…e ci indossiamo stropicciati di Luigi Paraboschi, Terra d’ulivi Ed, 2018, lettura di Annalisa Rodeghiero: Il filo della matassa.

    

Una poesia traboccante di sentimenti, una poesia intensamente meditativa che sa fare del vissuto la sostanza prima del canto e che si esplicita con generosità e complessità di contenuti, quella di Paraboschi in …e ci indossiamo stropicciati.Una versificazione che sceglie comunque l’intelligibilità del testo come dono di comunicabilità al lettore rinunciando a neo-sperimentalismi, in una forma lineare, libera ma arricchita da splendidi endecasillabi ed efficaci metafore e sinestesie che rimandano a certi echi montaliani.

Chissà dove avrà perso il filo della matassa dei sentimenti, il poeta, se dopo una serie di considerazioni sulla inadeguatezza dell’animo umano a fare di noi esseri nuovi,decide che l’abito da indossare per andare incontro al giorno non può essere quello fresco di pulitura, ma quello senza stiratura riposto nel fondo dell’armadio, stropicciato appunto:
“la nostra scorta di chiusure è così grande/ che non basta la buona volontà per fare di noi/ esseri nuovi e alla fine ci indossiamo stropicciati”.

Più volte torna la stessa sensazione d’arrendevolezza nelle poesie successive:
No, non è vita l’annaspare/ dei piedi dentro l’acqua. Per stare/ a galla è meglio fare il morto/ ad occhi aperti verso un cielo/ che sfarfalla di bagliori sopra/ le nostre ciglia secche per il sole.

E ancora:
Trapassa anche te il malessere/ della non appartenenza come se/ viaggiassi dietro vetri oscuri? //Bivacchiamo con addosso squame/ congelate da troppi inverni d’astinenza.

E il discorso potrebbe finire qui se non ci fosse, invece, la tensione verso un ulteriore, incessante tentativo di ribaltamento della situazione attraverso la descrizione di gesti rintracciabili in alcuni atteggiamenti significativi quali la gratuità che sempre dà valore ad un incontro tra esseri umani o addirittura il perdono, consapevoli che nulla andrà perduto di ciò che in noi ha fatto breccia:
Siamo carte assorbentiche s’impregnano/ di tutte le calligrafie durante ogni istante/ che è concesso vivere (…)

Un’anima quella di Paraboschi che si consegna alle voci e alle cromìe della natura per riemergere arricchita di bellezza a cui attingere per il suo versificare:
Raccontami invece l’acqua ch’è già corsa/ le radici che hanno dita lunghe/ e le campane e i suoni che ascoltavi (…) e poi descrivi le siepi che circondano/ i tuoi sogni senza recinzioni e i fiori/ che non puoi cogliere nei campi del ricordo.

E non riesco a non riportare per intero, almeno la prima, incantevole strofa – un dipinto – di:

Un sogno rimesso in piedi (pag. 33)

Se non capisci il fascino che possiede
un giardino abbandonato e non avverti
né la stanchezza che c’è nei cancelli
arrugginiti e chini davanti alle sterpaglie
che impediscono il passo, né il respiro
di un catenaccio sferragliante
che sembra miagolare, non saprai gustare
la bellezza di quelle rose imbastardite
che rifioriscono malgrado ogni incuria. (…)

Un’anima che si carica anche di immagini di memorie, attraverso cui il reale si impregna di quel senso di saudade che attraversa l’intera silloge e che trova l’apice in alcuni passaggi di rara dolcezza ed efficacia descrittiva:
Ci fu un tempo in cui mi frugavi dentro/ come questo vento che accartoccia il fogliame/ al fondo delle grondaie prima che piova.

E ancora:
Anche oggi che piovono dure frecce d’acqua/ e le foglie del ciliegio paiono lacrime arrossate/ è forte la tentazione di riscrivere qualcosa come/ “piove sopra i nostri volti silvani”/ e traboccare così dentro la malinconia facile. (…)

Lo sguardo di Paraboschi diventa sentimento etico quando si allarga alle creature tutte, creando versi umanissimi di solidarietà nei confronti di chi soffre:
Allora, non prima, sarà il non detto, / la parola non uscita il suono tronco/ Il gesto generoso non compiuto […] le nostre non azioni, l’indifferenza (…).

