea del vestito gonfio. Per fare un azzardato paragone, come la visibility degli Indiani d’America era data da un dettaglio che evidenziasse la loro provenienza etnica, la mia visibility è a quel punto diventata l’occupazione esagerata dello spazio. Per fortuna, per quello che devo fare nella mia giornata, non ho l’obbligo di una tenuta seria. Le mie prime sottogonne sono state strati di tulle, poi strati di balze, poi cerchi e poi anche strutture miste e sovrapposte, ancora più ingombranti. Una forma un po’ diversa che ho trovato interessante è stata quella a panier, che non è una normale impalcatura a cerchi tondi, ma si sviluppa in orizzontale per allargare i fianchi. Ho pensato di modernizzarla e invece di servirmene come supporto classico di un vestito teatrale settecentesco e lungo, ne ho fatto un buffo vestitino corto ricoperto di volants e con qualche foglia e fiorellino colorato cuciti qua e là per interrompere la monotonia.
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Il passero solitario. Uno de miei vestiti della serie «illuminata» è «il passero solitario». È un vestito invernale e ho quindi disegnato con un filo di lana cardata un albero nero, spoglio. In alto, posato su un ramo, c’è il passero. Le luci, guardate da vicino, hanno la forma di fiocchi di neve.
Grata Somaré, bergamasca, figlia e nipote di artisti (tra gli altri, il padre Guido Somaré, il nonno Giovanni Muzio, il bisnonno Cesare Tallone), ha viaggiato e scritto di popoli e paesi lontani e da qualche anno progetta e costruisce da sé “oggetti da indossare”. Li ha chiamati: “vèstiti per gioco” e sono un’ironia critica nei confronti della moda e una ricerca di fuga dalla realtà.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
16/06/2021 alle 19:50
felice scoprire chi propone tanto gioco !
17/06/2021 alle 10:40
Grazie . Sono contenta di sapere che a qualcuno piacciono i miei vestiti contro la depressione