Autobiografismo confessional e cristificazioni in Una piccolissima morte di Francesca Del Moro (Edizionifolli, 2017 / Versante Ripido – Larecherche.it, 2018)

 

La fenomenologia dell’amor dolente, dialetticamente intesa come movimento triadico eros-algos-tanathos, è la chiave di volta che sostiene l’architettura concettuale della silloge Una piccolissima morte di Francesca Del Moro, opera che ha visto la luce nel 2017, nella pregiata veste artigianale delle Edizionifolli di Silvia Secco, impreziosita dall’illustrazione di copertina di Nina Nasilli, ed è stata riproposta in formato e-book nel 2018 da La Recherche in collaborazione con Versante Ripido, con una nota introduttiva di Enea Roversi. È su quest’ultima edizione – configurabile, in virtù dell’inserzione di sette componimenti inediti, come extended version della precedente – che si è deciso di condurre questo studio, giacché si ritiene che tali inediti, meticolosamente innestati in posizioni strategiche del tessuto testuale preesistente, contribuiscano in misura determinante al disvelamento delle logiche sottese all’intera opera.

Il testo si pone sotto l’egida di una doppia epigrafe: la prima è costituita dagli ultimi tre versi di Passata l’età, poesia di Ferruccio Benzoni tratta da Sguardo da una finestra d’inverno (Scheiwiller, 1998): Quanto a te – ti ho amato / tanto – le sole infine mie / parole. Le ossa del commiato; la seconda è la strofa di apertura di una lirica di Martina Campi tratta da Cotone (buonesiepi libri, 2014): È così l’addio di ogni giorno / la piccola morte che si ripete / mattina e sera / mattina e poi, sera / scorrendo. Ambedue gli stralci poetici in esergo risultano profondamente significativi, in quanto simbolicamente preludono, mutatis mutandis, ai nuclei fondanti della poetica del cuore distruttibile della Del Moro: la natura totalizzante e al contempo transeunte dell’amore; l’ineluttabilità della separazione imposta e la sua irreversibilità; la parola poetica come cardine del processo di elaborazione del lutto amoroso, una parola scarnificata che emerge dalle macerie del vissuto come reduce e martire, sopravvissuta e testimone, sospesa sul limes tra la vita e ogni piccolissima morte che, nell’atto stesso del vivere, ci si trova inevitabilmente a esperire.

Il primo testo della silloge, Io preservavo, capofila dei sette inediti di cui sopra, risulta di grande rilevanza ai fini ermeneutici, giacché fornisce le coordinate essenziali a una corretta mappatura concettuale dell’opera, nonché alla localizzazione al suo interno dello status quo psicoemotivo dell’autrice. Dall’analisi di tale testo emergono, infatti, due assi portanti della raccolta, il primo dei quali è sicuramente la cifra autobiografica a focalizzazione interna della narrazione poetica, attestata dall’uso consapevole e insistito della prima persona verbale. Significativo, in tal senso, è il risalto conferito, nel testo d’apertura, al pronome io che ricorre ben due volte, sempre in posizione di forte rilievo: in apertura di componimento, positio princeps per eccellenza, e in chiusura del quinto verso, dove l’enfasi è accentuata dal posizionamento doppiamente strategico in enjambement e a seguito della pausa interpuntiva imposta dalla virgola ([…], io / non avevo). Che la matrice di tale autobiografismo sia di natura confessional è patentemente comprovato da numerosi elementi peculiari che rievocano il dettato della poesia confessionale americana, segnatamente (ma non unicamente) della Anne Sexton di Love Poems. Ciascuno di essi – l’amore adulterino, la divinizzazione ad interim dell’amato, la solitudine, l’autoerotismo, la morte interiore come esito naturale della relazione tossica – è esperito e metabolizzato dalla Del Moro in chiave squisitamente personale. L’amore extraconiugale, ad esempio, è un amore rubato sì, ma con cautela e riguardo verso chi su di esso vanta diritto di prelazione (Io preservavo […] sua moglie, i figli). La vita perfetta dell’amato è osservata dall’amante attraverso il vetro infrangibile di un’esclusione che non trasmuta in rancore, bensì in disorientati atomi di self-compassion per la propria inabilità, per la propria diversità da quelli sposati coi figli la casa e il lavoro giusto, quelli che hanno inserito tutti i tasselli della vita. Per l’autrice, l’amore sembra essersi sempre configurato come gioco settato su un livello di difficoltà troppo elevato (io ho corso troppo lentamente / nel gioco delle sedie, sono tutte prese); un gioco instabile, come già lo definiva la Rosselli, esperendolo, in L’alba si presentò sbracciata, come scivolamento fonosillabico (lattante, latitante), la cui eco rivive nello slittamento emotivo del gioco amoroso delmoriano (mi metto in grembo all’uno all’altro / ma per me non c’è posto / scivolo mi rialzo mi risiedo / cado).