Uno struggimento dolce e privo di sterile “lamentatio” è riservato al padre di E. E.:
Un figlio sei tu stesso mentre ti osservi/ dentro lo scorrere del tempo, / in lui sono anche i tuoi limiti […] e non so staccare il tocco della tua mano, / unico contatto vivo, lasciarti andare/ come un astronauta nello spazio buio (…).
Come a dire che è sempre valido il concetto caro a Gibran secondo cui i nostri figli non sono figli nostri. Ma qui si aggiunge qualcosa in più: i nostri figli sono la rappresentazione di noi stessi e se decidiamo di perder(li) per sempre dentro l’ombra dei ricordi è solamente per poi inseguir(li)in continuazione.

Armonia di opposti necessaria all’equilibrio universale.

E per restare in tema di scelte individuali dal peso imponderabile, che dovrebbero essere fatte nella consistenza del silenzio, Paraboschi azzarda, con esito potente, una risposta inaspettata e disincantata a Auden, in quella che diventa la sua verità sull’amore di cui non posso sacrificare alcun verso:

     

La verità, vi prego, sull’amore

    

“non c’è nulla di più animale
della coscienza pulita
sul terzo pianeta del Sole”
W. Szymborska

    

E adesso, vi prego, facciamo silenzio.

      

Lasciamo a casa ceri, crocifissi e corone,

senza scomodare il fuoco eterno.

Che ognuno senta nella carne

com’è lancinante dover decidere

chi deve restare e quando andare.

    

Ma facciamolo da soli

nelle nostre stanze

senza farci intervistare

da domande come:

“cosa prova di fronte a questa decisione?”.

      

Pensiamo al nostro cane.

    

Chi vuole scelga il gatto

e poi decida se sia facile parlare

attorno alla speranza che va via.

    

Ma lo faccia sottovoce,

     

Dio ci ascolta anche quando

Lo pensiamo con la “d” minuscola.

    

Un canto di importante riflessione sul significato essenziale della vita (vorrei capire il mondo cercando/ le risposte alle domande semplici) attraversa tutta l’opera e alcuni passaggi sfociano in illuminanti sentenze:
ciò che conosci e temi non è vita (pag. 7)
la razionalità è un lago di abbandono/ nel quale siamo andati a fondo. (pag. 9)
e tutto sarà più facile:/ ci basterà dimenticare di non avere vissuto (pag. 13)

Razionalità e sentimento si compenetrano. Noi abbiamo questa vita e dobbiamo cercare di viverla al meglio, sembra volerci dire Paraboschi, perché se è vero che l’uomo deve fare i conti con la ragione è anche vero ciò che scrisse Hölderlin in Iperione “L’uomo è un Dio quando sogna, un mendicante quando riflette”. Forse si tratta solo di saper trovare il giusto equilibrio tra queste due componenti essenziali:
Ci sono persone come certi libri/ che quando li riapri dopo anni/…/scopri che nulla/ dentro te è mutato, di nuovo/ si accende il desiderio e il sogno/ prende ancora il volo, e tu vorresti/ ma non puoi, e neppure sai farlo (…) allora lasci un segno/ dentro quel libro appena riaperto, / a futura memoria di ciò che avresti/ voluto se avessi smesso di pensare.

È dunque giusto rinunciare al desiderio di essere noi stessi, di essere ciò che in fondo siamo realmente? Dovere e desiderio forse si osteggiano solo in apparenza ma in realtà possono convergere e in quel caso la nostra vita è piena, perché in fondo, noi siamo il nostro desiderio. Per dirla alla maniera di J. Lacan, forse un giorno ci verrà chiesto: “Avete agito in conformità al desiderio che vi abita?”:
Chissà se la sapienza è tutta chiusa/ nell’abbandonare i desideri/ lungo il fossato che circonda i giorni […] Allora cesseremo d’essere mendicanti/ in cerca di conferme e la stanchezza/ del muscolo cardiaco e del pensiero si assopiranno/ dentro il bagliore rassegnato di un giorno/ che cerca appoggio sopra l’omero della sera.

La sera, metafora della tarda età giunge come un vivere/ senza spazi per le illusioni e quello che era stato un interrogarsi continuo sull’esistenza e le sue contraddizioni, sui rimpianti e i rimorsi, sembra placarsi,sospeso tra la consapevolezza dei limiti esistenziali e un senso di abbandono al mistero universale dove, magnificamente, finito e infinito si intersecano:
Eppure ci sarà un luogo in cui/ tutto apparirà chiaro, / e lo stridio tra due storni/ non avrà bisogno di traduzioni […] Allora, come una goccia/ quando si tuffa nel catino, / saremo particelle di finito, / sperdute dentro l’infinito.

Rimane comunque un ultimo, estremo interrogativo e così si chiude il libro:
e mi domando di che colore sarà il buio.

      

Annalisa Rodeghiero