Una nota critica di Giuseppe Martella a “Lacerti di coro” di Giovanni Luca Asmundo (Il Convivio, 2022)

 

Vocale, corale, gestuale è stata sempre la poesia di Gianluca Asmundo, dalla prima raccolta, Stanze d’isola (2017) a Disattese, coro di donne mediterranee (2019), fino a quest’ultima tappa, Lacerti di coro. Ma pur nella continuità di toni, temi e figure che l’hanno contraddistinta, si può osservare uno sviluppo, sia nel senso dell’allargamento d’orizzonte dall’isola natia, al mediterraneo e all’ecumene intero, che in quello di un mutamento di atmosfera, che diviene sempre più cupa e rarefatta nel contempo, come a rispondere alla mutazione ecologica in atto, che ora qui viene denunciata in modo inequivocabile, a partire dall’esergo iniziale dal Prufrock di T.S. Eliot, nella messa a tema della devastazione della terra e della presa di coscienza che ne dovremmo assumere.

Il tema omerico del periplo, fra terre e mari, centrale nella vita prima ancora che nella poesia di Asmundo, vira dunque verso quello del naufragio con spettatore (Ovidio), anch’esso un archetipo narrativo ed esistenziale. La probabilità sempre più alta del naufragio, unita all’inesausto dovere della testimonianza dei guasti subiti da questa nostra terra sterile consunta, così come la parola e il gesto poetico-politico che dovrebbe prendersene cura. A ben vedere sono tutti temi eliotiani, filtrati da un secolo di tradizione e perfettamente assimilati dal nostro. L’esergo iniziale apre infatti a un percorso ideale che passa per i labirinti della storia di Gerontion, per la denuncia spassionata della Terra desolata, per la meditazione metapoetica dei Quattro quartetti e soprattutto per la pervasiva coscienza corale di Assassinio nella cattedrale. I cori delle donne di Canterbury in questo dramma sono infatti quanto di più vicino alla tragedia greca il Novecento abbia saputo produrre, e possono essere considerati un modello lontano delle Disattese e in verità di tutta la poesia di Asmundo, che ha le stigmate del coro tragico nelle sue fibre interne così come nelle sue forme esteriori.

I suoi versi hanno l’andamento di un coro itinerante e ondivago, costellato di archetipi quasi scolpiti sulla roccia, come quello del vecchio “sordo e sdentato”, seduto su una seggiola di vimini, sulla soglia di una casa siciliana, mormorando “unne sunnu, unne fineru” (“dove sono, dove sono finiti”), o della donna cieca, muta, immobile, le cui fattezze si fondono con la matericità della sua terra.[1]

Eppure i riferimenti alla storia recente e alla cronaca dei giorni nostri non mancano di certo, ma si tratta di un realismo rituale, che in quest’ultima raccolta vira verso una rêverie ad occhi spalancati, un incubo e una farsa collettivi (36) in cui tutti gli attori appaiono come burattini manovrati dal Moloch del mercato. E si esprime nella forma ipotetica che domina l’intero componimento, come se appunto nessuna affermazione fosse più possibile, nessuna fede o certezza, nel mondo del rischio assoluto, della allucinata trasparenza di ogni contorno e della vertiginosa ridda delle alternative che si rivelano per lo più vicoli ciechi. Quando nessuna tesi è praticabile rimane solo l’umiltà dell’ipotesi come rifugio di una residua speranza messianica: “se ci riducesse a minore, scevri/ di rumori di fondo, potremmo,/ riporre al sicuro ogni ricordo/…e riusciremo a tramutare in cosmi/ le nostre colonne in rovina.” (52) Nell’abbandono paratattico all’erranza, alla fluidità materica, alla risacca del mare sfinito dell’esserci, (59) in una danza dove si fondono linguaggio e mondo, corpi e parole, in una coreografia terminale di quello sparagmos dell’inconscio collettivo in cui i lacerti del coro e le membra del mondo vengono chiamati al proscenio (56) prima dell’estremo saluto sullo sfondo delle città sacre (Siracusa, Thugga, Biblos), siti archeologici e luoghi dell’anima, sulle sponde opposte di questo tormentato mare nostrum. (57sgg.)

A concludere quest’appassionata, itinerante archeologia del potere che costituisce l’ultimo approdo a oggi dei peripli che Gianluca Asmundo intraprende ormai da una quindicina d’anni, sia nella sua vita che nella testimonianza poetica che ce ne offre.  