Anche il tema della masturbazione, altro caposaldo della poesia confessionale, che raggiunge il suo apice nella Sexton di The ballad of the lonely masturbator, trova nella Del Moro un esito di particolare intensità tragica. L’interconnessione amore-dolore-morte caratterizza, infatti, la breve lirica Una voglia adunca, nella quale il tema della morte (Una voglia adunca / di morire) s’impregna dello strazio suggerito dall’aggettivo adunca che, per slittamento logico, connota l’anelito anziché lo strumento, ossia il dito, un dito che non accarezza bensì scava in un sesso ormai disertato, rievocando, per forma e funzione, gli ami che, in Seom di Kim Ki-duk, straziano la vagina abbandonata di Hee-jin.

Di grande interesse appare, inoltre, la rivisitazione del tema confessional della divinizzazione dell’amato. Quest’ultimo, infatti, nei versi della Del Moro viene in realtà catasterizzato, «collocato tra le stelle», divenendo egli stesso la stella per eccellenza, il Sole; dall’amato promana una luce che, segnatamente in componimenti quali Ho comprato le lenzuola e Ho spremuto tutto il sole, involve la sua amante e, per suo tramite, ogni cosa, trasfigurandola ai limiti del realismo magico. Ma la risultante di questo processo di esasperata catasterizzazione è invero ingannevole, come la donna desiderante presagisce ben presto, sia pur a livello inconscio. Rivelatore, in tal senso, l’uso del termine supernova in Apparso sulla soglia. L’epifania dell’amato è, infatti, mortifera, latrice di distruzione e la sua amante si abbandona alla contemplazione quest’entità micidiale, bellissima e terribile, alla cui fascinazione lei non può e non vuole opporsi.

La morte di ogni cosa – la relazione, l’amore unilateralmente profuso, l’intero endocosmo dell’autrice – aleggia su tutto. The end of affair is always death, profetizzava la Sexton nel primo verso del componimento citato. E la Del Moro avverte questo funereo presagio sin dal principio. Già in Dentro le chiese vuote, terzo componimento della raccolta (ma primo in senso filologico, essendo preceduto da due inediti), la ricorrenza, in due versi contigui, della parola tema passione (In belle terrecotte ammiro / la passione di Cristo / ma la mia piccola passione / mi fa perdere il filo) è lucidamente profetica di un amore totalizzante che trova il proprio naturale compimento in una morte dolorosa e sacrificale.

Ciò ci conduce all’analisi del secondo pilastro dell’opera, ovvero la cristificazione dell’autrice, già presente, in forma embrionale ma incontrovertibile, nel già citato testo d’apertura ([…] l’amore, / un cuore distruttibile, / l’offerta a un massacro / che si perdona volentieri). Nell’impietoso gioco delle parti, l’affair si configura come massacro, l’amato viene assolto con formula piena (volentieri) da ogni colpa (ed etimologicamente sciolto da ogni legame), mentre alla donna amante non resta altro ruolo che quello dell’hostia, la vittima sacrificale che si autoimmola per la salvezza di tutti (dell’amato, della moglie, dei figli). Il suo cuore è distruttibile, pronto a spezzarsi, come avviene in Apparso sulla soglia (e poi ingoio il tuo seme / ci fertilizzo il cuore / e lo spezzo), dove il tema della frattura interiore rievoca nuovamente – e nuovamente personalizza – il magistero della Sexton (and I broke the way a stone break).

Eloquente, sul tema della cristificazione, la selezione lessicale operata nel secondo testo della raccolta, Dici chiodo, anch’esso originariamente inedito e ispirato a Chiodo scaccia chiodo di Pavese. Nei sei brevi versi del componimento, compaiono, infatti, l’amore, la croce, il numero tre (al posto del quattro di Pavese) e, naturalmente, il chiodo stesso, che ricorre tre volte (due al singolare e una al plurale). Sotto il profilo simbolico, il chiodo non rimanda solo al sacrificio cristico ma anche alla stigmatizzazione, intesa come fissità esistenziale nel dolore (dell’assenza). In tal senso lo legge, ad esempio, la Szymborska in Accanto a un bicchiere di vino, dove l’esilio dagli occhi dell’amato comporta l’annullamento dell’immagine stessa dell’amante e il suo conseguente annichilimento (Quando lui non mi guarda, / cerco la mia immagine / sul muro. E vedo solo / un chiodo, senza il quadro).

Parimenti significativa in chiave cristica la simbolica via crucis del corpo dell’autrice che passa progressivamente, quasi attraversandone le stazioni mistiche, dal lavacro lustrale di Ho comprato le lenzuola (ho avvolto il mio corpo / nella crema agli agrumi / nel profumo abbinato, / ho messo l’intimo di pizzo bianco / appena comprato), all’autoflagellazione di Apparso sulla soglia (mi avvolgo nel filo spinato / nel filo elettrificato).

