Annamaria Ferramosca, Per segni accesi, Ladolfi, 2021, recensione di Giuseppe Martella
A una prima lettura di quest’ultima silloge di Annamaria Ferramosca, giunti all’ultimo capoverso, la parola che viene in mente è “abbraccio”. Un abbraccio umano e cosmico nel contempo. E un braccio di mare che abbiamo, noi lettori, attraversato abbandonandoci alle correnti che ci investivano a ogni nuovo verso o strofa, senza soluzione di continuità. Quasi neanche ci fosse bisogno di cercare un filo conduttore, una rotta, una coerenza di qualsiasi tipo. Tutto ciò era già dato, dal momento della prima immersione in questo “sciabordio ondulato di versi”, se si era fatta, se ci si era abbandonati. Le correnti ci hanno portato dall’inizio alla fine, senza bisogno quasi di coesione testuale e narrativa, di anafore e catafore, di analessi e prolessi, perché tutto il testo è una enorme materna anafora-catafora del tempo sospeso – una sua salvifica epoché o messa in mora, un’accettazione senza riserve del fenomeno della vita, come ciò che ci viene incontro all’inizio e che ci resta alla fine.
Perché questo testo parla di nascite e rinascite, di cicli cellulari e cosmici, incarnando tutto il lavoro del mito che si è dispiegato nei secoli della nostra civiltà. (“nel luccichio delle nascite/… saremo nuovi per nuovi continenti”: 35) Ma il mito non viene preso a oggetto del discorso e rinnovato, poetato, come nel mitomodernismo di Giuseppe Conte, per esempio, ma piuttosto qui ci si trova gettati esistenzialmente nella sostanza del mito, nella sua liquidità, nella sua liquidazione. Ci si trova disseminati dentro il racconto per immagini come in uno sparagmos rituale, come il fanciullo Dioniso, privo di parola, venne dato in pasto ai Titani, nello specchio di una coscienza incipiente. O come Attis e Adonis, fanciulli divini, squartati per fertilizzare la terra. (“cade il piccolo Adone dalle guance rosa/ nel rito di passaggio”: 62) Ci si trova dunque nel bel mezzo di un rito di morte e rinascita: espanso, esteso, avvolgente – da cui non si esce. Una dimensione semionirica protratta e proposta come alternativa – un tempo sospeso come alternativa all’angoscia della finitudine, dell’essere per la morte: “in un tempo bianco dove/ il sogno semplicemente s’avvera” (19), “solo il sogno rimane/ a inscenare i tempi” (64), “i chiari incontri avvengono solo in sogno/ quando cerchi sichiudono in gioia inaspettati/… parla un continente intorno a noi/ dentro noi.” (77)
Ma in questa rêverie, sogno vigile del mattino del mondo, (“il giorno ha inizio/ da un luccichio di ciglia”: 30, “feritaluce dell’origine”: 52), condizione privilegiata del poeta, non c’è nessuna fuga dalla realtà terribile dei nostri giorni, quanto piuttosto una testimonianza diffusa, epidermica, che permea la voce poetica ma la eccede anche in sussurri e grida cosmici, in “segni accesi” appunto, che illuminano spazi inediti, vedute sorprendenti, accostamenti inattesi, a ogni giro di verso, a ogni tornata della storia. C’è infatti qui come un continuo travaso fra microcosmo, macrocosmo e corpo politico, per usare quelle categorie della visione del mondo medievale, che si riassumevano nella “grande catena dell’essere”, in cui la natura non facit saltum.
