Dante e Bologna: l’amante costante, di Luca Gamberini
Scrivere di Dante e di Bologna e non iniziare partendo dalla figura di Emilio Pasquini sarebbe come uscire dal Louvre e dimenticarsi di ammirare la Gioconda. Vorrei allora partire proprio da lui, ricordandolo a partire dagli occhi e dal sorriso, lui che è stato uno tra i più illustri docenti dell’Alma Mater, lui che ha formato – me compreso – tante generazioni di donne e di uomini trasferendo con immenso dono di sé lo stupor mundi che lo animava, l’amore per Dante e per la Letteratura Italiana tutta.
Ma volendo rientrare in argomento, ovvero far luce sul rapporto dantesco con la città di Bologna, inizierei da questi versi:
«Al cor gentil rempaira sempre amore / come l’ausello in selva a la verdura»[1].
Si tratta dei primissimi versi di una delle canzoni più note del poeta bolognese Guido Guinizelli. L’accento che infatti prima di qualsiasi altro vorrei porre è proprio sull’importanza stilistica che il padre del dolce stil novo abbia avuto nella formazione del Dante che siamo abituati a conoscere. Senza l’opera di Guido Guinizelli avremmo mai avuto quelle che sono entrate di diritto nel canone delle terzine più romantiche – e citate – di tutta la Commedia? Mi riferisco al celebre incontro del Sommo Poeta con Paolo e Francesca e alla terzina che ne segue che inizia con «Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende[2]».
Certo, la mia vuole essere soprattutto una provocazione, ma è propedeutica a tessere un filo rosso – meglio se bianco, poi ne vedremo la ragione – tra la Firenze di Dante e la Bologna di Guido Guinizelli. Nessuna poesia e nessun poeta sono mai isolati dal contesto nel quale nascono e si trovano quindi ad operare. C’è sempre un processo di ispirazione, di filiazione tra i poeti e le loro opere. E trattandosi, quelli di Paolo e Francesca, di versi tra i più lussuriosi del poema, è un dato ormai di fatto che Dante voglia richiamarsi alla tradizione guinizelliana. Ma occorre andare allargare lo sguardo critico e filologico perché è un sentimento di immensa stima quello che Dante nutre per il padre del dolce stil novo. Un rapporto di autentica appunto filiazione che non perde occasione di mettere luce nei versi che Dante sceglie di dedicargli all’interno della cornice dei lussuriosi:
«Quand’io odo nomar sé stesso il padre
mio e de li altri miei miglior che mai
rime d’amor usar dolci e leggiadre[3]».
Pur collocandolo in ambito purgatoriale, per Guido Guinizelli Dante ha in mente un futuro di salvezza: trascorso il tempo della sua penitenza si salverà. Dante lo salva, questo è il dato inconfutabile. E in questa salvezza c’è più di un dato meramente ultraterreno. C’è una salvezza poetica. Un tramandare oltre il portato guinizelliano. Tanto più che non si potrebbe altrimenti spiegare – se non inquadrandolo all’interno di un discorso di salvezza – l’appellativo di «padre» con il quale Dante gli si rivolge, chiara eco anticipatoria del ben più noto «dolcissimo padre» rivolto da Dante alla sua guida Virgilio nel momento del commiato sulla soglia del Paradiso Terrestre[4]. Bisogna però anche rilevare come Dante non si ponga tanto sulla scia “filiale” del suo padre-poetico Guinizelli ma scelga di collocare un po’ oltre, in un rapporto non di subalternità ma di trasformazione:
«Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido[5]».
Occorre sottolineare come si tratti di un passo la cui interpretazione è – seppur debolmente – dibattuta. L’identificazione dei due “Guidi” è ormai acclarata sia da riferirsi a Cavalcanti e Guinizelli. Il chiasmo pittorico-poetico vuole far infatti far riflettere su come Giotto abbia superato il suo maestro Cimabue allo stesso di come il poeta Guido Cavalcanti abbia sottratto lo scettro della gloria poetica al suo maestro Guinizelli. Ma vi è un elemento aggiuntivo: l’ultimo verso pare proprio che Dante lo voglia riferire a sé stesso, alla sua consapevolezza poetica, essendo lui medesimo colui il quale supererà nell’ars poetica sia il primo che il secondo Guido. Da un iniziale confronto, ad un successivo superamento, pur mantenendone sempre in rilievo il legame filiale.
