Traversando azzurri destini, nota di lettura di Annarita Nutricati a Il cielo degli azzurri destini, di Marcello Buttazzo, edizioni de i Quaderni del Bardo, 2021
Esiste una calcografia poetica che incalza il piano materico per sottrarne con ammirazione tattile le forme ed assilla visivamente la parola perché assorba le variazioni cromatiche, ammettendo, poi, all’allentare del gancio versificatorio, che lo sforzo si è distolto dallo scopo per cedere, ovunque, all’indefinitezza, allo spaziamento, alla dispersione immaginativa.
L’opera di Marcello Buttazzo si placa di tale stringente intaccatura e di quella stessa aporia o stacco che la impedisce, appuntandola ad un tempo asistematico, di presagio, di attesa.
Nulla, tuttavia, di quanto sia stato trattenuto con spasimante volontà di aderenza e prezioso maneggiamento lessicale; o, al contrario, evaso per invadente, preferenziale astrattismo, lesina nella grammatura lirica e nella sottotraccia psicologica.
Il descrittivismo sfarzoso scantona la passività aggettivale, di metodo, per luminare in figurazioni anagogiche.
“Guardai / nel tuo cielo, il cielo degli azzurri destini, per ritrovare tracce di me”.
Il verso posto a titolo della silloge (pubblicata da I Quaderni del Bardo edizioni, 2021) veste il tentativo psicofisico di una riassimilazione identificativa.
Lo sguardo che trapassa, eccitato dalle vie ottiche per giungere all’etra, equivale, nel suo telos, ad un allegorico atto fecondativo, non di nascita, ma di incline e necessario rinvenimento dell’essere, all’interno di un universale ventre resurrezionale.
Guardai
nel tuo cielo
e ti vidi vestita d’organza
tinta di luna.
Guardai
nel tuo cielo
il cielo degli azzurri destini,
per ritrovare tracce di me.
Incontrai
l’ardore
lo scompiglio d’un fiero pensamento
le mani intrecciate
che ti stringevano a me.
Trovai
il sole
e quell’avvincente barbaglio
che sortiva clandestino
e faceva impazzire gli astri lontani.
Guardai
quel tuo velo
ricamato di bianco.
Il bianco
nitore di giglio
sempre presente
nei tuoi giorni
d’ incontaminato ciclamino
d’inverno.
La gnoseologia che introduce l’osservazione come misura preliminare di ogni specifico contatto mira, nel suo sviluppo, al completamento informativo all’interezza chiarificatrice.
Non così nell’indirizzo di indagine di Buttazzo in cui l’oggetto coincidente con il soggetto punta al rilevamento dell’indizio, alla reminiscenza esterna e minimale, ovvero a quelle casuali, sperdute “tracce di me”. Ad un infinitesimo che assurge a fondamento.
Si conferma, altresì, per opposta inferenza, che, del soggetto-oggetto, la componente avulsa si sia lasciata svanire tra le anonime partiture del silenzio, affinché il più della parte resti canonicamente ignoto.
La bianchezza cangiante dei tessuti lunari culmina, per mezzo dell’anafora verbale “guardai”, nell’iride fisionomia del cielo il cui valore implicito di sineddoche del volto femminile induce il poeta a specchiarsi, avido di segni, nell’anima siderale. Ma ogni sguardo catartico diventa promessa di incontro, ossia corpo in gestuale, febbrile dialogo: da qui “l’ardore”, ” lo scompiglio”, “le mani intrecciate”.
Alla mantica selenica che, paradossalmente, verteva non allo scoprimento dell’avvenire, ma alla cifratura dell’origine, del già vissuto e che conserva del sacro, l’intangibilità, la verecondia, subentra, ora, improvvisa, la carnalità, il vivo sentire, il rifluire malizioso del sangue.
Un “avvincente barbaglio” è bastato a mandare in visibilio il creato e la solitudine immersiva del poeta.
Ma la visuale riconoscitiva come il pensiero agogna la perfezione ciclica e deve, pertanto, ritornare in chiusa alla purità preservata del “velo”, al latteo incenso del “giglio” che di sé ha coperto la resistenza vermiglia del “ciclamino” nell’alterna continuità delle stagioni.
Narrami
le maree turbolente
delle distese sterminate.
La voce del mare,
il suo murmure
che evoca vite-tempeste
e vite limpide azzurrate.
Narrami
il fruscio del vento
i giorni, i minuti.
Il corpo,
al lume diffuso
d’un desiderato amore.
L’amore
di veder
l’aurora che ritorna
nonostante l’incupirsi della notte,
nonostante la perfidia delle ore.
L’amore
di vedere
il sole-saetta,
giallo vivo
fulgore e ardore.
L’amore
nient’altro che l’amore
di sentirsi
ancora vivi.
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