A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Dormivamo tutti nello stesso sogno. Note di lettura a D’argilla e neve, di Maria Pina Ciancio (Giuliano Ladolfi Editore, 2023)
Ogni volta che mi immergo nella lettura di un libro di cui ho deciso di scrivere le note, il primo istintivo moto è quello di drizzare le antenne alla ricerca di un verso, una sequenza, che riesca a riassumerne lo spirito, l’atmosfera, gl’intenti, da utilizzare come titolo. Leggendo D’argilla e neve mi reputo decisamente fortunato perché già nella seconda poesia, il primo verso recita: “Avevo sette anni e un sogno:”; mi appare una sintesi perfetta: una bambina nata in Svizzera, nella Svizzera tedesca, da una famiglia di emigrati, nella quale certamente si è sempre continuato a parlare solo italiano, o forse solo il dialetto, e dove ogni giorno si avvertiva, palpabile, la nostalgia per quella terra rossa che la bambina non conosceva se non dai racconti, e di cui era già intrisa di curiosità e indotta nostalgia; il desiderio di ricongiungersi a quella patria che sentiva già sua attraverso i sentimenti familiari.
Ma già il verso successivo spalanca un altro panorama allettante: “Arrivammo con la Calabro-Lucana ch’era maggio”, una suggestione bellissima, siamo nei primi anni settanta, i vecchi treni di allora, quando ancora esistevano le littorine e possiamo immaginare le antiche carrozze della Calabro, e i paesaggi di maggio, e l’euforia, e la stanchezza, e il marasma di sensazioni. Ma anche i versi successivi si prestano a fare da titolo, “C’era il tutto dei bambini in quel ritorno”, e ancora, fino all’ultimo verso, sembrano tutti una perfetta sintesi dei sentimenti provati da quella bambina e restituiti in versi dall’autrice adulta.
Anche nelle poesie successive ogni verso suggerisce un titolo, per quanto nella sua concretezza sia capace di restituire il senso dell’intera raccolta:
Io a volte mi dimentico di me
di com’ero e di come sono adesso
delle corse a perdifiato sulle strade polverose
degli abbracci che sapevano esser tali
e null’altro
A me pare che la sequenza dei versi sia mossa da una dinamica centripeta che spinge inevitabilmente in una direzione: “i piedi che volevano innestarsi e farsi tronco / foglie e rami in ogni dove”: il desiderio di una stabilità, di un radicamento definitivo.
Andrea Di Consoli nella prefazione suggerisce una riflessione acuta: “Maria Pina con la sua scrittura è una delle poche creature che vive esattamente come me il legame conflittuale con le radici (le case, le parole) che i figli lucani dell’emigrazione sono condannati a vivere, essendo stranieri un po’ ovunque”,
Questo tema dello sradicamento e dell’estraneità percorre l’intero libro, e riaffiora in alcune poesie con l’inciso, che pare buttato là, alla rinfusa, ma che invece esprime bene il senso della ferita: – La Svizzera lontana -. Una lontananza non solo geografica, eppure una presenza che pare ingombrante quanto ineludibile.
Così lungo tutto il succedersi dei versi assistiamo a squarci in cui poesia e confessione esistenziale si illuminano a vicenda, in cui “le perdiamo ogni giorno le certezze di noi”, e anche la parola salvezza appartiene all’incertezza, e la fragilità che ne deriva viene tenuta in considerazione e temuta, e c’è chi ancora sogna la terra dove è nato, e molti versi hanno il potere di incidersi nell’attimo della lettura e poi di resistere a lungo nella memoria: “quello che ingoiava stelle in mezzo ai boschi”, e quella voce che trema quando “sillaba il nome di questo paese”.
Per fortuna esiste “la gioia che varca l’esilio dell’inverno” e pur nella desolazione della estraneità esiste la sicurezza di un appiglio: “Ritorno dove il corpo ebbe inizio / e la parola si incendiò”.
Così, in chiusura del libro, ecco Cinque poesie in dialetto lucano, a suggellare la ricerca e la scoperta di una patria dentro la lingua dell’infanzia, dentro quei ricordi che fanno dichiarare: ”E forse è stato lì che ho imparato tutto l’amore di oggi per la campagna, la natura, gli animali, la vita contadina che da sempre s’inarca sotto pioggia e grandine, sole e vento”.
I versi della poesia che chiude la raccolta recitano: “Tenimi supa i cunucchi / cum na vota / quann jeru vagnona”, “Tienimi sopra le ginocchia / come un tempo / quand’ero bambina”, che può essere letta come un invito a una figura familiare, ma anche come tributo alla lingua dell’infanzia, quando ancora “addu j eru cicata / e nisciunu muria”, “dove io non sapevo / e nessuno moriva”.
Inverno
Guarda adesso come trema la voce
che sillaba il nome di questo paese
ho creduto fosse il centro del mondo
e così son partita e tornata ogni volta
un ostaggio alla terra e alla gente
Radice sepolta tra il pero
e un cielo d’inverno
*
Tutto ciò che non dico è oltre il sud
anche questi fiori d’argento alla finestra
e questa gioia (…) così isolata nella sera
sconsacrata da gesti che ritornano lenti
a un rituale d’avanzi
Anelli che si staccano a scuoterli troppo
e si disperdono per troppa stanchezza
per troppa trasparenza d’intenti
*
In queste terre del sud la bellezza
si disfa e si consuma a priori
quando gli occhi sono ancora tagli d’innocenza
e si feriscono per troppo dire
Io a volte mi dimentico di me
di com’ero e di come sono adesso
delle corse a perdifiato sulle strade polverose
degli abbracci che sapevano essere tali
e null’altro
E non so in quale parte di noi perduri la grazia
resista ancora la bellezza
*
Certezze
Le perdiamo ogni giorno le certezze di noi
quelle costruite col sudore dei libri
oltre la terra dei padri e il paese
La parola salvezza è così incerta adesso
che anche la testa vacilla sopra il tronco
e le stagioni si fanno
troppo lunghe o troppo brevi
un affanno a starci dentro
un affanno ad orientarne il verso
Maria Pina Ciancio, di origini lucane, è nata a Winterthur in Svizzera nel 1965. Ha vissuto e insegnato per molti anni in Basilicata e solo recentemente si è trasferita a Roma nella zona dei Castelli Romani. Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia alla narrativa, alla saggistica, vincendo importanti premi letterari. Ha fatto parte di giurie letterarie ed è presente in svariati cataloghi e riviste di settore; dal 2007 è presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt. Tra le sue raccolte poetiche più recenti ricordiamo ‘Il gatto e la falena’ (Premio Parola di Donna, 2003), ‘La ragazza con la valigia’ (Ed. LietoColle, 2008), ‘Storie minime e una poesia per Rocco Scotellaro‘ (Fara Editore 2009), ‘Assolo per mia madre’ (Edizioni L’Arca Felice, 2014), ‘Tre fili d’attesa‘ (LucaniArt, 2022), ‘D’argilla e neve’ (Ladolfi, 2023). Nel 2023 ha pubblicato ‘La scrittura che rivela. Dialogo con quarantatrè autori contemporanei’ (Macabor, 2023). Sito web personale: https://cianciomariapina.wordpress.com/
16/08/2024 alle 18:35
Complimenti all’autrice e al recensore, parimenti belle opera e commento.