Risonanze di Massimo Parolini | L’uomo in cammino (fra le macerie e le fosse): nota su “Homo viator” (Edizione del Faro, 2022) di Claudio Tugnoli
«L’Homo viator è l’uomo in cammino, esso desidera e spera così si apre al futuro» scrive il filosofo francese Gabriel Marcel nel saggio Homo viator. Introduzione ad una metafisica della speranza (1945) utilizzando la metafora della «itineranza» quale sentiero da percorrere nell’esistenza umana per giungere all’Essere (divino) nel compimento della propria essenza ontologica. E a tale lezione del socrate cristiano si rifa in qualche modo anche Claudio Tugnoli nella sua ultima raccolta poetica Homo viator- Tanka del viandante (Edizioni del Faro, 2022) che completa la trilogia dedicata (seguendo l’antica metrica giapponese dell’haiku e del tanka) all’uomo come viandante e migrante in itineranza oltre ogni (presunto) confine. Trilogia iniziata nel 2016 con la raccolta Diaspora (centrotré haikai, Edizioni del Faro), dove l’haiku metteva a fuoco il mondo della migrazione, attraverso una prospettiva antropologica – ampiamente esplicata e argomentata nel saggio La diaspora come destino dell’homo migrans dello stesso Tugnoli, che correda la raccolta – per cui l’atto del migrare è essenziale alla natura stessa di ogni uomo, non solo da un punto di vista storico quanto antropologico, nativo: la nascita è un’uscita migratoria dal liquido amniotico del grembo materno allo spazio terreno esterno; proseguita quindi nel 2019 con i cento tanka poetici de Il confine invisibile (editi sempre dall’editrice trentina Edizioni del Faro), corredati anche in questo caso da un ricco Saggio sul confine (una cinquantina di pagine) il cui incipit recitava: «Il confine è il risultato della distinzione di due entità inseparabili. Evidenziando il concetto che i confini sono posti dall’uomo, dal soggetto che ha il dominio, il potere di imporli e quindi mobili, arbitrari, revisibili, modificabili perché instabili e convenzionali. Ma a tale convenzione dei limiti confinari il soggetto ha dato un sostrato ontologico, un’oggettività, un’origine divina, rendendo qualcosa di «invisibile e impensabile […] più reale e coercitivo di un’allucinazione collettiva». Giungendo alla conclusione che «Pensare il confine significa distinguere senza separare» e che «La pace è distinzione senza separazione, riconoscimento dell’interdipendenza di ogni cosa di questo mondo».
In realtà nella silloge Homo viator di Tugnoli il cammino viene evocato (in particolare nella prima sezione) ma non riesce, al termine dei tanka, a portare il viandante al proprio compimento ontologico in una panica deflagrazione nel mistero del sacro e del divino, poiché sulla sua strada (quasi memore dell’angelo benjaminiano) trova «chi ti fa vivere/ solo per ucciderti», «fetide carcasse», «morti avvelenati», «macerie», «l’aspro buio/ dove annegar dovrai», «foglie cadenti», «ali spezzate», in attesa di un nulla «tu che nullo già sei». La natura vegetale, simbolo di vita allo stadio iniziale, fa capolino in questa sezione (mirtillo nano, peonie, ranuncolo, granturco), quanto quella animale (merlo, lupo, cicale, cuculo), cercando crepe e fessure da cui sbrecciare, in un sì -vano ed effimero segno per l’umano- alla vita. Forse le formiche rosse sono l’unico essere in grado di «resistere» al destino nullificante che incombe, grazie alla loro leopardiana «social catena» («cercano e trovano/ la strada del ritorno»; «trascina una foglia/ suo tabernacolo»). Il viandante è stanco, lo stanca «la vita della mente» (definita «vecchia maligna»), più che il passo; il viandante vuole evadere dal rimuginare della mente e parlare col solo corpo, «solo con i silenzi» ma la mente gli ricorda, nello sfinimento, che nel silenzio assoluto si resiste pochi minuti (come appurato da un test, al chiuso, degli scienziati di Virginia e Harvard citato da Tugnoli nel saggio conclusivo). Però il silenzio del viandante, ci ricorda l’autore, può essere anche un’esperienza fecondatrice e purificante, come attestato dalla testimonianza di Erking Kagge nel suo viaggio in Antartide. Nella seconda sezione (Campi di guerra) il viandante fa esperienza dell’eccidio dell’uomo sull’uomo (l’attuale guerra in Ucraina), delle fosse comuni: gli dei sono fuggiti, non si sa dove siano scappati, anche i messaggeri sono disorientati. L’emozione è quella delle antiche lamentazioni sumere e babilonesi e delle teodicee connesse. «Un’ombra cupa/ s’allunga sul pianeta/ a dividere/ i buoni dai cattivi/ ora tutti perdenti». Fra cani impauriti in mezzo ai palazzi sventrati si aggira armato «Un porco grasso/ fuggito dal porcile», desideroso di «sterminare/ ogni vita ch’incontri». La storia dell’umanità è «una lunga scia d’orrori/ vile crudeltà/ d’ignobili massacri/ di assassini smarriti». Mentre il monitor invia immagini a masse di uomini ignavi. Merli e cinciallegre scelgono anch’essi il silenzio «sui campi ottenebrati». Il tordo piange «per le fosse comuni». La pietas affonda, col resto, nel fango. Quella compassione che invece rimane nelle solite formiche che soccorrono «la prigioniera/ bloccata da fessura». Il viandante non ode nemmeno il canto