Angoli di poesia di Luca Ariano | Intervista a Salvatore Ritrovato su Paolo Volponi
L.A.: Nella tua attività di docente e studioso ti sei occupato spesso dell’opera di Volponi sia come narratore che come poeta: quando ti sei avvicinato ai suoi scritti e hai deciso di studiarli, approfondirli e divulgarli?
S.R.: Ho cominciato a leggere Volponi all’università, a Urbino, dove, quando arrivai nel 1985, potevo incontrare Volponi e ascoltarlo. Prima ne avevo solo sentito parlare, e i suoi primi due libri che lessi, a vent’anni, furono Con testo a fronte, del 1987, e Le mosche del capitale, del 1989; li trovai eccezionali, divennero per me un punto di riferimento, sia per i versi che scrivevo, sia per educare lo sguardo sulla letteratura contemporanea (e in particolare sul romanzo). Di lì, andando a ritroso, cominciai a leggere tutto Volponi. Mi ci vollero diversi anni prima di scrivere su Volponi, allorché, tornato a Urbino come docente, sentii l’urgenza, in un contesto culturale notevolmente mutato rispetto a quello in cui scoprii lo scrittore (fine del blocco comunista, le guerre nella ex-Jugoslavia, le guerre del Golfo, la questione ambientale, il passaggio dal capitalismo di produzione a quello finanziario), di rimettere l’opera di Volponi al centro dei miei studi e delle letture degli studenti, oltre che dell’interesse di una gloriosa città che, con rispetto parlando, non può vivere solo di Raffaello, né solo nel ricordo del suo sogno rinascimentale, come se altre epoche non avessero portato un contributo forse più umile ma non meno decisivo all’identità del luogo (e penso al Novecento di Bo e De Carlo). Così ho organizzato, con l’Università di Urbino due convegni su Volponi, nel 2004 e nel 2014, invitando studiosi importanti dall’Italia e dall’estero, e cercando fra i giovani nuove prospettive di studio.
L.A.: Recentemente per Einaudi sono state pubblicate le Poesie giovanili curate da te e da Sara Serenelli: come è avvenuta la scoperta di queste poesie? Come mai sono state “scartate” da Volponi e mai più pubblicate fino ad oggi? Si ritrova un Volponi diverso, più materico, personale e fisico: fu questa una delle ragioni dell’accantonamento?
S.R.: A ritrovare le carte di Volponi è stata ovviamente la figlia, Caterina, che l’ha comunicato alla dott.ssa Marcella Peruzzi, direttrice dell’Archivio Manoscritto dell’Università di Urbino presso la Fondazione Bo, che mi ha gentilmente messo al corrente, e che desidero ancora oggi ringraziare. Proprio in quei giorni Sara Serenelli, mia ottima allieva, mi aveva chiesto una tesi magistrale, e pensai di verificare con lei il valore e la consistenza di quel fascicolo di 90 carte, manoscritti autografi, di varia estensione, natura, materia, con testi editi e inediti, bozze, appunti, disegni, collocabili in un arco temporale fra il 1944 e il 1948. Occorreva occhio e tempo, pazienza ed esperienza, intuito e discernimento: in fondo si trattava di testi chiusi in un cassetto da moltissimi anni. Volponi se li era dimenticati? perché non li aveva buttati? Nell’arco di un anno, con zelo e acribia Sara ne ha prodotto un’edizione “diplomatica”, superando molti scogli, discutendo una tesi propedeutica non solo all’edizione di Einaudi (con cui intanto era già partito l’accordo, grazie a Mauro Bersani, che visionò un saggio delle poesie inedite) ma anche a futuri lavori che spero vivamente Sara possa proseguire. Ogni lavoro filologico ha bisogno di tempo, per essere realizzato con precisione, ma anche di passione, soprattutto quando ci si trova davanti a manoscritti mai pubblicati, sui quali l’autore non può più dire la sua, e tocca agli eredi (ed è una fortuna quando si ha una figlia attenta e competente come lo è Caterina) e agli studiosi decidere che cosa fare. Senza