Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su <<Vora>> di Mara Venuto (peQuod, 2023)
Vora, id est voragine. Già il titolo che Mara Venuto assegna alla sua silloge, ci proietta ex abrupto in un’esperienza catabatica, in una sorta di descentio ad inferos che è, simul, personale e collettiva.
L’opera restituisce – così ci sembra – l’autoanalisi di un vissuto ab imo corde, la cui diegesi poetica prende l’abbrivio dalla prima infanzia, per poi muovere verso l’inquieto transito adolescenziale, fino all’approdo, mai pienamente appagante, dell’esperienza giovanile.
Viene alla mente il verso incipitario d’una lirica di Durs Grünbein: <<Qualcuno dice cratere, ed ecco, vi precipiti dentro>> (cfr. Le parole non dormono, p. 85, Crocetti Editore, 2023).
Ed è proprio l’idea del precipitare, la verticalità che muove dall’alto verso il basso che fa da leitmotiv all’intero corpo testuale (cfr. p. 15, <<la caduta>> e, a fortiori p. 18, <<si apre il buco in cui sparire>>) cui la Nostra associa l’horror vacui del vanire, nonché del percepirsi esiliata da un Eden perduto, da quell’Uno primordiale – che non pare recuperabile – anche evocativo della vita intrauterina (cfr. p. 17, <<lasciare i ricordi in utero>>).
Le strutture versali, in termini semantici o contenutistici, recuperano i signa sacramentali della ritualità cristiana, seppure declinati in un’accezione più lata e laica, non precipuamente confessionale. Si notino all’uopo lessemi quali <<caduta>> (cfr. p. 15), <<altare>> (cfr. p. 16), <<sudario>> (cfr. p. 19), <<confessione>> (cfr. p. 21), <<reliquiario>> (cfr. p. 24) et similia, assunti non tanto (o comunque non solo) quali referenti del Totalmente Altro, poiché sovente contestualizzati in un esistenzialismo dal mood sartriano oscillante tra Essere e Nulla (cfr. p. 26, <<L’impeto e il nulla>>) o in quel dasein heideggeriano che deve conoscere anche la verità del Sein-zum-Tode (id est, dell’essere-per-la-morte). Esemplificativo, sul punto, tra gli altri, il verso di p. 22, <<(…) morti in equilibrio sul filo / tra il vuoto e il vuoto>>.
E tuttavia la vacuità, la vanitas vanitatum che non è peregrino ricondurre alla sapienza qoelettiana o all’<<infinita vanità del tutto>> del poeta di Recanati, per quanto topics iterati nel corpus lirico a guisa di basso continuo, debbono essere intesi non quali sterili lamenti, ma quale presa d’atto d’un reale che è anche attraversamento del dolore e, simul, profondo desiderio di opporsi alla resa, al <<languore>> (cfr. p. 21) o – si potrebbe dire recuperando Sarte – alla nausea <<dell’acido / nella sacca gastrica>> (ibidem).
Il télos, l’orizzonte cui tende la Venuto, è quello di <<Salvarsi la vita / dall’angoscia di trovarci già grandi / e soli in questa storia>> (cfr. p. 24); la sua, allora, non è voce disperante, se è vero – come la poetessa ci ricorda – che l’atteggiamento da assumere nei confronti del fatto terminativo è quello di accorgersi della bellezza comunque presente nella Storia, della genuflessione, dell’inchino.
In mezzo alla nuda bellezza dei gesti,
la mano che tocca
non ha ribrezzo delle spoglie animali.
Mi inchino al lutto, alla perdita
di ogni visibile orpello, pure così necessario.
Le inezie, le nugae, ciò che si direbbe irrilevante è invece oggetto dello sguardo della Venuto, nella quale abita quella nostalgia di innocenza che riscatti dalla colpa; il suo è desiderio edenico di purezza o di non contaminazione (cfr. p. 37, <<il silenzio della neve prima che soffra / un’orma scura sull’innocenza>>), immagine, quest’ultima, che rimanda al prototipo dell’uomo prima della caduta, come narrato nel primo libro veterotestamentario.
Ed è poesia dell’attesa, atta a ripensare il tempo non più in senso cronologico ma cairologico, al fine di recuperare una temporalità qualitativa, densa di senso, che fa dell’epifania di ciò che viene, di ogni avvento, lo spazio privilegiato di auscultazione e, quindi, di apertura all’alterità.
Sulla tua bocca
le strade della città di notte,
il silenzio della neve prima che soffra
un’orma scura sull’innocenza.
Insieme cerchiamo un posto al nero,
una casa al rumore complesso.
L’avvento è il nostro tempo,
un respiro di ferro nelle narici
quando il cielo si straccia
e scopriamo da soli
quello che altrimenti viene.
Mara Venuto è nata a Taranto nel 1978, vive a Ostuni. Tra le sue pubblicazioni premiate: i monologhi teatrali Leggimi nei pensieri (2008), The Monster (2015, testo finalista al Mario Fratti Award 2014 di New York per la drammaturgia italiana); le raccolte poetiche Gli impermeabili (2016), Questa polvere la sparge il vento (2019), La lingua della città (2021). Ha collaborato con note testate giornalistiche pugliesi, televisive, cartacee e online; in qualità di ghostwriter ed editor ha curato romanzi di grande successo per editori nazionali. Ha curato e pubblicato alcune antologie di prosa e poesia, tra cui un ciclo di volumi al femminile; è inclusa in numerose opere collettive di poesia, prosa e teatro; è presente in monografie critiche dedicate alla poesia italiana femminile contemporanea. Suoi testi originali e corti teatrali sono stati rappresentati con buon riscontro di pubblico e critica. Sue poesie sono state tradotte e pubblicate in sette lingue. È stata ospite di Festival internazionali di Poesia, tra cui: IX Festival di Poesia Slava a Varsavia nel 2016; XV Festival Trirema e poezisë Joniane a Saranda (Albania) nel 2021; XXVI Festival Ditët e Naimit a Tetova (Macedonia) nel 2022. La sua raccolta di poesie Vora in versione inedita, è menzione d’onore al Premio Lorenzo Montano 2021; finalista al Premio di Letteratura Contemporanea Bologna in Lettere 2022; seconda classificata al III Premio Letterario nazionale Gianmario Lucini 2022.
Lascia un commento