Circles di Virginia Farina | “Piangete, bambini!” – Canti (e pianti) di liberazione per piccoli e grandi occhi. Dialogo con Alberto Masala

 

Piangete, bambini, piangete a dirotto
se un gioco si rompe cadendo di sotto
se vi hanno sputato, oppure graffiato,
se il vostro compagno è un maleducato
che vi ruba i giochi o vi ha fatto male,

[…]

Se mentre piangete nessuno vi sente,
strillate per quattro, finché accorra gente.
Infine, sfiniti di aver singhiozzato
potreste provare col pianto strozzato.  

Si nasce piangendo, così si va avanti
si dice che piangano anche i giganti
le lacrime cadono per gravità
si pianga di pena o di felicità.

 

Poche cose sono in grado di scuotere e sconquassare il nostro sistema nervoso come il pianto di un bambino.

Il bambino che piange disturba, confonde, infastidisce, disordina il nostro bel mondo composto e programmato, ci fa sentire inadeguati, ci contraddice e ci contraria, ci disarma.

Per questo facciamo di tutto per impedire quel pianto, lo coccoliamo, persino, lo azzittiamo chiudendogli bocca e chiudendoci le orecchie, e quando non ci riusciamo lo nascondiamo, o lo rilanciamo agli altri, agli esperti di bambini, tendenzialmente psicologi, che possano dirci finalmente non cosa possiamo ma cosa dobbiamo fare con loro.

Il pianto dei bambini, di gioia o di noia, per bene o per male, è l’ultimo pungolo rimasto alla nostra coscienza di adulti, l’ultima crepa da cui possiamo affacciarci per guardare l’altro e dirci che no, non lo conosciamo davvero, che il suo esistere ci domanda qualcosa in più di quello che per lui o per noi possiamo acquistare.

Per questo l’invito al pianto, alla liberazione del pianto, nella raccolta di Alberto Masala ha in sé qualcosa di radicale, perché ci diverte e con le sue rime pian piano ci scuote, ci lascia intuire e, così, ci invita a pensare.

La poesia di Alberto è partitura e misura esatta perché la relazione della poesia con l’infanzia non può non passare attraverso il canto. E in questo i rimandi di questa scrittura sono antichi e al tempo stesso modernissimi: evocano la musicalità delle anninnias composte dalle donne sarde, sue conterranee, fino a qualche decennio fa per addormentare i loro bambini raccontandogli del mondo in cui crescevano. E insieme queste poesie richiamano il verso provocatorio e dirompente di Palazzeschi. Una delle voci più graffianti e irriducibili delle Avanguardie.

Piangete, bambini! è un libro di poesia che travalica le categorie di infanzia e “adultità”, perché in modo giocoso e canzonatorio sa parlare agli uni e agli altri, evocando possibili spazi, campi di libertà in cui ancora si può rovesciare il senso dato alle cose, e provare a ricominciare, ancora e ancora. Proprio partendo da qui, dalla consapevolezza di questi nostri limiti che sono a volte nostre gabbie esistenziali. Perché come dice Alberto in uno dei passaggi più intensi di Geometrie di libertà:

non si è mai liberi davvero… si può solo tendere, andare verso, sostenere, coltivare, difendere… e più si conoscono le sbarre e più si è abili del segarle.

 

illustrazione di Daniela Pareschi

 Alcune domande a Alberto Masala.

 

  1. Che cos’è per te la poesia?

Prima di tutto un’arte. E, come ogni arte, porta in sé un carico di responsabilità. La sua funzione sociale non dovrebbe derivare da un modello ideologico, ma etico.

Al contrario, ogni sistema crea artisti inoffensivi e funzionali alla propria pedagogia, cioè alla riproduzione del sistema stesso. Li protegge e li esalta ripagandoli col meccanismo della gloria. Un esempio recente, il fenomeno di Amanda Gorman.

