A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Paura che la gioia sia troppa e immeritata (note di lettura a Paola Loreto, la poiesis dell’attenzione, Macabor editore 2023)
La Macabor editore ha avviato un ambizioso progetto: pubblicare in venti volumi antologici i più significativi poeti del nord. Il primo volume è già uscito, dedicato a Gian Mario Villalta, è in uscita il secondo volume, che raccoglie poesie di Paola Loreto. Il terzo avrà come protagonista Ramella Bagneri, e il quarto Milo De Angelis.
Sfoglio la raccolta antologica dedicata a Paola Loreto, salto il ricco, variegato, sicuramente interessante apparato critico, lo rimando al dopo lettura, mi pare una saggia decisione. Dunque all’inizio, tra le primissime poesie, scopro questa:
In visita
Nell’angolo lumente
t’intravedo, rara,
liscia la pelle al volto.
Sorridi
e non sorridi, ma mi piaci e plachi
il moto errante del respiro.
S’è quietato, il tuo,
forse per sempre,
ma ti piace – pare –
il dimorare nel velo
sottile dell’assenza.
Non temere ch’io non temo
lo svanire del sentirti
e del saperti chiara
e trasparente d’aria.
Qui indubbiamente c’è della musica, ma non solo. Mi chiedo se il mistero della poesia non dipenda anche da un fattore chimico, e quindi non solo da una sapienza derivante da un orecchio musicale, ma proprio da una manipolazione alchemica. Leggo sul dizionario il significato di alchimia: – Scienza empirica del passato, spesso a carattere magico, che tentò, tra l’altro, di trasformare i metalli meno pregiati in oro e di creare l’elisir di lunga vita mediante la pietra filosofale; da essa, per lenta evoluzione, è derivata la chimica -.
Credo che anche la geometria abbia una sua precisa e precipua funzione, nel delineare il perimetro dettato dalla scansione ritmica, nello stabilire i confini del verso in maniera netta, ma la funzione principale sta nella capacità d’impastare la lingua, di estrarre dal metallo vile di ogni singola parola il perfetto incastro che consente alla collanina di parole di prendere il volo e diventare l’oro della poesia. Da quale altra magica arte viene fuori quella perfetta sequenza: – lo svanire del sentirti / e del saperti chiara / e trasparente d’aria -. Qui nient’altro che la sapienza alchemica derivante da infiniti impasti e sperimentazioni, e da costanti e importanti letture, che alla fine hanno reso la mano scaltra e avvezza alle combinazioni, al perfetto dosaggio di consonanti e di vocali, di pieni e di vuoti, di colori che si sposano con la felicità e la naturalezza dei contrasti.
Qui siamo nell’alta cucina della poesia. Non c’è ingrediente che non sia perfettamente e serenamente al suo posto. Come la parola “lumente”, di cui non trovo traccia nel vocabolario, ma che tuttavia assolve alla sua funzione in maniera più che egregia. Qui, sebbene sia al momento accampato presso la terza soltanto poesia, si annuncia una meravigliosa festa della lingua, e non posso non ritornare a una bellissima citazione tratta da un libro di Giorgio Agamben, Il fuoco e il racconto: “Scrivere significa: contemplare la lingua, e chi non vede a ama la sua lingua, chi non sa compitarne la tenue elegia né percepirne l’inno sommesso, non è uno scrittore”.
Qui la lingua si erige festosa e tuttavia sfoggia la sobrietà della modestia, cerca di non darlo troppo a vedere, si trasforma in oro ma evita di proclamarlo. Eruzione ed erezione della lingua ma senza enfasi. Ecco che spostandomi di appena tre poesie, trovo una dichiarazione illuminante: “Pedalavo, stasera, / e mi chiedevo di dove / m’è nato questo rovello / dell’esattezza”. Il rovello dell’esattezza non attiene forse alla felicità geometrica del testo? all’abilità alchemica di trasformare vili parole in parole capaci di spiccare il volo? in musica bastante a sé, in operazione conclusa per sempre? Non posso dire di conoscere a fondo la poesia italiana, e tuttavia esiti simili li ricordo in Ripellino, in Zanzotto, stupende sinfonie verbali capaci di affascinare anche senza penetrare a fondo quello che si chiama contenuto. O messaggio. Dimenticando che il contenuto è l’aver infilato una dopo l’altra una collanina di parole che celebrano un meraviglioso sposalizio.