Per ritornare al tema centrale di quest’analisi si può allora stabilire un successivo nesso: come con Guinizelli, così con la città di Bologna, Dante ha bisogno di confrontarsi, di trovarvi anzi accoglienza, crescita e rifugio, pur sapendo già che dovrà distaccarsene, prendendone le misure, poeticamente, geograficamente, di fatto superando lo spazio bolognese.
Bologna è infatti senza dubbio la città italiana più importante nella vita dantesca dopo l’amata-odiata Firenze. Forse per ragioni di vicinanza, meno di cento chilometri, forse per analogo milieu socio-culturale e fermento poetico e filosofico, ma è certo – e il prof. Pasquini[6] lo evidenziò molto bene – il rapporto del tutto speciale tra Dante e la città felsinea.
Perché se è vero che sotto le Due Torri Dante viene volentieri, e diverse volte, è altrettanto vero che sotto i portici Dante non resta mai troppo a lungo. Dante ama Bologna perché qui può leggervi la filosofia aristotelica che, complice il nascente Studium, a Firenze non avrebbe potuto trovare altrettanto facilmente. Sotto i portici Dante si abbevera alle ultime novità, oggi diremmo così, dei romanzi del ciclo arturiano. Ma ancor di più Bologna è la città dove più di ogni altra sta realizzandosi un particolare fenomeno sociale: sempre grazie alla nascente Università sta affermandosi una concreta commistione tra latino e volgare. Un doppio binario linguistico che rende Bologna quasi un laboratorio linguistico senza pari.
È pur vero che un ramo molto lontano degli Alighieri si era stabilito da tempo in città[7], e che probabilmente Dante guarda a Bologna come soluzione dove cercare riparo una volta esiliato da Firenze. Bologna è può essere rifugio sia per queste ragioni di parentela che per la folta rappresentanza di esuli guelfi come lui di parte bianca scacciati dalla fazione nera, ma non si può tralasciare uno dei passaggi – a mio avviso il più interessante – che coinvolge la città di Bologna: il tema linguistico.
Spesso siamo infatti attratti – e distratti – nella ricerca delle occorrenze bolognesi all’interno della Commedia. Vengono da sé i riferimenti più e meno noti: a partire dalla similitudine tra il gigante Anteo e la Garisenda[8], passando per i frati gaudenti[9] e infine il meno noto Venedico Caccianemico[10]. È quest’ultimo forse il più curioso e meno conosciuto. Scendendo infatti l’attuale via di Gaibola all’altezza del civico 8, poco prima di entrare nell’attuale parcheggio del Parco di Villa Ghigi sul fianco di una casa e parzialmente nascosta dalla vegetazione è possibile notare una lapide. Questa ci ricorda come, secondo alcuni commentatori, fosse proprio in questa zona che venivano seppelliti i colpevoli che si macchiavano di particolari infamie. Tra questi potrebbe aver ricevuto sepoltura proprio il bolognese Venedico Caccianemico:
«ch’io dissi: O tu che l’occhio a terra gette,
se le fazion che porti non son false,
Venedico se’ tu Caccianemico.
Ma che ti mena a sì pungenti salse?[11]»
Senza entrare nella parafrasi del testo, vorrei porre l’attenzione sull’ l’attributo «salse», che si riferirebbe alla natura particolarmente salmastra tipico di questa zona, ovvero il cosiddetto «baratro delle salse», posto a poca distanza dal convento dell’Osservanza, che era luogo di sepoltura degli infami, dei ruffiani come Caccianemico.
Sia dunque quest’ultima che le precedenti “occorrenze bolognesi” della Commedia sono tutti riferimenti interessanti in grado di mettere in luce come per Dante queste terre gli fossero famigliari; ma oltre una certa patina di affabulazione utile più per le foto sui social e i selfie dei turisti, soffermarsi sulle “occorrenze bolognesi” rischierebbe di farci dimenticare il portato linguistico che Bologna è stata in grado di offrire alla lingua di Dante.