L’arte deve sapersi dimettere da questa condizione. Dico sempre: l’arte non può parlare di libertà, ma deve invece parlare di liberazione. Un discorso lungo e complesso che affronto in modo esteso in Geometrie di libertà, un libro cui tengo molto. Ora, se posso, mi permetto di citarne un passaggio:

(…) Creano poeti ed artisti ‘comodi’ e funzionali. Pensiamo all’aggettivazione usata troppo e a sproposito, richiamando sempre in maniera banalmente romantica o estatica qualcosa che avvicini al loro sdolcinato concetto di sublime: “questo panorama è pura poesia…” oppure “quella torta è una poesia…” o ancora: “si amano tanto: come sono poetici…!” Ecco, l’idea di poesia usata per comunicare uno stato passivo, di contemplazione fino all’ebetismo, quasi un calmante per i sensi e la coscienza… “fiore-cuore-amore” è l’immaginario che passa generalmente. Il poeta dovrebbe essere un ebete astratto, che vive e narra soltanto gioie e dolori, amori e delusioni, panorami e gesti intimi, Dio e Creazione. Un idiota che sa scrivere, ma senza mai toccare cose sporche o troppo terrene come fame, miseria, genocidi, sesso, carcere, razzismo, violenza… e così via. Come se Pasolini, Artaud, Baudelaire, Lucrezio e tutti gli altri non fossero mai esistiti.

(…) la mia poesia è incivile. Chi si chiama civile nell’arte è colui che deve fare uno sforzo continuo per assumere quella posizione come un valore, come se non fosse normale. Per molti l’assunzione del ‘civile’ è solo la tappa, in certi casi necessaria, per accumulare punteggi di una carriera pavida e prudente. Io vivo fuori dal contesto, ai suoi margini, quindi non sono civile. Ma dico, pronuncio, e senza sforzo morale. (…)

  1. Se un bambino o una bambina ti chiedessero chi è un o una poeta, cosa gli risponderesti?

Una persona che può portare la voce. E deve meritarlo, essere capace di rappresentare la comunità. Racconterei come nella mia tradizione il poeta non si autonomina, ma gli è chiesto da chi lo chiama poeta. E può cantare in nome degli altri se ha le tre caratteristiche dell’arte dei cantadores di piazza, un vero e proprio contratto col pubblico che, sulla falsariga del contratto nella Giurisprudenza, io ho sintetizzato così:

  1. saper attrarre (il genio dell’intuizione, l’oggetto);
  2. mantenere l’attenzione fino in fondo (l’abilità della forma);
  3. trasportare senso (la forza della profondità, la sostanza).

In mancanza di soltanto uno di questi tre elementi la sua voce si spegne. Ecco: risponderei che vengo da lì, un mondo in cui il poeta e l’artista devono rendere conto.

  1. Esiste per te una “letteratura per l’infanzia”? 

Naturalmente no. Però esiste una letteratura “per adulti”. Ci sono passaggi necessari, e differenti per ognuno, per accedere alla comprensione di un testo con formazione e strumenti proporzionati. Non consiglio un testo violento o terrorizzante o complesso a chi, anche adulto, non abbia sviluppato la psicologia, il linguaggio e l’esperienza sufficiente. Dunque, certamente esistono testi o film non adatti ai bambini: così come non gli si versa il vino o non gli si offre un sigaro. Inoltre, mi sento distante dalla presunzione della cosiddetta “letteratura formativa” (ho sentito affermare: “Ultimamente sento la necessità di impegnarmi per formare nuovi lettori”…). La supponenza e l’arroganza di “certi scrittori” verso la letteratura per ragazzi mi urta nel profondo e spesso nasconde aridità. È solo la frustrazione della propria incapacità espressiva e comunicativa.

illustrazione di Daniela Pareschi

 

  1. C’è una o più poesie del tuo libro “Piangete, bambini!” alla quale tieni particolarmente? Quale?

Dovrei rispondere: “La prima che ho scritto, quella che mi ha dato l’idea per fare il libro”… ma non ricordo quale sia. Quando ho lo spunto giusto, lo faccio molto rapidamente e tutto di seguito. Non credo di aver impiegato più di quindici o venti giorni per quel libro. E ciò che scrivo è una propaggine che si distacca da me altrettanto rapidamente. Non mi affeziono: quando ho finito sono già oltre. È solo un momento di passaggio in cui riesco a fermarmi coerentemente su un’idea che altrimenti scorrerebbe via nel nulla… nel non-scritto. Sono più legato alla nota che accompagna le poesie. Quella sì, la ricordo: l’ho stesa quando tutto era concluso e finalmente avevo capito cosa avevo scritto e perché. A quella nota ho affidato considerazioni “forti” sulla poesia contemporanea che, appunto perché messe in un libro per bambini, lì stanno, e non creano polemica.