liturgico: le chiese sono abbandonate dai sacerdoti e «nessun pane è spezzato». Restano macerie (terza sezione), dove le voci sono roche di pianto e gli occhi sbarrati sull’orrore non si elevano più verso il cielo e «non credon più a niente» perché «nessun dio in cielo/ può ascoltare» lamenti ed urla umane. L’uomo, nel suo mondo, non accetta di restare nei confini: li vuole travalicare (ed è un bene), come il viandante e il migrante, li vuole allargare nel proprio avido dominio (ed è un male, come fa, seguace della lupa dantesca, il miles conquistatore). Egli «sogna sempre un oltre», nella riemersione dal proprio inconscio di quella Erde-Terra, (sottraentesi a ogni dischiudimento) che il filosofo Heidegger contrapponeva proprio al Mondo (apribile, misurabile, conquistabile, controllabile). Il Mondo si apre all’avvenire storico, che però non lascia scorie-scarti «ma promesse mancate». La favilla dantesca dell’invidia (che con la superbia e l’avarizia ha i cuori accesi) ha rubata la bellezza al mondo. L’uomo (come ogni cosa) è stanco di essere ciò che è (quarta sezione: Oltreconfine), di essere stretto in un’essenza delimitata: «allora freme,/ rompe antiche trame/ devastando la terra». D’altronde, non aveva proverbialmente scritto Pico della Mirandola, nel lontano 1486 (De hominis dignitate): «Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine»? Ma tale «suprema liberalità di Dio padre» avrebbe dovuto portare alla «suprema e mirabile felicità dell’uomo! a cui è concesso di ottenere ciò che desidera, di essere ciò che vuole». Certo: ma anziché in una «social catena» come formiche e api, in un polemos perpetuo di «homo homini lupus» che divora tutto ciò che può e tutti gli altri uomini che lo ostacolano, compreso quel naif «buon selvaggio» di Rousseau (filosofo che ha tematizzato l’importanza di unire il pensiero al camminare, contro la sedentarietà dell’uomo civilizzato) oggi costretto a rinchiudersi in piccole aiuole della foresta Amazzonica protetto da «Survival» per non finire in un serraglio mediatico di un reality. Gli ultimi tre tanka del viandante ricordano, con un testo sumero, che gli Anunnaki, «stanchi di far fatica» lasciarono sulla terra gli dei (minori) Igigi, per ritirarsi in cielo. Ma anche questi ultimi, dopo un po’, «stanchi di far fatica» decisero di creare un sostituto, l’uomo, «che li sostituisse». Anche l’uomo, stanco di lavorare, «trovò un sostituto/ che fosse suo schiavo». E Tugnoli, nelle prime pagine del saggio di amplificazione dei tanka, ricorda che la storia dell’umanità è una sequenza di sottomissioni sostitutive: prima con gli animali, poi con le macchine, fino ai robot ed all’intelligenza artificiale che mira a liberare l’uomo dalla fatica e dal dolore. Beh, magari per dedicarci al sapere, al gioco, all’amore per la natura intera, si potrebbe auspicare… Eppure, osserva Tugnoli, c’è un’operazione speciale che l’uomo non vuole ancora delegare per sostituzione: la prepotenza dell’uccisione dell’altro uomo. Qui ogni simbologia per sostituzione viene accantonata: resiste la volontà di uccidere, fare violenza, distruggere l’altro. Ma è davvero questo il destino definitivo dell’essenza dell’homo sapiens? La pulsione irrefrenabile di superare ogni limite e ogni confine comporterà sempre il desiderio di distruggere l’uomo che si incontra perché considerato un ostacolo e un nemico? Ha ragione Nietzsche (ripreso da Freud in Pulsioni e loro destini) quando scrive «l’odio è più antico dell’amore»?
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Claudio Tugnoli (Budrio, 1953), già docente di Filosofia e Storia nei Licei, ha conseguito l’Idoneità di Professore Associato in Filosofia Morale nel 2005, confermata dall’Abilitazione Scientifica Nazionale del marzo 2014. In servizio presso l’IPRASE del Trentino nel periodo 1999-2003, ha curato una dozzina di pubblicazioni che documentano l’attività di formazione e aggiornamento degli insegnanti promossa dall’Istituto. Accademico degli Agiati, membro del comitato scientifico di ASES (Associazione di Studi Emanuele Severino) da febbraio 2017, segretario della rivista Rosmini Studies, membro del Comitato scientifico del Centro Rosmini presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, presidente dell’Associazione Culturale “A. Rosmini” di Trento, tiene lezioni e seminari periodici su logica ed etica dell’argomentazione presso il Dipartimento di Sociologia dell’Ateneo trentino. Collabora con le riviste: Dialegesthai, Filosofia e Teologia, Open Journal of Philosophy, Philosophy Study, Per la filosofia, QuiLibri. È autore di alcune decine di saggi, curatele e traduzioni (da tedesco, francese e inglese), nonché di qualche centinaia di articoli e recensioni critiche dedicati ad argomenti di filosofia morale, filosofia della religione e antropologia filosofica. Tra le ultime pubblicazioni: Il confine invisibile, Il Faro editore, Trento 2019; Filosofia del dilemma, Mimesis, Milano 2019; Filosofia del tempo e significato della storia, Tangram edizioni, Trento 2020. Maggiori dettagli in https://www.wikipoesia.it/wiki/Claudio_Tugnoli.
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