Sollo stesso piano, in termini di significanza, si pongono le evocazioni lessicali che ricorrono con particolare frequenza a partire dal componimento che potrebbe definirsi il giro di boa dell’opera, Mi ha risposto con una frase. Da questo punto in avanti, si susseguono insistentemente immagini legate al metallo, alle armi da taglio e alle ferite da esse inferte: mi ha risposto con una frase / aguzza, gelida, precisa […] La frase è ferma in mezzo al petto / e taglia. O ancora, in Se ti penso oggi: il metallo degli occhi / che scintilla, il viso in ombra / che mi trafigge. Ad esse si legano, a volte, i temi della combustione e il già trattato tema della frattura interiore, come ad esempio in Il coltello è fermo e in ti ho aperto. La ferita d’amore è ormai piaga esulcerata, insanabile. Come per Lucrezio nel IV libro del De rerum natura, ulcus vivescit et inveterascit, «la piaga (d’amore) si ravviva e si rafforza». Intorno, tutto il resto muore, come nella iconica e spiazzante chiusa di Era tutto bellissimo secondo te, in cui la pervasività di una bellezza totalizzante e al contempo estremamente caduca è sancita dall’onnipresenza dell’aggettivo di grado superlativo, ossessivamente moltiplicato in tutta la prima parte del testo ([…] tutto bellissimo / bellissima la casa bellissima la voce […] bellissimi i libri bellissima ero io […] Poi è arrivato il taxi, si è chiusa la porta / e hai stretto il sacco dell’immondizia / intorno a quell’ingombro di bellezza), con un gusto del gioco virtuosistico che rimanda a certi esiti del trobar clus di Arnault Daniel e dei suoi echi guittoniani (si pensi, per questi ultimi, al sonetto Tutt’or ch’eo dirò gioi).

La raccolta si chiude con un testo di estrema rilevanza Mi guarda. Mastica una gomma a piena bocca, nei cui versi – nove, tutti ampi, dal ritmo lento – la Del Moro mette in atto, con perizia scenica da performer consumata, la demistificazione del dio, la caduta dell’eroe. La donna amante vede ora l’amato per ciò che è in realtà, sotto ogni aspetto. Nulla del dio permane in lui se non l’onniveggenza e l’algido distacco. Tutto il resto è abominio, aberrazione psicofisica. L’autrice ora vede ogni cosa. Comprende. Soffre. Si può supporre che la parabola di questo affair si concluda con un eschiliano pathei mathos, l’imparare dalla sofferenza, ma nulla lascia presagire una dinamica da Bildungsroman. L’evoluzione personale innescata dalla sofferenza e dal sacrificio non tralucono in alcun punto del testo. L’ultima immagine di sé che affida all’ultimo verso dell’opera eterna, infatti, l’autrice nell’atto di piangere con la fronte appoggiata al muro, mentre l’amante, spettatore sazio e, nel contempo, animatore della tragedia alla quale assiste, spegne il televisore e bandisce la donna amante dal suo campo visivo.

Alla luce di quanto fin qui esposto, la cifra distintiva della raccolta Una piccolissima morte sembra, dunque, consistere nell’esemplarità, metabolizzata dalla parola poetica, del vissuto stesso e della sua autenticità, al di là della opzionale funzionalità del suo portato mnesico o della sua eventuale valenza paradigmatica. Ne consegue che, in questa raccolta, Francesca Del Moro sia riuscita a incarnare l’essenza stessa della confessional poetry, dando vita ad un esito italiano di questa poetica statunitense che appare di altissima caratura.

Per approfondire la conoscenza dell’opera, al posto di una selezione di testi si preferisce segnalare il link all’e-book liberamente scaricabile, del quale si consiglia la lettura integrale.

 


Francesca Del Moro è nata a Livorno nel 1971 e vive a Bologna. Ha pubblicato i libri di poesia Fuori Tempo (Giraldi 2005), Non a sua immagine (Giraldi 2007), Quella che resta (Giraldi 2008), Gabbiani Ipotetici (Cicorivolta 2013), Le conseguenze della musica (Cicorivolta 2014), Gli obbedienti (Cicorivolta 2016), Una piccolissima morte (edizionifolli 2017, ripubblicato nel 2018 come e-book nella collana Versante Ripido/LaRecherche), La statura della palma. Canti di martiri antiche (Cofine 2019) e Ex Madre (Arcipelago Itaca 2021). Ha curato e tradotto numerosi volumi di saggistica e narrativa ed è autrice di una traduzione isometrica delle Fleurs du Mal di Charles Baudelaire (Le Cáriti 2010). Nel novembre del 2020 è uscita la sua traduzione dei Derniers Vers di Jules Laforgue, nella collana La costante di Fidia curata da Sonia Caporossi per i tipi di Marco Saya. Attiva in molti campi artistici, anche extra letterari, dal 2007 organizza eventi in collaborazione con varie realtà bolognesi e fa parte del comitato organizzativo del festival multidisciplinare Bologna in Lettere.