Scegliendo fior da fiore: Dante e il sorriso di Matelda, di Vincenzo Guarracino

 

C’è un attimo che sul limitare della “divina foresta” ci colpisce e incanta, un momento che forse ai più è passato inosservato ma che una volta di più conferma quanto il “canto”, la poesia intesa come conquista di armonia e amore, si muova sempre su un difficile discrimine tra un non-più e un non-ancora, tra ciò è stato e ciò che sarà, tra nostalgia e profezia.

Questo è quando in un rapido incrociarsi di sguardi gli occhi di Dante si muovono tra il “riso” dei suoi due compagni, Virgilio e Stazio, due di “quelli ch’anticamente poetaro” l’umanissimo sogno di un’irraggiungibile felicità, e il “viso” della “bella donna”, di Matelda, figura di terrena beatitudine e perfezione nel segno di una ben concreta ed autentica promessa di rigenerazione e di salvezza.

È inscritto, come è noto, questo attimo nella chiusa del canto XXVIII del Purgatorio, il canto della “divina foresta”, per trovare risposta e soluzione subito appresso, nell’inizio del canto successivo: “Io mi rivolsi ‘n dietro allora tutto / a’ miei poeti, e vidi che con riso / udito avean l’ultimo costrutto; / poi alla bella donna torna’ il viso” (XXVIII, 145-148) e “Cantando come donna innamorata” (XXIX,1).

È un movimento impercettibile, ma quanto basta per decidere se e verso dove continuare: se restare ancorati per sempre all’elegia di un’immagine sognata, così irrimediabilmente perdendola, o se vederla, quest’immagine, tradursi e trasformarsi nell’avvento di un’età nuova, nell’inno dei miracula rerum di una prospettiva di meravigliosa, ancorché faticosa, conquista lasciandosi guidare dalla sua seduzione verso imprevedibili paradisi. Solo per un attimo, però, come l’Orfeo virgiliano del libro IV delle Georgiche, indecisi tra guardare e volgere le spalle, tra consenso e rinuncia; solo per un attimo come il mitico cantore sospesi sulle soglie di una foresta, questa “spessa e viva”, quella inquietante e paurosa (caligantem nigra formidine lucum, “sacro bosco annebbiato di nera paura”, IV, 467), ma col miraggio di un godimento al di là di ogni misura, oltre i limiti stessi della sazietà e il precipizio metrico che rimanda l’attesa dell’Assente.

Consentire a questo miraggio, accettare il suo richiamo, è già essere appagati, è dar forma dentro di sé nel desiderio all’”utopia di un soggetto sottratto alla rimozione”, come direbbe Roland Barthes: a differenza di quanto era accaduto ad Orfeo, che la sua Euridice se l’era vista improvvisamente svanire sotto gli occhi, ceu fumus in auras commixtus tenuis (“come un filo di fumo nei soffi dell’aria”, 499-500), per colpa della sua fede vacillante. Per Dante, no, la promessa si tramuta subito in una meravigliosa risorsa, la “nebbia” che ingombra la sua mente è presto dissolta da un sorriso (“e purgherò la nebbia che ti fiede”, 90): è questione solo di attesa, di un attimo appena. La dismisura lo conduce immediatamente alla misura; la realtà coincide con la promessa, con l’immagine: esattezza, precisione, musica, l’edenica melodia, che diffonde le sue note all’inizio del canto XXIX sull’attesa dell’apparizione della Donna, di Beatrice, è questo, con l’aggiunta di una certezza che la retorica nasconde ma non nega dietro la similitudine contenuta subito in apertura (“Cantando come donna innamorata”).

È che il “canto” non esiste per sé, ma si fa premonizione di ciò che è essenziale e necessario, espressione di un’essenziale sollecitudine, come in una metonimica catena di meraviglie, resa salda da un amore che “donnescamente” (XXXIII,135) avvince: Matelda non sta lì in virtù propria ma per predisporre l’incontro con Beatrice, la quale a sua volta prepara Dante all’apparizione del Miracolo, alla luce salvifica di Dio; i fiori, di cui la donna “cantando” si fa amorosa raccoglitrice (“si gìa / cantando e scegliendo fior da fiore”, XXVIII, 40-41), sono i doni che lei, in grazia di Beatrice (“per occulta virtù che da lei mosse”, XXX, 38), allestisce per la rigenerazione di Dante, doni che i due fiumi, il Letè e l’Eunoè, fiumi della vita, rispettivamente della rimozione (togliendo “altrui memoria del peccato”, 128), e della reviviscenza e del ravvivamento di ogni “tramortita virtù” (XXXIII, 129), con la loro “santissima onda” (XXXIII, 142) alimenteranno al punto da rendere finalmente il poeta “puro e disposto a salire alle stelle”(XXXIII, 145).