Alessandro Agostinelli, Le vive stagioni (casa editrice L’arcolaio, 2023). Recensione di Marisa Cecchetti
Non è soltanto un libro di poesia questo ultimo di Alessandro Agostinelli, ma anche un libro sulla poesia, che unisce parti in prosa e poemi, un prosimetro: la prosa anticipa, teorizza, spiega, fa pensare un po’ a La vita nova di Dante. Qui la prosa vuole chiarire che cosa si debba intendere per poesia, vuole contrastare la facile versificazione, la amatorialità e le mode che rompono col passato invece di salvarlo.
Il titolo rimanda subito a un prestito che attinge a le “morte stagioni” e “la presente e viva” de L’infinito di Leopardi: scopriamo incastri di altri autori nei versi di Alessandro Agostinelli, oltre al ritmo musicale di poesie note in cui racchiude il suo pensiero.
In una poesia che si costruisce e si spiega allo stesso tempo, la sua attenzione è rivolta alla lingua, perché poesia è “il risultato supremo di tutto il linguaggio” – sono parole di Brodskij – e la parola è “materiale fragile”. Agostinelli riporta le parole di Giudici “la lingua della poesia è […] una lingua diversa […] dove una parola non è soltanto ciò che significa, ma significa ciò che è”. La lingua, “ultimo baluardo collettivo”, nella sua costante corruzione in atto, “sembra lentamente abbandonare il legame con il sogno delle proprie origini”.
Le origini sono memoria, e la memoria registra un passato che vive ancora, fissato magari in oggetti che si sono consumati insieme a noi e ne rimangono una prova concreta: “ho qui con me dei lapis /amici dal liceo /
proseguono a scrutare / i libri dalla punta /più corta di grafite. / tutto quel che conservano di mio / è andato temperato dentro al cesto, /più li appunto più portano con loro / le nebbie e le schiarite dei miei sogni”. Il passato ci appartiene e, mentre viviamo il nostro presente, costruiamo il futuro.
Senza la tradizione che abbiamo alle spalle non esiste poesia, non esiste se mancano la fantasia, l’immaginazione, la passione creatrice, “in questo medioevo /umido e un poco scuro”. Nessuna intelligenza artificiale può conoscere la gioia creatrice e il fuoco vitale che sta alla base della parola poetica: “non vi è salvezza nell’intelligenza artificiale e in tutto ciò che può sostituire la lingua che si scrive per mezzo di un interprete umano”.
La parola resta quella “arma inattesa” che conserva, salva, crea un continuum tra passato e futuro: “siamo incontri e luoghi, / quei sapori lontani. / siamo il lento schiocco / della frusta, l’invisibile /andamento gitano”: il correre avido del tempo che ci ruba la vita sta tutto in quello schiocco di frusta, l’inevitabile momento della fine, a cui persone e cose non si possono sottrarre.
La struttura dei poemetti è varia, così come lo sono i contenuti: si riprende la quartina e la terzina, talora si usa la rima, talora prevalgono l’assonanza e il verso libero. Anche la metrica varia, tuttavia mantiene costante la musicalità interna da cui la poesia non può prescindere: ricorrendo anche a forme sperimentali Agostinelli riproduce la musica del verso, dimostrando “quanto sia necessario per la poesia il suono, il ritmo, la scansione sillabica e la scelta delle lettere di ogni parola per creare, anche senza alcuna senso, una linea che risponda a musicalità ed emozioni”. Emozioni che passano sempre attraverso le immagini.
Ciò che siamo non sarebbe stato possibile senza le nostre radici, senza i nostri avi, ognuno dei quali ci ha lasciato qualcosa di sé, ed è per questo che si è aperti al mondo, agli altri. Ma ora si riconosce di “appartenere a un mondo che /non c’è più, se n’è andato e vive di / incubi, qui dove il presente ci opprime / e il futuro sapora di morte”.
Tra le pagine si legge un pensiero coerente che non si fa trascinare dalle mode, ma anche un’autoironia intelligente: “ho un problema con l’altezza di me stesso / il romantic desiderio di esse spesso /alto almeno due metri col cappello /quella sì sarebbe gioia di menestrello”. In realtà si cerca una visione dall’alto che renda più chiara la lettura degli eventi e dei fenomeni, perché si è consapevoli che “altrove non molto lontano da qui / si stenderà la sabbia nei giardini, / chiuderà la fabbrica, e la scala / non salirà né vetta o mito greco […] la frontiera oggi è variabile /la primavera che ci preparano /è il fango avvolto in un tramonto”. Diventa salvifico farsi “vento, sabbia, acqua di fiume che scorre, per non perdere di vista cosa siamo”. Diventa importante la parola poetica, per non morire, per superare i limiti del finito.
Dietro al poeta e al teorico fa capolino costantemente l’uomo con i suoi sogni e i suoi affetti, consapevole e tenero nello scegliere anche i titoli – marziale è la crasi del nome della donna amata e del suo -. Sognatore sempre, ideatore del proprio futuro: “E, saputi i figli felici, per me una
veranda la tramonto, un orto vicini al mare, l’amore di questa donna onesta, la felicità di un orizzonte limpido, pulito”.
Lascia un commento