Anna Rita Merico, Era un raggio… entrò da Est (Musicaos Editore 2020). Note di lettura di Francesca Innocenzi

 
 
L’oriente accompagna sempre una nascita, in senso letterale e figurato. È da lì che ogni astro e costellazione sorge e si eleva a significare la propria presenza, rendendosi manifesto e suggellando l’esordio del suo ciclico viaggio per la volta celeste. Il medesimo percorso Anna Rita Merico si propone di compiere con la sua opera. In un movimento circolare che congiunge la fine all’inizio, sotto l’egida del raggio che – spiega la stessa autrice – illumina la pietra superiore degli altari delle chiese bizantine, tutte rivolte ad est.
Merico mette in atto una peculiare operazione di scrittura, il cui risultato sarebbe arduo, a mio avviso, contrassegnare come silloge. Ci si trova piuttosto al cospetto di un epos portato a dipanarsi, capitolo dopo capitolo, attorno all’Origine, attraverso i canali del mito e del logos. Se il logos è la parola-ragione, limitata e imperfetta, inabile a raggiungere da sé l’assoluto, il mito è verbo onnicomprensivo, narrazione che prende le mosse da modelli archetipici, per arrivare ad incamerare opposti speculari ed incarnare la totalità di un’esperienza. Ecco, allora, che in Era un raggio il ritorno all’Origine viene condotto dalla sublimazione della ragione – esemplificata dall’aristotelico Filelfo – nel mito, sua ottava superiore. L’accesso alla visione richiede il superamento del logos, così da accogliere il sopraggiungere di istanti di illuminazione, subitanee comprensioni che danno vita ad epifanie. Ben lungi dal concepire l’essenza delle cose sulla base di riduttive dicotomie, l’autrice contempla la possibilità di livelli stratificati, fino a postulare l’esistenza di un diverso pensiero, il pensiero dell’anima: «è, forse, perché il pensiero dell’anima è altro dal/ pensiero della mente?». La complessità del reale è un dato incontrovertibile per chi sa osservare con occhi, mente e cuore aperti. Così in questi versi materia e spirito viaggiano all’unisono; se si riconosce la necessità di un nutrimento per lo spirito, è anche vero che la dimensione corporea, materiale, è sorgente e foce nella dimensione terrena.
 
 
La ricerca intorno ai principi originari non può prescindere da una riflessione sul tempo. L’autrice mostra di interessarsi ad un tempo altro, quello del mito nella sua atemporalità: «La fonte del/ ricordo è la fonte che genera uscita dal tempo». Ricordare è allora uscire dalla storia, personale e collettiva, per farvi ritorno arricchiti di una nuova coscienza. Non a caso si definiscono «fatti di cronaca» le vicende mitiche narrate nelle tragedie. Agamennone, Clitennestra, Edipo sono i protagonisti di accadimenti remoti eppure attuali, e permangono in qualità di archetipi nell’uomo contemporaneo. In particolare, Clitennestra, Cassandra, Ifigenia, assurgono a simboli della primitiva, atavica violenza perpetrata sul femminile, una violenza che assume forme eclatanti o silenziose e prende non di rado le mosse dalla negazione della libertà di autodeterminazione, di scelta. Nel suo complesso, il richiamo alla tragedia greca vuole costituire un appello corale al recupero di sedimenti dell’inconscio collettivo, un viatico al risveglio. Edipo, il re che si acceca dopo aver scorto la terribilità del vero, rappresenta la catabasi di una drammatica ricerca di sé e delle proprie radici. Perno della narrazione sono pure il Nuovo Testamento, i cui eroi ed eroine vengono letti in quanto artefici di una progressiva ed inesorabile fermentazione spirituale, ed i poemi omerici, specialmente l’Odissea; l’origine stessa non è che l’inizio della tela di Penelope, il paziente processo di trasformazione che conferisce una forma all’essere, e si trova a coincidere con la tessitura dell’epos, dell’opera.
Si è già detto come l’autrice intenda ricostruire un tutto, una cosmologia. Dunque non sarà un caso se, nel generoso dispiegamento delle parole, occupano un certo rilievo gli spazi bianchi. Il bianco del foglio onora il silenzio ed il vuoto; non può darsi pienezza senza il vuoto, né suono che vivifichi senza il silenzio. Così il racconto che si snoda tra queste pagine dice l’intangibile, l’ineffabile; sgorga da una memoria che si fa colonna portante del presente nel suo ininterrotto divenire.
Rimembrare significa ricomporre quanto era smembrato, infondere un rinnovato soffio vitale alla materia, conferirle anima ed intelletto.
In una articolata allegoria dell’esistente in ogni possibile declinazione, Anna Rita Merico sperimenta fino in fondo le potenzialità del verso, per giungere, nelle ultime pagine, ad un dettato mosso da un certo lirismo, senza tralasciare le dense folgorazioni della sinestesia. Il raggio entrato da est «scosse bianchi silenzi/ […] squartò infiniti raggi/ aprì sottili pensieri/ mosse roteanti parole». Spazio irripetibile e sacro è lì dove il raggio si manifesta, dove l’opera prende consistenza, in una scrittura mai sazia di interrogativi, volta al superamento del molteplice, alla cognizione dell’Uno e di un centro che è metafora di un luogo interiore.