Osservatorio Poetico di Sonia Caporossi | Stefano Bottero

 

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                                            Per Mario Benedetti

È già molto dal punto di vista della relazione
avere più di un quarto d’ora per guardarti
vestire
inalare l’eterno in aerosol di complessi,
                             —l’inverno di Nimis –
la responsabilità morale dei nostri sogni.

Non hai bisogno della voce
non distrarti. Ti scongiuro.
A poco a poco scompariamo da quando siamo nati
e qualcosa in me si spezza ogni santa volta
che scrivo hai scritto hai detto “hai abitato abbastanza
il corpo”.

(da L’age d’or)

*

A Dario Bellezza, poeta

Mi hai letto una sera
come favola della buonanotte
tutti i tuoi dubbi di strano distacco,
di autocommiserazione.

Sei per me il desiderio di un passante,
l’attesa snervante in una copisteria.
Sei le ciglia perfette di un corpo non tuo
vestito di sbagli, di amanti drogati.

Stinge di vita questa tua insistenza,
sorge ostinata questa tua finzione
egocentrica figlia
della fermata successiva.

– vorrei solo cullassi anche la mia
                                     disperazione.

*

io non ho più mani.
                     fretta
di camminarti in gola come
scale – quando è tardi
rame
                                   sottratto ai cavi.

Bianca – il tuo sangue non ha direttive
domani non c’è.

(inedita)


Stefano Bottero è nato a Roma nel 1994. Poeta e letterato, è laureato in Filologia Moderna all’università La Sapienza. È redattore delle riviste «Polisemie» (Warwick University Press) e «Bezoar» (Giulio Perrone Editore). Collabora con realtà editoriali italiane e internazionali come traduttore e critico. Oèdipus Edizioni ha pubblicato nel 2019 la sua raccolta d’esordio, Poesie di ieri, vincitrice del Premio Città di Como come Opera prima.

L’ossessione della memoria, del ricordare quello “ieri” presente nel passato di tutti fino all’immedesimazione primaria nell’originario e al tentativo di superarne la vertigine del vuoto è onnipervadente nella poetica di Stefano Bottero, giovane poeta la cui passione filologica per il Novecento letterario si raddensa in una modalità dialogica sottesa anche ai testi più monologici e personali, modalità che abbraccia il sentimento della grandezza dei Padri a cui rapportarsi con il rispetto e la dolcezza dovuti a chi ci offre un rispecchiamento identitario e ci dà forma. In particolare, nei testi qui presentati, Bottero si rivolge a Mario Benedetti, a Dario Bellezza e, probabilmente, a Biancamaria Frabotta, della cui nobile voce egli si definisce spesso, nelle proprie note biografiche, come “l’ultimo degli allievi” (alla poetessa romana non da molto scomparsa vogliamo pensare che sia ispirata la terza poesia, inedita, che qui pubblichiamo in anteprima). Si tratta, tuttavia, di un dia-logos, un discorso passato-attraverso e, in quanto tale, metacronicizzato, ovvero sottratto dal suo contesto d’uso per essere proiettato nel qui-ed-ora, in scenografie d’interni evocativamente intimiste e autobiografiche, che nulla hanno a che fare con l’omaggio patente, l’imitatio o la piaggeria, bensì hanno l’esito di scandagliare il fondamento sentimentale degli autori dedicatari cogliendone un istintuale residuo di fondo che risuona in una dimensione altra a permeare la poetica dell’autore stesso, fino alla perfetta fusione di geometrie estetiche e di intenti. Si badi bene: questa operazione si compie nella consapevolezza del nulla, dell’antitesi indecidibile che separa il desiderio dalla disperazione, nella descrizione per istanti e immagini di una vita vera anche laddove sia fabula ficta, nella potenza e nell’atto. Perciò: se la parola poetica è storicamente un circolo dialettico virtuoso in cui l’anima dell’uomo annega per rivivere e perpetuamente ritrovarsi, e se proprio Benedetti si domandava in un suo verso: «Povera umana gloria/ quali parole abbiamo ancora per noi?», allora il senso dell’operazione botteriana di trapasso poetico e corrispondenza d’amorosi sensi e significati si apre a interpretazioni metanichilistiche che vanno ben oltre la fascinazione del vuoto. Stefano Bottero, in qualche modo, sembra far propria la domanda benedettiana e dirci che, oltre il Novecento, le Avanguardie storiche e la tentazione pacchiana del Postmoderno a cui tutti siamo soggetti, vige ancora la possibilità di una poesia sincera, che esprime senza pose un contenuto che non rigetta la forma e che beve linfa fresca dalla lettura del proprio mondo interiore.