Mentre lo faccio, mi annullo per diventare ciò che scrivo: donna in Taliban, bambino in Piangete, bambini! Mi sono divertito moltissimo, e credo che si veda chiaramente. Quasi nessuno di quelli che si fanno chiamare poeti sarebbe in grado di rapportarsi con un bambino usando un linguaggio paritario, comprensibile e musicale. Qui cadono le maschere.

  1. C’è un verso solo, tuo o di un altro poeta, che vuoi lasciare per concludere questa piccola intervista?

Ti ho detto che non mi affeziono… quello che ho scritto si è già distaccato da me e potrei anche fare di meglio. Dovrei citare qualcosa che ancora non ho scritto. Inoltre amo la poesia, e questo mi fa pensare che c’è sempre qualcuno che abbia scritto cose più rilevanti delle mie. Dunque… scelgo il verso NI PENA NI MIEDO (né pena né paura) di Raúl Zurita, grandissimo poeta cileno (e amico) che ho appena tradotto per Valigie Rosse con al fianco la cura preziosa di Lorenzo Mari. Ecco il mio passaggio di una conversazione, cui tengo molto, in progress con Lorenzo.

 

(…) NI PENA NI MIEDO  è una semplice frase, forte, sì, ma una locuzione qualsiasi se scritta su un foglio di carta, confusa fra altri versi, affidata alla distrazione del lettore o del critico. Scavata sul deserto di Atacama in Cile per l’estensione di 3140 metri, diviene un monito eterno e indistruttibile contro la dittatura di Pinochet, un urlo contro tutte le dittature, il canto universale dell’incrollabile dignità umana. Ecco la forma che diviene sostanza. Ecco il grido della poesia non sottintesa, senza ammiccamenti né complicità. È oltre l’approvazione e la miseria della critica, che può soltanto tacere perché è la poesia stessa a diventare critica. È oltre il giudizio. Cosa si può pronunciare? Niente: solo narrarla. Ai posteri resterà una testimonianza dell’orrore, non il commento. È riapparsa l’Etica. (…)

Ni pena ni miedo, poema di tre kilometri, oggi monumento nazionale del Cile, inciso nel deserto di Atacama, a sud di Antofagasta, 1993. Foto: Guy Wenborne

 

 

Piangete, bambini! è stato pubblicato nel 2016 da Barbagianni editore. Ogni poesia trova spazio nelle illustrazioni a tutta pagina di Daniela Pareschi. che non traducono in visioni le parole, ma ne creano di nuove, talvolta coincidenti, talvolta parallele, in cui l’immaginazione dei lettori può espandersi, esplorare, creare lo spazio tutto nuovo della propria visione.

 

Alberto Masala

L’autore nacque piangendo. E gli piaceva fin troppo. Piangeva talmente che sua madre fu costretta a inventare mille trucchi per distrarlo, mentre lui nel frattempo ne inventava altrettanti per distrarre la madre. Quando imparò a parlare, il suo primo discorso pubblico fu una spiegazione sul fatto che piangere rende felici. Subito dopo apprese a leggere, ma solo per raccogliere materiali scientifici sul pianto. Ora è felice di annunciare il suo primo trattato sull’argomento: Piangete, bambini!

Ps. Nel frattempo si è messo a scrivere poesia e altre cose (saggi, racconti, romanzi, traduzioni…) pubblicando in Italia, USA, Francia, e in antologie di mezzo mondo. Ma questo non è abbastanza commovente.
www.albertomasala.com

 

Daniela Pareschi

Anche l’illustratrice nacque piangendo, ma lo dimenticò presto. A pochi giorni di vita già sorrideva. Prima di camminare, imparò a disegnare. Se qualcuno le parlava, lei disegnava la risposta e, guardando i disegni, si sganasciava. Crescendo, si è specializzata: come rotolarsi per terra dalle risate senza farsi male, come non far scappare la pipì mentre ride a crepapelle, come mangiare e bere senza strozzarsi per il gran ridere. E come disegnare anche nel sonno. Quando ha incontrato l’autore che piangeva, gli ha risposto con questi disegni.

Ps.Nel frattempo fa scenografie per il cinema, pubblica per diverse case editrici, partecipa a mostre collettive e personali. Ha vinto il concorso “illustratore dell’anno 2016” per il calendario Città del Sole. Ma questo non è abbastanza ridicolo.
www.danielapareschi.wixsite.com