Intervista a Raffaela Fazio su Midbar, Raffaelli Ed. 2019, a cura di Paolo Polvani.

    

 

In tanti si sono misurati con l’Antico Testamento, dalle più svariate provenienze: Bob Dylan, Dario Fo, Josip Brodskij e moltissimi altri. Qual è il fascino, il richiamo che spinge a confrontarsi con le vicende e i personaggi del libro per eccellenza?

Nel mio caso, questo confronto è stato un movimento in due tempi. Il primo tempo ha coinciso con lo studio della Bibbia, iniziato intorno al 2000, poi proseguito con pause e innesti; il secondo tempo con la “traduzione” in poesia, durata due anni (tra scrittura e decantazione). Perché ho sentito il desiderio di avvicinarmi alla Bibbia? Perché sapevo di non sapere: ciò che conoscevo di questo testo fondante per la cultura occidentale risaliva alle vecchie nozioni del catechismo, dunque a una lettura alquanto insoddisfacente, che negli anni avevo in gran parte rifiutato. L’esegesi biblica seria, che considera la tradizione ebraica come irrinunciabile punto di partenza e di riferimento (mettendo a nudo, ad esempio, traduzioni linguistiche fuorvianti e interessanti traslazioni di concetti), permette di gettare uno sguardo nuovo a quello che si dà troppo spesso per scontato. Perché ho deciso poi, dopo molti anni, di dare una forma poetica alla materia veterotestamentaria? Perché, quando si scopre qualcosa di bello, lo si vuole ritrasmettere; e la poesia è per me il canale più familiare. Gli spunti di maggiore impatto contenuti nelle Scritture che ho cercato di riproporre riguardano la dimensione realmente umana dell’individuo che, con le sue paure e con le sue contraddizioni, non si stanca di cercare il senso dell’esistenza nel suo rapporto con l’altro. Il confronto dinamico con il “diverso da sé” contiene sempre qualcosa di sacro e richiede una continua rimessa in discussione. Mi è piaciuto rintracciare nell’Antico Testamento questa immagine dell’uomo: un essere che si abbandona al dubbio senza perdere la speranza, che a volte è miope e vigliacco, geloso ed egoista, ma che si vuole affrancare da ciò che lo rende, nel suo intimo, schiavo. La libertà alla quale l’individuo è chiamato è, in primo luogo, responsabilità. Così come la presa di coscienza è anche consapevolezza del mistero, che rappresenta per l’essere umano sia un limite, sia uno spazio di crescita.

      

In principio era la parola. Così comincia il prologo di Giovanni, nel Nuovo Testamento. La tua raccolta va oltre e ha come incipit: “Ogni parola è un passo”. È un passo che procede in quale direzione?

La parola traccia un cammino che ci mette in contatto con una parte essenziale di noi stessi e che ci unisce agli altri. La parola va dunque percorsa, lasciandola risuonare, perfino inciampando nel nostro tentativo di comprenderne il senso. L’inciampo è la fatica necessaria, è ciò che ci impedisce di dare per scontato quello che crediamo un possesso. E comporta la necessità di rialzarci, così come il balbettare ci costringe a riprendere il suono, a curarlo, a rinnovarlo. Ogni parola vera è una parola che orienta lo sguardo ma che, al contempo, lo lascia libero di spaziare, aprendo crocevia e possibili diramazioni. L’inciampo della parola suggerisce la sua povertà, ovvero il fatto che non può contenere ciò a cui essa allude. C’è un “al di là” che non sarà mai circoscritto, uno scarto tra il dire e la realtà, sia esperita che immaginata. E questo scarto è ancora più grande quando il linguaggio vuole farsi specchio della dimensione sacrale della vita. Tra i vari personaggi biblici, Mosè è l’esempio di questo limite umano, che al tempo stesso è una forza. Mosè è “impacciato di lingua”, incespica, non è un bravo oratore, eppure è proprio lui che dovrà trasmettere il messaggio divino al suo popolo. In Mosè, a spezzarsi e a ricominciare di volta in volta non è solo la parola, ma la sua stessa identità: dal seno materno al fiume a cui è affidato dentro la cesta, dal fiume alla reggia dove vivrà a lungo, dalla reggia al deserto, dove condurrà il popolo per quarant’anni. Il popolo permetterà a Mosè di trovare una voce e un’identità, e viceversa. Sarà un cammino di crescita comune, una ricerca di senso all’interno di un bene collettivo, nella consapevolezza che ogni conquista è provvisoria e che solo l’ “Alterità” spinge il passo in avanti, offrendo una possibilità di superamento dell’egotismo.

     

A quali personaggi hai scelto di dare voce e per quali motivi?

