Piazzale Libia di Giampiero Neri, di Giancarlo Baroni

      

Ognuno di noi ha un luogo che occupa il centro del suo cuore, un luogo che, col passare del tempo, si circonda di un alone fantastico ma che resta contemporaneamente reale, palpabile, geograficamente identificabile. Questo posto dell’anima e del corpo è, per il poeta Giampiero Neri, Piazza Libia, a Milano. Così la descrive: “Piazza Libia è un grande quadrato. Quattro vie, tutte alberate, che provengono dai quattro angoli del mondo. Nel bosco della piazza sono duecento gli alberi che dimorano, platani in prevalenza ma anche pini, e arbusti di melograno, forsizia e altre specie”.

Essenziale, conciso, laconico, né una parola in più né una parola in meno, Neri sembra descrivere e raffigurare una sorta di hortus conclusus, un microcosmo protetto dove il particolare e l’universale, il circoscritto e l’illimitato, si incontrano favorevolmente. Nella piazza la natura si mostra rigogliosa ed esuberante però al contempo risulta ordinata secondo un disegno geometrico che le dà forma.  Anche la creatività artistica e letteraria, d’altronde, risponde forse agli stessi criteri e alle stesse modalità: al florido vigore dell’intuizione si accompagna il misurato controllo dello stile.

L’autore, che i toni preferisce raffreddarli piuttosto che accenderli, offre della piazza un’ulteriore e più concreta e precisa descrizione: “Per la sua particolare attrattiva, fatta di piante e cespugli di fiori, Piazza Libia sembrerebbe un luogo riservato, esclusivo, ma non lo è. È rimasto fedele alla sua vocazione iniziale, di prato dove giocavano i bambini, dignitosamente popolare”.

Piazza Libia non solo è il titolo del recente libro di prose poetiche di Giampiero Neri, pubblicato dalle edizioni Ares, ma è anche il luogo dove lui abita e vive quotidianamente: vita e letteratura si intrecciano indissolubilmente. La scrittura qui scaturisce dall’esperienza giornaliera del poeta che parla di sé in relazione alle persone che incontra e con le quali si intrattiene e conversa, che osserva e ascolta e saluta cortesemente.

Fra i vari personaggi che frequentano e animano la piazza, quasi fosse un palcoscenico, una finestra spalancata sulla scena di un mondo circoscritto, svetta Giovanni. Cinquantaquattro anni, di statura media, più grasso che magro, dall’aspetto trasandato ma non sgradevole e dallo sguardo vivace, senza fissa dimora (dorme in un box del fratello). “Di solito è seduto su una panchina” da cui osserva lo spicchio di realtà che gli sta di fronte. “Nei nostri brevi incontri”, confida Neri, “è solitamente Giovanni a tenere il bandolo della conversazione”.  Giovanni campa di benevolenza altrui ma conserva una ruvida dignità e soprattutto sa quello che dice e lo esprime bene, parla e pensa con saggezza, è perspicace, però in certe circostanze, quando è di malumore, si comporta in maniera sgarbata. Un argomento che gli sta a cuore riguarda la nostra identità: “I nostri difetti ci caratterizzano, sono la nostra vera natura…I nostri difetti siamo noi”. Molto abile nel gioco del sudoku, solitario però non emarginato né isolato, “conosceva tanta gente, uomini e donne, e considerava tutto questo una ricchezza”. Le conoscenze di Giovanni sono numerose ma le amicizie rare: un benzinaio e Attila, un comunista ungherese profugo dell’Est”. È innamorato di Maria, indigente come lui, che “non lo respinge ma nemmeno lo incoraggia” e che non ha tempo per l’amore avendo un figlio adolescente malato.

Piazza Libia accoglie anche altre persone e figure come ad esempio il giornalaio e la sua aiutante, giovane e gentile, il fioraio del Bangladesh che crede che il nostro tempo si stia avviando verso la fine, un ospitale rilegatore dalla bottega stracolma di libri, un panettiere laureato in lettere e l’architetto Alessandra che “dava sempre l’impressione che a essere importante fosse il tuo interlocutore”, le donne ucraine che la domenica popolano la piazza trasformandola in “un’isola linguistica”.  Insomma “Nella libera circolazione di piazza Libia si rappresenta un campionario di varia umanità” che l’autore, come è solito fare, ritrae con pochi e magistrali tratti, con aggraziati e arguti sentimenti di benevolenza, restando sempre sobriamente sulla soglia, partecipe senza invadenza, adottando un atteggiamento da “spettatore interessato” alle vite altrui così ricche di esperienze, di storie e aneddoti, di sfumature e di mistero.