A proposito dei temi trattati, nel contributo critico firmato da Gabrio Vitali trovo questo brano illuminante:
– la poesia di Paola Loreto, passando culturalmente per l’ecopoetry americana e tuttavia sviluppando una sua precisa matrice originaria, si propone nel tempo come ecopoesia, cioè una poesia nella quale la natura non è vista come scenario in cui si svolge o viene rispecchiata la vicenda interiore del soggetto lirico, ma, per usare le sue parole «come la propria casa, un’estensione del proprio corpo, il mondo reale che potremmo abitare ed essere felici […] e ricordando che siamo natura e che essere un corpo, invece di averlo, è una grazia». –
I contributi critici evidenziano nella natura e nella montagna i principali agenti dell’ispirazione, e sicuramente è così. Tuttavia a me sembra che questi temi siano l’occasione esterna per fare la punta alla lingua, per affilare la lama delle parole, e che quel “rovello dell’esattezza” sia in realtà il motore principale del discorso poetico. Scrivere questi versi: – Stanno in attesa / i colli di corallo / gli occhi delle case / aperti al nulla – dichiara che è quel tipo di esattezza il più soddisfacente dei traguardi.
Ci sono autori i cui versi denunciano sempre e comunque, al di là del tema trattato, un entusiasmo che deriva dal gesto creativo, una gioia che scaturisce dall’impegno artigianale, un’eco di piacere che vibra direttamente nella concatenazione delle parole.
Sui propri passi
Sono tornata a far giornata su per i sassi
che portano al Brunone. Sono sola un’altra
volta, ma col cuore che pesa e non vuole
reggermi così in alto. Ho paura. Paura
del freddo e della luce, paura che la gioia
sia troppa e immeritata. Eppure incontro
chi come me non parla e sale
e si sdraia al sole di fine ottobre.
Siamo insieme in questo nostro amore
irrimediabile per le cose e il sacrificio
senza motivo che le cose vogliono
per essere, per avanzare, per prodursi
un’altra volta e esser nostre in un istante
solo, che paghi il tempo speso nell’attesa.
Mi fermo ogni due passi per lasciare
il passo al respiro. Non voglio
sapere se ce la farò. Per ora vado,
come posso vado e guardo al monte
che ho mancato di raggiungere la scorsa
estate e che un arco di bianco oltrepassa
adesso, in una linea per sempre incompiuta
che mi guida, nel blu perfetto e senza macchia,
come la neve, la morte che ci chiama,
la vita che ci aspetta, quando osiamo
passare al di là di questo ponte
di tronchi spaziati per bene sull’acqua.
Tezzi Alti, 27 ottobre 2002
° ° ° ° °
Disincanto
Non mi manchi tu: mi manca un bacio.
Il gesto di una mano intenta a dire
le cose, le sue dita intirizzite, dritte.
Una voce sonora, che riempie
la stanza dov’è e quella accanto.
Una mano fresca sulla pancia,
qualcuno che mi afferri il grembo
e me lo tenga stretto.
Due labbra sulla tempia,
un fiato caldo sulla palpebra,
un ragno che corre
per la schiena, tra le scapole
e lungo la spina dorsale.
° ° ° ° °
Nella prossima vita
avremo una casa: io e te.
Un orto, un giardino.
(Il fico nero, l’acero rosso.)
Mani nella terra, sul nostro
corpo. Dentro sarà il fuoco
di legna, il legno su cui
camminiamo. Bianco
ma non di smalto.
Nella vita che viene
avremo un bambino
ispido e nero
selvatico, ardente.
Non avremo paura.
Lasceremo la fine
agli altri. Inizieremo.
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