Mi riferisco in particolar modo ad un’opera che, salvo alcuni percorsi universitari, nei percorsi scolastici viene spesso derubricata quale minore e che di fatto e per questo i più non conoscono: il “De Vulgari Eloquentia”.
Come sostiene il prof. Ledda[12], docente di Filologia e critica dantesca presso l’Alma Mater e al quale non smetterò mai di essere abbastanza grato per avermi squadernato la meraviglia dell’opera dantesca, «non è chiaro se Dante l’abbia composto a Bologna, sicuramente Dante l’ha composto per Bologna». Dove Dante scriva e cosa non è mai del tutto chiaro né ricostruibile fino in fondo. E se ci pensate questo è un dramma filologico di non poco conto. Basti pensare al fortunoso rinvenimento del Paradiso, postumo, a seguito di un sogno da parte del figlio Jacopo. È altamente probabile e anzi attestato che Dante scriva più opere contemporaneamente. Sono frequenti i casi di intratestualità nel corpus dantesco. Ciò nonostante quanto mi preme evidenziare è come un’opera quale il De Vulgari Eloquentia” sia di fatto tenuta ai margini dell’opera dantesca, quando invece racconta tantissimo dell’abilità linguistica di Dante e oggettivi la presenza di un autentico problema della lingua ben prima che Manzoni si decida a sciacquare i panni in Arno. Provate infatti a immaginare lo stupore con il quale i lettori del tempo possano aver guardato alla modernità di un’opera che – scritta in latino – poneva l’interrogativo sulle capacità linguistiche di un idioma in via di formazione come era a tutti gli effetti il volgare. Dopo secoli di monopolio latino, qualcosa stava radicalmente cambiando. Afferma ancora Ledda che «Il De Vulgari si configura come un trattato tecnico per specialisti, scritto in latino, sul come scrivere bene in volgare. In questo modo Dante crea una mappa dialettologica dell’Italia».
E al riguardo è diventato ormai iconico il passaggio dedicato alla diversità di parlate che Dante riscontra fin dentro le stesse mura cittadine di Bologna.
«Ma vediamo perché l’idioma principale si è diviso in tre rami; e perché ciascuna di queste varietà si divide in sé stessa […]; e inoltre, cosa che più stupisce, membri di una stessa città, come i Bolognesi di Borgo San Felice e quelli di Strada Maggiore [13]»
In termini di toponomastica, qualora non ci crediate aprite Google Maps, si tratta di 2,6 km esatti quelli che distanziano Porta San Felice dall’odierna Porta Mazzini. Un brevissimo tratto di Via Emilia che oggi prende i nomi di Via San Felice, Via Ugo Bassi, Via Rizzoli e infine Strada Maggiore. In uno spazio così ristretto Dante riesce a distinguere accenti, «rami» per dirla con il Sommo, differenti.
Ma non è finita: perché la parte dedicata al volgare felsineo occupa poco dopo quasi un intero capitolo[14], nel quale viene ufficialmente sancita la superiorità de facto della parlata bolognese rispetto alle altre:
«Dico dunque che forse non erra chi attribuisce ai Bolognesi la parlata più elegante, poiché essi traggono qualcosa, per il proprio volgare, dai circostanti Imolesi, Ferraresi e Modenesi; il che suppongo facciano tutti, rispetto ai vicini propri. [I bolognesi] infatti, hanno dagli Imolesi la morbida dolcezza, dai Ferraresi e Modenesi, una certa pronuncia gutturale, tipicamente lombarda, che ritengo sia negli abitanti di quella regione il lascito della mescolanza con gli stranieri Longobardi[15]».
E ancora:
«Se dunque i Bolognesi prendono da una parte e dall’altra, come è detto, è ragionevole che la loro parlata, per la mescolanza dei suddetti opposti caratteri, consegua il temperamento di una dolcezza pregevole: a mio giudizio, così ritengo che sia al di là di ogni dubbio[16]».
Risulta dunque evidente l’assegnazione alla lingua dei bolognesi di quella che Dante definisce come «la palma del volgare». Chiarisce ancora meglio Ledda: «Quel che preme a Dante è la ricerca di un volgare illustre. Il bolognese, osservato in prima persona nelle varie permanenze in città, mescola secondo il poeta i tratti dolci e femminei del romagnolo con i toni aspri e maschili dell’emiliano-lombardo, generando un idioma perfetto».
