Nota di lettura a “Mia vita cara” di Antonia Pozzi, Ed. Interno Poesia, a cura di Miriam Bruni.

     

Tanti ne ho che l’anima
soffoca e quasi muore
sotto l’enorme cumulo
inofferto. (p.86)

Un enorme cumulo inofferto di fiori: è questa l’mmagine poetica alla cui luce la Pozzi ci mostra la propria intima sofferenza.
Il mio amore e la mia stessa frequentazione per il linguaggio poetico mi impongono di trattenermi dall’entrare in spiegazioni o delucidazioni che accerchino, anziché lasciar respirare l’immagine scelta dall’autore: la poesia va lasciata germogliare, possibilmente in silenzio…

Di certo posso dire che questa selezione di testi mi ha portato ad un ulteriore approfondimento sulla scrittura  pozziana di cui conoscevo già i temi ricorrenti, le immagini predilette, il tipo di musicalità e ricercatezza tipici dei suoi testi più riusciti; in questa rilettura ho colto meglio il peso figurale di quattro elementi su cui vi invito a posare attenzione: il “sole”, il “vento”, le “campane” e il “bianco”.

Il sole in particolare è designato a simboleggiare la vita, la salvezza: in esso Antonia condensa il proprio desiderio di pienezza amorosa e intimità beata con Antonio Maria Cervi ma anche tutto quello che per lei rappresenta nutrimento e speranza. Qui sotto troviamo il sole e il bianco insieme, in una escalationdi sensazioni dolci e dense che vogliono trasmettere appunto l’idea del grande Sogno:

andremo
con tutto il sole sovra il petto, il sole
che riscalda e che nutre;
andremo, lenti, in un bianco pio sogno
di sconfinata pace,
verso ignorate spiagge,
col nostro amore solo.

(Silvaplana, agosto 1930
p.50)

Sogno splendido, che però rivela, per converso, le caratteristiche di un reale che si snoda su tutt’altre esperienze: come ha giustamente sottolineato la curatrice del volume Elisa Ruotolo, anche io ritengo che la sensibilità pozziana sia profondamente segnata dal dolore, e difatti quando la sofferenza raggiunge un certo apice si arriva a una sorta di invidia per le cose, per gli oggetti inanimati, che nulla sanno e che non devono sopportare come noi uomini la consapevolezza di essere vivi e così tanto in pena.  
A questo proposito vorrei citare due poesie, quella datata 18 ottobre 1930, e quella datata 17 gennaio 1935; nella prima troviamo l’identificazione con le “cose” e la ricerca di una “tregua”sulla panca di una chiesa, nella seconda il senso di quel “peso” che tanto soffoca Antonia e gli spiriti a lei affini, oltre all’immagine dell’oscuro mare e delle barche naufragate, che la Pozzi riprenderà in altri suggestivi testi.

E non chiedetemi – non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l’arcana folla
dei miei fantasmi –
e non cercate – non cercate
quello ch’io cerco
se l’estremo pallore del cielo
m’illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare –

Io entro soltanto
per avere un po’ di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle – 

Poi ch’io sono una cosa –
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo –
gli occhi
due coppe alzate
verso l’ultima luce –

(p.52)

      

Fuochi di S. Antonio  

Fiamme nella sera del mio nome
sento ardere
in riva a un mare oscuro –
e lungo i porti divampare roghi
di vecchie cose, d’alghe
e di barche naufragate.

E in me nulla che possa esser arso,
ma ogni ora di mia vita
ancora – con il suo peso indistruttibile
presente –
nel cuore spento della notte
mi segue.

(p.147)

Io credo che la Poesia sia stata la presenza che più di tutto il resto ha spezzato la grande solitudine di Antonia: da essa la Pozzi si sentiva “guardata”, soppesata; in essa ritrovava il suo canto libero, il suo “canto selvaggio”. Scrive infatti in un testo che prende questo titolo:

Sul prato crivellato di macigni,
sul capo biondo delle margherite,
sui miei capelli, sul mio collo nudo,
dal cielo alto si sfaldava il vento.
Ho gridato di gioia, nel discendere.
Ho adorato la forza irta e selvaggia
che fa le mie ginocchia avide al balzo;
la forza ignota e vergine, che tende
me come un arco nella corsa certa.
Tutta la via sapeva di ciclami;
i prati illanguidivano nell’ombra,
frementi ancora di carezze d’oro.

(p.33)

Ecco la voce che di lei mi innamorò, nell’incontrarla svariati anni fa: la voce dell’istinto profondo per una Natura che risveglia e rinvigorisce, in cui ci muoviamo con energie che a volte dimentichiamo di possedere, una Natura abitata dal vento e dai fiori, dove ogni mutamento di luce non è che un diverso modo di essere accarezzati.