Figure amate di Orso Tosco, Interno poesia Ed. 2019 – note di lettura di Claudia Di Palma: quando il dolore per la perdita di una figura amata diventa un verso estremamente vitale.

    

Un libro che accompagna i morti a nascere ma che parla ai vivi – “noi come avanzi testardi, avvinghiati al sangue,” – e ci dice non solo lo squallore bianco degli ospedali – bianco come i “letti di carta”, come “il bianco del lavabo” dove “sputiamo / il bianco scheggiato dei denti”. Ci dice la vita, quella più ostinata, stremata ed estrema. Il vero protagonista del libro è il corpo, è qui che si compie lo “scempio / delle misurazioni e delle analisi”. Un corpo ruvido (“ruvide gole”, “la faccia è un posacenere ruvido”), scomposto. Un corpo che perde la sua interezza e diventa organo: stomaco, intestino, polmoni… Un corpo gravemente malato, trafitto dalla tosse (“La linea del fiato, le solite lame / a interromperla, i colpi di tosse,”) e che tuttavia può ancora offrire “la tenerezza orribile” dei suoi “rifiuti”. Noi, i vivi, “circondati da piastrelle feroci, / crudeli nella loro sciatta esattezza”, non siamo gli unici testimoni di questo corpo morente e del suo “talento per la vita / così orribilmente testardo.”.

“Il giardino ci osserva. / (…) / Il nasturzio dal brutto nome, bello nell’arancione. / I nodi risolti del limone. / Le ossa risolte e metodiche delle canne di bambù. / (…) / Tutto questo ci guarda e non capisce. / Incomprensibili la tosse e le bevande iperproteiche, / gli scontrini per i rimborsi e le pastiglie ingoiate. / Allora mi appoggio al letto d’ospedale / (…) /e spiego al giardino il modo in cui proviamo a restare.”

Si prova a restare, si prova a “fallire e restare meravigliosamente”. Poi, quando i tentativi finiscono, il congedo:
“Ti veniamo incontro a gengive aperte / per parlarti della casa in cui dobbiamo andare. / La casa a cui dobbiamo consegnarti per sempre.”

L’altrove non è un luogo indefinito, vago, ma un posto preciso, con un nome: “La casa dei tentativi finiti”. Una stanza che si può costruire, anche se l’autore ci avverte: “Costruire la forma della morte come fosse un luogo” è “tecnica feroce che serve a niente”.

Tutto serve a niente, anche l’arte (“all art is quite useless”, scriveva Oscar Wilde), eppure tutto è necessario. Credo che sia doveroso “costruire la forma della morte”, rendere più concreto quel luogo dove i tentativi finiscono. Perché è lì che i morti vanno a nascere, è lì che probabilmente li raggiunge “questa lunga preghiera di stracci”, questa parola adagiata su “letti di carta”, moribonda insieme ai moribondi, pronta a nascere negli occhi di chi legge, di chi guarda.

Ed è nella parola che possiamo cercare chi se n’è andato.

“Andato, ti cerco / nella tua biblioteca esplosa / (…) / I tuoi libri ripetono / queste cose per te, / perdono inchiostro / come tu perdi le unghie,”

Potremmo dire banalmente – e forse bugiardamente – che le parole sopravvivono ai corpi. Ma guardiamo questa o altre copertine di libri pubblicati da Interno Poesia. L’autore sembra sporgersi dal libro, come se le parole fossero un balcone al quale ci si può affacciare, come se infine di tutte queste parole che scriviamo restassero i corpi e non il contrario. Perché le parole sono corpo, un corpo ostinato, che non resta imbrigliato dalla pagina.

Figure amateè il corpo di una “lunga preghiera”, fatta di parole che ritornano, che si ripetono, ogni volta diverse, e che si conclude con una stupenda invocazione a Nostra Signora.

“(…) / Tu, nostra Signora dei canili / unica bocca dell’unica preghiera / la più feroce, la più incandescente, / dimmi ancora e ancora: / vieni  qui, mio piccolo niente, / possiamo continuare.”

     

La spiegazione

    

Io parlo da solo con mezza voce,

camminando sopra le scatole vuote dei medicinali

che tanto assomigliano alle opinioni.

Tu parli avvolto da un mezzo sonno

imbevuto di benzodiazepine, racconti a te stesso storie

sulla loro protezione, sulle loro rapine.

Queste sono le nostre crude lezioni.

    

Il giardino ci osserva.

Il fiore di carne lieve del peyote.

Il nasturzio dal brutto nome, bello nell’arancione.

I nodi risolti del limone.

Le ossa risolte e metodiche delle canne di bambù.

La salvia chiama il vento e le olive non raccolte

aspettano sulla terra, più scure, più pietra della pietra.

     

Tutto questo ci guarda e non capisce.

Incomprensibili la tosse e le bevande iperproteiche,

 gli scontrini per i rimborsi e le pastiglie ingoiate.

     

Allora mi appoggio al letto d’ospedale

conficcato nel centro del salotto,

e spiego al giardino

il modo in cui proviamo a restare.

*

     

Il tramonto arriva come una rinuncia,

arriva come a voler dire mi rimetto i denti

per non mangiare, per non parlare,

questo è ciò che sussurri con gli occhi.

     

L’aria riempie la stanza e le finestre

del nostro salotto acquario,

del nostro salotto zona di guerra marchiato di

note e diagnosi.

   

Il giardino, esploso e immobile,

è incurante del vento e ci tiene a darti ragione:

fa pulsare la vena, nasconde il pitale,

pronuncia la sera e scompare.

*

     

Allora è così che nascono i morti. Così.

Da queste mani di fiore,

con queste spugne zuppe d’acqua e acqua di occhi.

     

A filo di labbra.

     

E come sono cresciute bene

 le pesche e le rondini, e le nebbie,

 e come deve essere felice e orgogliosa, l’estate,

con tutte le urla a farle da cornice e la luce ingiusta

che si fa giusta mano a mano che passa.

    

Sbadati e gentili, nascono i morti.

 Mai l’avrei immaginato. Ci sta tutto il cielo, sul tavolo. Cola.

*