Tuttavia non è tutto oro quel che luccica e infatti Dante è costretto ad ammettere che, nonostante l’ampiezza delle lodi sin qui intessute il bolognese non può fregiarsi di alcun titolo:
«Se invece pensano che il volgare bolognese vada preferito in assoluto, allora dissento e non sono d’accordo. Esso non è infatti quello che chiamo volgare regale e illustre: perché, se lo fosse stato, mai dal volgare proprio si sarebbero scostati Guido Guinizelli, che è il maggiore, Guido Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto, e altri poeti di Bologna, i quali furono maestri insigni e finissimo giudizio nell’uso del volgare [17]».
Di fatto il volgare bolognese “vince” ma soltanto a metà. Non è lingua né aulica né poetica, tanto che lo stesso Guido Guinizelli – ed altri suoi contemporanei – hanno dovuto “tradirlo” per poetare, scostandosi dalla lingua della loro città natale, non essendo quest’ultima né regale né illustre.
Senza dunque ingenerare inutili quanto ampiamente fuori luogo toni campanilistici, che peraltro vengono smentiti in parte da Dante stesso, è tuttavia innegabile rilevare il ruolo centrale che la città di Bologna abbia svolto per la formazione dello scrittore Dante, sia in termini stilistici – si ripensi al rapporto con Guido Guinizelli – , sia in termini letterari e filosofici – grazie allo Studium – sia in termini puramente e strettamente linguistici e dialettologici.
Si potrebbe allora obbiettare che le svariate lapidi commemorative – secondo Wikipedia[18] se ne contano ben tredici – disseminate in tutta la città non siano altro che fine orpello laddove di fatto alla città di Bologna venga lasciato ben poco spazio in termini narrativi nella Commedia. Quando ragazzino sfogliai per la prima volta rimasi quasi deluso che alla mia città il Sommo Poeta dedicasse così poco spazio. Mi aspettavo ben di più. E di fatto è vero. Bologna nella Commedia occupa un ruolo apparentemente marginale.
D’altra parte Bologna non è e non può essere il perno intorno al quale far ruotare il viaggio dantesco, ma può svolgere a pieno diritto il ruolo di incubatrice del pensiero dantesco tout court. Certo è che è la città di Bologna che Dante incontra, prima in gioventù da studioso e poi da esule, è una città sempre diversa. È una città in grado di trasformare perché essa stessa in continua trasformazione. E per questo vi fa ritorno. Ciò nonostante anche da Bologna, per motivi politici, sarà costretto ad allontanarsi, perché Dante, prima ancora che poeta, era e rimaneva comunque un condannato, un’esponente tra i più in vista della fazione bianca dei guelfi fiorentini, e questo non gli venne mai perdonato né dalla sua città natale né dalle città dove si trovò a passare. Sì, forse l’avrà anche odiata Bologna quando capì di non essere più gradito. Era un poeta, ma come Barbero[19] ha benissimo messo in luce, Dante era un uomo politico. Influente, conosciuto, apprezzato, ma al fondo restava un guelfo bianco, inviso alla fazione ghibellina e ancor più alla fazione nera dei guelfi stessi.
Quanto mi premeva evidenziare, e mi avvio a concludere, era il fatto che come in ben poche altre città Dante ritorni così frequentemente come a Bologna. Forse Verona[20], ma per motivi che potremmo definire più di riparo e rifugio dall’esilio, che di vera e propria formazione. Cercava luoghi dove scrivere, non dove crescere. A Bologna Dante trascorre quasi certamente tre periodi. E non sono affatto pochi anche se li si vuole considerare parte del frenetico vagabondare per altrui scale. Dante, come si è scritto sopra, era un esule. Questa etichetta non poteva essergli tolta. Ma prima di tutto era un intellettuale, era un attivissimo uomo politico – tanto che partecipa concretamente all’arcinota battaglia di Campaldino. E per questo suo attivismo Dante è costretto poi a fuggire, a peregrinare di signore in signore.