Diversi sono i personaggi che mi hanno attratta. Alcuni come archetipi, ovvero esemplificazioni di verità umane (Abramo, Isacco, Giuseppe, Mosè, Aronne, Miriam, Giobbe), altri come personaggi aventi una storia specifica (Agar, Sara, Giacobbe, Rachele, Rachab, David, Rut), altri ancora come destinatari di un messaggio che può essere rivolto a tutti (Abele, Giona, Ezechiele, Elia). Faccio solo un esempio. Nel racconto della “legatura” di Isacco (così chiamata dagli ebrei, rispetto al termine “sacrificio” usato dai cristiani), non ho optato per l’interpretazione più comune in ambito cristiano, secondo la quale il sacrificio allude simbolicamente alla rinuncia di una paternità troppo possessiva da parte di Abramo. Piuttosto, mi sono ispirata a un’interpretazione ebraica che vede Abramo e Isacco collegati a due sefirot che si equilibrano a vicenda (le dieci sefirotsono i canali dell’energia divina): rispettivamente, chesed, che è l’impulso amorevole e irrefrenabile ad espandersi, e gevurah, che è invece moderazione, contenimento. La sfida posta all’essere umano, che ha in sé sia Abramo che Isacco, è quella di trovare una conciliazione tra due forze all’apparenza contrastanti, ma entrambe necessarie.

     

Quali scelte stilistiche hai adottato?

Anche in questa raccolta, il mio verso è breve e spezzato. Continuo a operare per sottrazione. Elementi importanti sono per me la concisione espressiva (la concentrazione del pensiero), il simbolismo delle immagini, la musicalità di rime interne e di consonanze/assonanze. Nelle varie poesie, l’ “io” che parla varia, perché varia la prospettiva: a volte è Dio, più spesso è il personaggio biblico (persino l’albero del bene e del male), in alcuni casi è un soggetto impersonale.

     

Il tuo libro risulta accessibile anche a chi non ha letto e non conosce la Bibbia?

Penso di sì, perché si può leggere a vari livelli, anche se chi ha familiarità con le Scritture coglierà naturalmente più sfumature e riferimenti. Inoltre, le citazioni scritturistiche all’inizio della maggior parte delle poesie facilitano la contestualizzazione, e le brevi note relative alla lingua ebraica, alla fine della raccolta, chiariscono altri aspetti.

     

Quale poesia sceglieresti per i nostri lettori e per quale motivo?

Proporrei l’ultima poesia della raccolta, “Parlerò io”, nella quale do la parola a Giobbe. La scelgo perché Giobbe riassume l’interrogarsi dell’uomo davanti al male che affligge l’innocente. Le domande che si pone sono domande inevase, che ci assillano da sempre. Giobbe soffre, s’indigna, si lamenta, perché Dio non gli offre una spiegazione, una soluzione (a differenza di quanto fanno i suoi presunti amici, nel loro normativismo, moralismo, o superficiale fatalismo). Alla fine, Giobbe non trova la risposta ai suoi quesiti. Eppure, fa spazio ad altro, allargando lo sguardo. In ciò che lo circonda e che lo sovrasta e che lo pervade, percepisce una Presenza riconfortante. La sua non è rassegnazione, ma accoglienza del limite e del mistero.   

     

Parlerò io

“Perché mi nascondi la tua faccia e mi consideri come un nemico?” (Gb 13,24).
“Io lo vedrò, io stesso, i miei occhi lo contempleranno e non un altro. Languisco dentro di me” (Gb 19,27).

     

1.

     

Ricordati
che è un soffio questa vita.
Il mio occhio s’abbuia
si perde.
              Il tuo
mi cercherà solerte
ma io non sarò più:
chi cade giace inerte
              non germoglia
se lo tagli
nulla ricresce.

Perché conti i miei passi
mi dai la caccia
e ti nascondi?
             Perché trafiggi
le mie reni?
Sei tu che mi plasmasti!

Se almeno
tu mi chiudessi nella morte
fino a svuotarti d’ira
e poi mi richiamassi!
           Risponderei.
E tu di nuovo
mi vorresti.

     

2.

     

Cos’è che crolla in me?
Cosa rimane
se stendi uguali i giorni
sul boia e l’innocente?
            Chi mente
non vacilla.
Prospera il più forte
e il gregge dell’iniquo
non ha aborti.
           Perché taci?
Dove il mio sbaglio?
L’uomo
scandaglia il mare
fruga la terra
cerca nelle rocce l’oro.
Ma non c’è spazio o tempo
da cui estrarre
            l’ultimo responso.
Non si acquista
con onice o topazio.
La mente non lo scova
non l’ospita l’udito
la voce
gira su se stessa.

      

3.

      

           Ma è successo.
Invece
di trovare una risposta
ti ho visto
           coi miei occhi.

           Su me
                         le tue pupille
sono le stelle e il buio
che le tiene, la creta
premuta dal sigillo
la neve, l’alta pastura
il parto della cerva
e i nervi
di ogni creatura indomita.
Sono il pianto
           che conforta

          e anche la morte
che finisce
dove al tuo sguardo il mio sguardo
senza capire
si unisce.

*