Ricordo un mio scritto su tali peripli, apparso alcuni anni fa su Versante ripido, (n. 4, Ottobre 2019), e a cui mi pare ora opportuno riallacciarmi, alla luce di questa ultima prova di Asmundo, che ha il mediterraneo nel sangue e di cui apprezzo soprattutto la capacità di progettare il futuro a partire dalle rovine del passato, con l’occhio veggente di un ciclope nomade, con l’empatia di un coro di donne mediterranee che attendono da sempre “l’amaro ritorno delle cose perse”. Questo giovane è un progettatore di percorsi e luoghi di incontro, nel e oltre il tempo, uno capace di restituire l’aura di un paesaggio esistenziale coniugando consapevolmente la precisione del dettaglio fotografico e l’evocazione della parola poetica. Perché la sua poesia scaturisce dal progetto ecologico e politico in senso pieno, contenuto nel blog da lui diretto, che reca appunto il titolo di “Peripli. Topografia di uno smarrimento.” E quale titolo avrebbe potuto essere più azzeccato per la sua impresa e più rilevante per la nostra attuale condizione umana? Se ci si prende la briga di visitarlo, ci si accorge anche che ogni approdo lì censito corrisponde a una tappa della via crucis del cantastorie che da tempo immemore si studia di ricucire lacerti di un coro marginale, dove le figure delle comparse della storia assumono di volta in volta un rilievo semionirico, surreale, in una luce neutra ma cangiante, con lampi di bufera sullo sfondo e echi della risacca del mare offeso, che si odono pure nelle piane deserte, riarse da un sole impietoso – in una messa in scena che, tra foto e reportages, mescola la tragedia e la commedia, contaminando lingue e dialetti, in uno sfinimento reciproco di linguaggio e mondo, in un avvicinamento asintotico al punto in cui la parola coincide con la cosa e la singolarità di ogni nome sprofonda nell’anomia del gesto indicale che non può mentire: questo, quello; qui, là. Noi ci troviamo tutti e ciascuno, isolati, smarriti, chiamati a comporre “lacerti di coro”, membra di un unico martoriato corpo terrestre, echi di un unico prolungato lamento. Così recita il testo: “lacerti di coro noi saremo/ di sagome disarticolate/ danzanti su crinali impietosi.” E (con echi dal precedente Disattese. Coro di donne mediterranee) “saremo radici d’inadempienza/ …/ velate aspetteremo sulla riva/ l’amaro ritorno delle cose perse”. (12) Consunti, impietriti, gettati nell’aperto, “fiati traslucidi, ma in pietra spessa/ ben oltre il ricettacolo del cosmo”, salmodianti il lutto della terra riarsa, sterile, “Screpolati piangeremo l’increato.” Lacerti di coro in dissolvenza, corpi di parola scarnificati dal lavorio del tempo: “i nostri corpi troveranno posto/ nell’assoluta diacronia del vero.” (38) Ciottoli levigati “custodi delle voci degli aedi/…un destino comune patiremo/privato di memoria e di catarsi/ fino al consumo di giorni caduti” (17), “echi delle voci dei dispersi/…tra colpi di remi senza cetra né versi”, confusi allo sciabordio delle onde in un lamento che si fa preghiera: “Risacca perpetua e per rispetto muta/ reca conforto agli scogli anneriti/…prendi in custodia la costa che arretra/ per altri addolcisci il limone promesso/ e per noi serba nell’abisso/ quest’àncora buona, di pietra.” (19) E infine estrema, elementare offerta alla terra offesa: “raccoglieremo scintille di lava/ in sciare gemmate nel cavo notturno/ e fra le spume sui fianchi neri/ le porgeremo con mani profonde/…fino alla coltre disfatta del mare.” Fra echi di miti antichi (50) e care favole siciliane come quella della Lunaria narrata da Vincenzo Consolo (43), con una conclusiva ricognizione della prepotenza della tecnica che annichilisce il senso di ogni azione riducendolo all’iterazione meccanica (53), sull’estremo orizzonte degli eventi infausti che paiono attenderci, sullo sfondo delle antiche città sacre, Siracusa, Thugga, Biblo, sulle due opposte sponde del mediterraneo. Grazie Gianluca per averci offerto questa schietta, spassionata, disadorna, testimonianza del nostro comune smarrimento.

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[1] Stanze d’isola, Oedipus: pp. 24, 30.