Ma Dante non peregrina mai a vuoto. Lo fa sempre con una ratio. Di qui il titolo di questo breve saggio. L’amante costante. Firenze non potrà mai sostituirsi a Bologna. Ma se in altri luoghi Dante va per ragioni di opportunità, a Bologna invece sceglie consapevolmente di venirci (anche) per sete di virtute e canoscenza, almeno in gioventù. Negli ultimi anni della sua vita Dante cercò infatti di rientrare in Firenze, attraverso una sorta di trattativa segreta, un perdono al limite dell’abiura. Morì da esule. Ma nella galassia policentrica delle città che Dante ha visto durante la sua vita, Bologna è sempre rimasta presente: a questi portici Dante è sempre rimasto legato, come una storia d’amore senza fine, un continuo prendersi e lasciarsi, come due amanti che si rincorrano, uniti alla radice da un sentimento di autentico e profondo amore.
Della vita bolognese di Dante sarebbe tuttavia interessante comprendere come mai non vi sia nessuna traccia scritta, autografa. Questo discorso andrebbe poi riferito ed allargato a tutto il corpus letterario dantesco. Come può accadere che di un uomo che già in vita era così noto, politicamente e poeticamente, non sia rimasto nulla?
Mi conforta in questo un ricordo indelebile dei miei anni universitari. Con la docente che ci teneva il corso di Archivistica, la prof.ssa Maria Gioia Tavoni, ci recammo presso l’Archivio di Stato di Bologna sito in Piazza de’ Celestini, proprio di fronte alla casa di Lucio Dalla. A noi studenti del secondo/terzo anno di Lettere, pieni di voglia di fare – e forse strafare – ci venne rivelato come i sotterranei dell’Archivio di Stato fossero di fatto pieni di manoscritti ancora tutti da inventariare e catalogare. Fantasticammo a lungo. Quante ipotesi provammo a fare. E forse è per questo che mi è sempre piaciuto immaginare, ripassando per quella piazza, che là sotto, magari un po’ impolverati, ci siano tracce del passaggio dantesco a Bologna, carte magari vergate di suo pugno. Sarebbe un bel regalo per la nostra città se la grafia autentica del Sommo Poeta si rivelasse per prima proprio qui, sotto le Due Torri. Certo, queste carte andrebbero cercate, ci vorrebbe tempo. Energia. E quasi certamente denari. Ma se non vogliamo che gli anniversari siano solo date cerchiate di rosso sui calendari, questa potrebbe essere una buona occasione per iniziare a cercare.
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[1] Guido Guinizelli, «Rime»
[2] Inf. V, vv.100-107
[3] Purg. XXVI, 97-99.
[4] Purg. XXX, vv. 43-57
[5] Purg. XI, vv. 94-99.
[6] Emilio Pasquini, “Dante e le figure del vero. La fabbrica della commedia” , Mondadori, 2001.
[7] Alessandro Barbero, “Dante”, Editori Laterza, 2020; pp. 54 e ss..
[8] Inf. XXXI, vv. 136-141 , si veda anche il Sonetto dedicato dallo stesso Dante alla Torre Garisenda, datato 1287, a tutti gli effetti l’attestazione più antica di una rima dantesca: http://www.archiviodistatobologna.it/it/bologna/attività/mostre-eventi/io-voglio-ver-mia-donna-laudare/07-sonetto-della-garisenda
[9] Inf. XXIII, vv. 73-108
[10] Inf. XVIII, vv. 48-66
[11] Inf. XVIII , vv.48-51
[12] https://incronaca.unibo.it/archivio/2020/09/16/dante-e-il-bolognese-la-lingua-piu-bella-di-tutte
[13] Dante Alighieri, “L’eloquenza in volgare”, a cura di Giorgio Inglese, BUR, 2005. Libro 1, Cap. IX.
[14] Dante Alighieri, “L’eloquenza in volgare, cit. Libro 1, cap. XV.
[15] Ibid.
[16] Ibid.
[17] Ibid.
[18] https://it.wikipedia.org/wiki/Lapidi_dedicate_a_Dante_Alighieri_a_Bologna
[19] Alessandro Barbero, “Dante”, cit.
[20] Alessandro Barbero, “Dante”, cit. cap. 16, “I misteri di Verona”, pp.184 e ss.
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