Ecco, questa specie di ricucitura di livelli di realtà, di fette di vita, di frammenti ed epifanie che hanno caratterizzato un secolo e passa della poesia europea, è ciò che accade qui. Una fusione nucleare si direbbe, che non lascia scorie, che nella denuncia dei naufragi dell’Occidente recupera l’escatologia della salvezza – come fossero una sola cosa, un’esperienza unica nell’attraversamento di questo braccio di mare mediterraneo. (“questo mare di mezzo che più nonmedia”: 25)
Acqua, aria, terra e fuoco: perché questa è una poesia elementare, fra l’altro, nel senso dei miti cosmogonici e delle protofilosofie eleatiche: poesia pensante il senso degli elementi, la loro promiscuità, la loro possibile covalenza, nei punti d’incontro, nella fecondazione delle cellule, nelle soglie dell’evoluzione. (“pianeta d’aria e luce e fango/… e sulla terra l’alba degli incontri”: 16)
Così il tendersi di braccia umane fuori dalle acque mediterranee, l’annaspare della vita, si trasfigura in un sovrumano abbraccio, quasi sineddoche panica di un dio assente: “sono le lingue mute/ a germogliare ancora spine/ mentre braccia disperate tentano/ l’ultima traversata a nuoto.” (66) Quasi che il gesto ora facesse agio sulla figura. Questo fra l’altro è il principio estetico che regge l’opera: il gesto è “la prima entelechia” che precede ed eccede la figurazione del testo, dell’ordito dei versi, degli stacchi e delle pause, dell’incastro delle sezioni, dello sviluppo dei temi. Restituisce l’opera all’operazione, la mantiene aperta, la parola alla sua pronuncia, il discorso ai simulacri della lallazione. Il gesto come “presentimento” della forma (“non siamo nel mondo ma in un presentimento”: 37) e come sua intima preghiera nell’attimo della sua dissoluzione. Il gesto come tributo offerto dalla forma alla vita. Il gesto che convoglia lo stupore primordiale di fronte alla nascita della parola, all’accendersi dei segni, alla benedizione del battesimo delle creature: “il gesto definitivo che deruba la terra/ del suo moto più vivo/ restano nelle rocce/ amigdale di vuoto faglie di silenzio.” (66)
Così in un certo senso questa poesia è mito rovesciato dall’interno, offerto al sole impietoso dell’antropocene per una finale ecpirosi, per una conversione postuma di tutti i suoi residui, scorie di senso svendute sui mercati – per una pausa cosmica della versificazione di un dio ubiquo. Per una resa al caos sussunto nel silenzio. Attraverso tutte le riprese e variazioni di questa musica seriale, ma senza patterns fissi, che coniuga le vibrazioni elettriche e il canto degli uccelli, come in certi pezzi di Messiaen, si avverte in sottofondo, come un basso continuo, il flauto di Pan che ci chiama a raccolta (“come retrocedendo nel tempo/… ritornare là nello spazio bianco/ dove il primo flauto era nato”: 63), ipnotico richiamo che ci invita a stringerci nella stessa danza, nello stesso abbraccio, per restituirci in reciproco dono tutto ciò che abbiamo negato e rimosso. Giungendo le mani e spalancando gli occhi di fronte a te natura naturans: “ad attendere lentissima/ la chiarezza.” (81)
Da “le origini l’andare”
si fermano i vortici della notte si compie il tempo
l’humus prende forma imita materia d’alba
la morbida piega dei petali
sul petto approda l’arca il bosco oscilla
e uno stormire basso quasi un silenzio
permette all’utero l’ultima spinta
dev’essere pace intorno per il primo grido
così difficile e pure così gioioso
dire di un movimento che prima non c’era
e pure si predisponeva
con l’impercettibile forza del germoglio
un tendere misterioso del seme
verso un cielo che approva che chiama
il piccolo corpo a muoversi sul ventre
inesorabile verso la tepida scia bianca
*
Da “dalla fossa dei migranti”
continuo a correre trasognato
come nelle migrazioni delle mandrie
obbedisco all’istinto
non guardo più indietro
il villaggio i fuochi le ombre lunghe
i miei vecchi con me porto indicibili
i loro occhi del commiato
uomini con profili di deserto
mi derubano pure del silenzio
il grido si dissecca in gola
ma ancora inseguo miraggi il mare
e oltremare le città morbidelucenti
la sete finalmente scompare
ora le mie labbra sono blu
e mi abbevero sul fondo
mi disfo nel sogno
appena prima del traguardo
arretro nell’invisibile
finalmente
ho tregua dal disumano
*
Da “Per segni accesi”
quel flauto di Pan suonava
come retrocedendo nel tempo
chi ascoltava ne era trapassato
sentiva di scivolare
in una terra diafana
di boschi di nidi
dove minimi fuochi
accendono desideri
ritornare là nello spazio bianco
dove il primo flauto era nato
e cantava
già prima di nascere
*
30/03/2021 alle 11:29
Questa emozionante lettura di Giuseppe Martella mostra come si possa attraversare un’opera poetica con la spontanea adesione pre-logica ai messaggi, oltre che con la lucidità sapientissima della comparazione dei numerosi densi riferimenti. Nemmeno io, da autrice avrei saputo dire così profondamente del sotteso incrocio molteplice delle percezioni/visioni, della funzione del mito, del respiro cosmico, del senso del gesto, dell’abbraccio.
Così sono insieme a te, Giuseppe e ti stringo le mani, grata.
E il mio denso grazie a Versante Ripido per l’ospitalità e l’intensa immagine.
Annamaria Ferramosca
30/03/2021 alle 14:08
Grato !
30/03/2021 alle 14:15
( impossibile già m’è parso scrivere leggendo di ed e poesia come giungendo a matematica ma col tempo ho imparato talune ricerche così mi lasciano )