dubbio, i testi che avevamo davanti ci parlavano: li abbiamo letti e riletti, abbiamo consultato altri studiosi di Volponi (fra i quali Emanuele Zinato) e soppesato il da farsi. Quei testi ci parlavano di un altro Volponi, non antitetico ma complementare al poeta del Ramarro e dell’Antica moneta, raccolte che sembrano chiudere i conti, con cauteloso rispetto, con quella stagione dell’“ermetismo” ormai alle spalle, e però non priva di tratti seduttivi. Un Volponi più schietto e rude, insofferente, diretto, che mescola reale e surreale: il poeta che sarebbe riemerso a partire da Foglia mortale, fino a Nel silenzio campale, ovviamente con una coscienza nuova della parola poetica, maturata dal confronto incessante con le questioni sociali ed economiche di un paese che nel giro di un decennio cambiò pelle. Ecco, con quegli inediti noi eravamo davanti a un Volponi che affilava le sue armi espressive su argomenti più personali (l’amore e le donne, innanzitutto, e poi i sogni e le ansie di un giovane, che presto prenderà la “strada per Roma”), e però trovava giusto, forse su suggerimento di qualche amico lettore, mettere da parte questi testi per concentrarsi su quelli che si legavano meglio alla temperie lirica che si andava spegnendo in quegli anni Quaranta di grande dolore e insieme di straordinaria fervore culturale. Quelle carte aggiungevano un tassello importante per comprendere Volponi e far luce sulle “radici” della sua scrittura, che non svela all’improvviso, dopo Le porte dell’Appennino, una tensione nuova, espressionistica, ma la covava dentro da sempre.
L.A.: Come valuti oggi l’opera poetica di Volponi? Risulta ancora attuale come poeta per cui lo consideri tra i grandi del Novecento o pensi che la sua opera di narratore abbia messo in ombra la sua attività di poeta? In vita, per altro, ebbe numerosi riscontri critici e premi di poesia: come mai oggi la sua produzione è dimenticata e fuori catalogo, secondo te? Ha perso vigore?
S.R.: Domanda non facile, perché bisognerebbe prima di tutto chiedersi che cosa vuol dire “attuale”. Perché un autore sia attuale è necessario che almeno sia reperibile in libreria. E allora il primo problema da risolvere è quello di tornare a ristampare le poesie di Volponi, tutte le poesie, fuori commercio da molto tempo. Non è l’unico caso, s’intende. L’anno scorso è stato ristampato Carlo Betocchi, tanto per dire, sparito dai cataloghi da molti anni. E se uno cercasse le poesie di Scotellaro? La sua edizione Oscar Mondadori del 2004 è già sparita. Ma la lista potrebbe essere molto lunga. Finire fuori commercio può contribuire alla rimozione di un autore. Anche la scuola può dare il suo contributo. Non credo che siano molte le antologie scolastiche che riportano una poesia di Volponi. Io penso che ve ne sono alcune che possono tranquillamente entrare. Non si può misurare l’attualità di un poeta se non lo si legge e non lo si ripensa in rapporto al contesto in cui egli è vissuto e noi suoi lettori viviamo, e soprattutto in relazione a un paradigma di valori sui quali oggi però, purtroppo, si riflette poco per varie ragioni (non è questa la sede per parlarne). Fatto sta che Volponi è meglio noto come narratore, autore di romanzi premiati e di pochi racconti (anche questi riscoperti di recente, grazie all’edizione a cura di Zinato, sempre per Einaudi). Il punto è questo: io non credo che in Volponi vi siano due anime, dico quella del poeta e quella narratore, che si affrontano. Entrambe partecipano alla medesima tensione, e si trasfondono l’una nell’altra, e questo è particolarmente evidente in alcuni passaggi della sua opera, come per esempio fra Con testo a fronte e Le mosche del capitale, in cui le accensioni liriche si alternano, con audacia sperimentale mai gratuita, ad