Le tue labbra come angurie fresche (note di lettura di Annarita Nutricati a E se nel giallo ti vedrò sarà per tenere acceso il sole, di Marcello Buttazzo, edizioni I quaderni del Bardo, 2023) 

 

Non un bisbiglio di luce a voltolare nel buio, ma evidenza piena, entelechia nella nuova silloge di  Marcello Buttazzo dal titolo cromaticamente in sequela colla precedente produzione: E se nel giallo ti vedrò sarà per tenere acceso il sole (ed. I Quaderni del Bardo, 2023).

La presupposizione figurativa in un locus traslocato nel fulvido impegna sia un senso epifanico che la facoltà di connotarlo oltre l’abbaglio e la fabulazione. ‘”Terrore /di non saper riconoscere/il volto/ di chi più ti desiderò…” , scrive per un malvenuto pensiero il poeta.

 

Il disegno volitivo che diffida dei canonici cronotopi non scorda, tuttavia, il sostrato di appartenenza che rende l’essere rispondente alle squadrature logiche del reale. Così il caposaldo del ritorno si volge ad una permanenza dell’apoteosi, per consolidare una coscienza empirica e debitamente eliotropica, “ tenere acceso il sole.”  Il progetto è iperbolicamente divino, ma il bisogno che lo nutre è il più profondamente umano :non scolorare la felicità nell’attimo stesso in cui il poeta sfila dalla débâcle arti da miraggio e rutilanti rinascenze.

La sazietà sollecitata dal pregusto pare giungere da lontani confinamenti, da una fame tattile ed elocutiva, di per sé, originaria e colta che infuoca il contegno del simbolismo classico e l’uso costrutto delle similitudini con lo sgorgo inselvatichito dell’assillo. 

 

E se nel giallo/ ti vedrò/ sarà per stringere/ il fiore del tuo grano./

Liscia / la tua pelle/ castagna da mangiare./Le tue labbra come angurie/ fresche d’estate. / E se ti incontrerò/ sarà per lumeggiare/ la notte/ per seguire la scia / della tua stella/ che mi guida/ anche nello scuro /ancora/ancora/ancora.”

 

L’anafora conclusiva apporta continuità, maciulla nell’oro il nero disagio dell’assenza distraendo con inebriature di godimento la secca dell’abbandono. È una sorta di ontogenesi poetica che si scaltrisce per morsi di voluttà: non acerbità che allappano, ma frutti prosperi di erotiche delizie alla ricolmatura delle stagioni, non le trappolerie della notte, ma chiavi sideree.

Gli sghiribizzi dell’amore spaziano in  solidarie antropologie: sbatacchia tutta l’umanità che porta addosso i solchi cari della catena. E il soggettivismo lirico non enumera ricordi processionali, circostanze identificatorie, ma si immerge in ogni fremito per risalire dall’osmosi emotiva alla superficie, nel pari mescolio.

 

“E quest’ansia /sopraggiunta/come un’onda,/cos’è non il patema di tutti?/E questa incertezza/che m’afferra/ e non mi lascia /cos’è se non un segno, un’avvisaglia?/Timore /che la morte fisica/venga/senza prima aver potuto amare/ pazzamente…”

 

La dimensione temporale penetra, solo, nel suo limite estremo ed è fin lì che il poeta con audacia si spinge, non bramando la salute stoica dell’anima, ma la malattia nelle sue forme più dissennate e tacciabili.

Su tali traiettorie confessionali mancano le medietà, i transitori accomodamenti, le fole per arginare l’inganno.

Come ben puntualizza nella nota introduttiva il poeta Vito Antonio Conte: “…la novità è nell’introduzione decisa del tema della morte e del suo mistero. Si tratta di versi resi col solito impasto di sillabe, neologismi e stilemi e predicati cari all’Autore […]declinati e coniugati febbrilmente si dà evocare immagine tetre e coloratissime[…]in un effetto musicale provocato dalle assonanze, dissonanze e allitterazioni…”

 

Il presagio è madreforma  dell’avveramento e lo scenario è quello notturno della   concupiscenza. E poco si reclude nella segretezza quando, finanche, l’inanime creato si congiunge al palpito sovrano degli amanti.

 

“Presto verrà/la sera/e t’avrò qui,/turbamento dei sensi/ scuotimento/ luna e stelle./

Estasi definitiva”.

 

Rimani ancora, pare supplicare l’uomo, mentre “estasi definitiva”

pronuncia con perizia scultorea il poeta Il rapimento mistico, per  principio primo, trascendentale attraversa le nervature protese del corpo. Ed è nel mezzo di un sospiro emulo che il poeta scalza, con ossimorico slancio aggettivale, il pericolo dell’episodicità, dell’evento.

 

E alla fine quel che tiene sarà pure un sole ricomposto, sfregio dopo sfregio, dalle mani pietose di Iside, ma è segnatamente il benedire del poeta di ogni giorno gramo ,del grano marcito, dell’amore non riannodato a meritare il più prodigioso degli idilli;

 

 

…ma inesausta persiste/ la voglia di scompaginare il tempo./La voglia di amare intensamente/ il giorno e la notte/ le stelle storte/il meriggio quieto d’estate,/ le stagioni perse/ gli angeli di passaggio/ il sangue imprigionato./ Fluiscono gli anni /,ma sentirsi addosso/ sulla pelle/ ancora e nonostante tutto / il profumo d’una musa assente/ è la più strepitosa cifra/ d’una gioia invincibile”.