espedienti narrativi e a dialoghi drammatici, in un linguaggio che prova a decentrarsi dal tradizionale egocentrismo, rimanendo tuttavia entro un orizzonte capace di abbracciare il mondo. Un’operazione cui oggi pochi editori darebbero credito, qualora fosse presentata da un autore esordiente, timorosi forse di non trovare un pubblico di lettori adeguato. Potrebbe essere questa la vera “inattualità” di Volponi, il suo essere “controcorrente”. E invece, ai suoi tempi, Volponi fu addirittura premiato! Se Volponi vinse diversi premi, sono contento, ma questo non toglie né aggiunge niente. Il vero premio lo dà il Tempo. Perché ciò accada è necessario che l’Opera scopra di anno in anno, di secolo in secolo, una profondità di significati tale da innescare un circolo ermeneutico virtuoso (è ciò che fonda il classico), e ancor più è fondamentale che la società umana, con le sue istituzioni culturali (dalla scuola all’università alle accademie all’editoria ai massmedia, senza dimenticare i “salotti”), continui a nutrire obiettivi “formativi” in senso etico e civile, e a misurarsi sulle questioni essenziali dell’esistenza. Se invece, per dire, invece di formare uomini, l’università dovesse limitarsi a laureare tecnici “competenti”, beh, allora non solo non sarà più attuale Volponi, ma tutta la letteratura, la filosofia, l’arte evaporeranno, a meno che esse, cooptate dal sistema, non servano ad alimentare un mercato che trasforma omologandola l’opera in merce, per poi risucchiarla nel suo tritacarne mediatico-commerciale, ed evacuarla nel giro di pochi anni.
L.A.: Come giudichi oggi il suo lavoro di narratore? Ancora riesce a trasmetterci qualcosa? Spesso si parla di Memoriale inquadrandolo in un periodo caratterizzato da libri legati al mondo dell’industria: penso a scrittori come Lucio Mastronardi e Ottiero Ottieri, ma la sua prosa va oltre questo facile schema. Pensi andrebbe analizzato fuori da questo recinto?
S.R.: Certo, Memoriale va nella direzione che indichi tu, anche se io suggerirei di leggerlo in una cornice più ampia: non quella dell’industria, ma quella del lavoro. Perciò a Mastronardi e a Ottieri aggiungerei, per stare in quegli anni, un Bianciardi; e suggerirei di gettare un occhio al cinema, ricordando che sono gli anni di due film molto diversi ma entrambi molto significativi sul tema del lavoro: Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti e Il posto di Ermanno Olmi. È un’Italia che soffre, si interroga, riflette. Ma, così come succede ai grandi scrittori, è chiaro che Volponi non poteva fermarsi a questo tema. Ecco, dunque, Corporale, in cui la crisi del lavoro, il senso di fallimento, si risolve nell’angosciosa attesa di un’apocalissi che ha messo radici nell’immaginario privato come un frutto marcio; e poi Il pianeta irritabile, che narra la drammatica e rocambolesca fuga di quattro amici “post-umani” da un’apocalissi ormai trascorsa, verso una libertà che nessuna distopia può soffocare. Senza dimenticare Il lanciatore di giavellotto, che sarebbe riduttivo collocare tra il genere del romanzo di formazione e quello di ambientazione storica: esso è un pugno nello stomaco, e non perché non abbia un lieto fine, ma per l’energia che lo attraversa di pagina in pagina, mettendo a nudo i personaggi, consumandoli, spolpandoli fino ai nervi che vibrano con una intensità che non concede nulla al lettore. Per venire all’ultima parte della tua domanda, Volponi va letto fuori da ogni recinto, fuori da ogni categoria che tenti di legare la sua opera, complessa ed estrema, a una stagione, a una corrente o a una scuola, e insomma a prescindere da ogni canone, sia esso occidentale o accidentale, di cui sarebbe bene liberarsi una volta per tutte.
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