Recensione di “Per poco tempo” di Cosimo Russo, Ed. Manni, a cura di Annarita Nutricati.
Sminuzzata in desinenze della memoria o in micro rievocazioni sensoriali, la poesia di C.Russo si offre, al lettore, come la quadratura razionale di latitanti emozioni o come un necessario resoconto di verità, chiuso, talvolta, con scomoda crudezza; talaltra, con indulgente malinconia.
Su tutto, prevale, come una urgenza, la sincera mimesi tra la effusione empirica del mondo e la trasfusione nella mente immaginifica dell’uomo.
Ma, qualora, la vita stessa non bastasse, o spezzasse l’incanto della analogia o, d’un tratto, si fosse invelenita, Russo non rinuncia ad ascoltarla e nell’ossessivo atto di amarla, la impagina facendo, del fallimento, poesia.
Scrivo
Oggi scrivo poesie a valanga
sconfitto in altro luogo
rimango solo con questo foglio bianco
e le parole che incessanti scivolano dentro.
Precipitano i versi accalcati, compattati e portano con loro lo sconquasso interno della slavina e la bianchezza eterea dell’altitudine.
Mentre l’umiliazione costringe all’isolamento, la poesia si sovraccarica, diventa possanza. Poi, sotto il peso del suo stesso esistere, cede alla disgregazione, al precipizio espressivo.
Il suo tonfo copre la sofferenza, la travolge di nuove assonanze,di diversi accordi psicologici. Uno spandimento lirico che ovatta il disinganno e l’imbarazzante sensazione di essere fragile.
L’arte compensa e, in qualche modo, ricompensa la disfatta, congegnando, come contropartita, un altrove, una vita secunda, un altro oggi.
Il poeta stacca il suo presente dalla assiepata realtà mondana e guidato dalla loquacità di un io riflettente e silenzioso disloca, su uno spazio cartaceo, ancora, per poco tempo, immacolato, la fiumana lessicale del suo vivere scrivendo.
Il filo tematico si stende, ulteriormente, e teso, come l’arco di una bifora, incornicia una inaspettata quanto consecutiva apertura, che si affaccia sul divino con la mordente intenzionalità di sbirciare il sovrasenso dell’umano, la vocazione trascendentale che subentra all”immanenza.
È una poesia come Pasqua a sommuovere i topoi letterari, persino, quelli afferenti il convenzionalismo religioso.Il peccato si slaccia dalla sentenziosità della condanna, si redime dal brulichio ipocrita della messinscena sociale per semantizzarsi come prodromo di salvezza o imprescindibile presupposto di un termine ultimo.
Pasqua
Primavera di pace
che scendi sui peccatori e li redimi.
Pasqua di resurrezione
non saresti stata promessa di vita eterna senza
la parte del traditore
che gravato da un piano non suo e
consegnato all’albero della morte
ignominiosa
mai saprà sua madre per quale crimine è
condannato
ma lo veglia impotente come la Vergine.
L’innominato Giuda con la sua adibizione al tradimento rappresenta, a ragione della sua anonima presenza poetica, l’archetipo dell’uomo.
Piegato, a suo modo, da una grama e predestinata sorte, ”da un piano non suo”, egli confonde la personale identità con il ruolo assegnatogli nel disegno anagogico.
È un Giuda decadente, post peccatum, che radicalizza il male nella insopportabile pena del rimorso e consegna le sue corrotte membra alla morte solitaria del gesto estremo.
Il cieco e rigorista giudizio sulla abiezione commessa è oscurato, nella poesia di Russo, da un più fraterno e riconoscente tocco pietoso.
Ai piedi della croce insanguinata di Cristo e del legno tormentato del traditore, stanno le madri. Se le filamentose regie del destino le hanno, finora, contrapposte, la compassione del poeta le avvicina, sorelle dell’indicibile dolore.
Un inusuale e moderno Stabat Mater che potrebbe far sobbalzare per l’accostamento blasfemo delle due figure femminili,ma che sollecita,in realtà, ad un minore dualismo ed una maggiore mistura e sintesi esistenziale.
Tuttavia, la madre del traviato non ha come la Vergine la chiarità della rivelazione e l’interdizione permanente dalla gnosi la riporta alla connaturale condizione umana.
Eppure una misericordia nuova, meno scontata,si appalesa nell’aria festosa della primavera: essa più si laicizza e più accoglie, restituendo alla festività, il pegno umano, e alla carne ontosa, la promessa della Resurrezione.
“Primavera di pace” costituisce il primo saluto che il poeta rivolge alla massima ricorrenza cristiana.
La peccaminosità inscritta negli inferi antropologici attiene alla vigoria e alla smania di vivere:una rude quanto vitalistica trasgressione esalta i sensi,li appassiona, nonostante la consapevole attesa della nemesi,del giusto danno
Non si tratta di un occasionale deviamento, o di una reprimibile viziosità, ma di un predisposto e perpetuante pensiero, di ascendenza adamitica,che irrompe e corrompe.
Nel bei calibrati versi del “La mia mela” abbondanti, tra l’altro, di allitterazioni ed iterazioni, il poeta allestisce una.sorta di selvaggia e libidinosa degustazione del frutto proibito.
La mia mela
La mia mela la mordo e la rimordo
ogni morso mi dà gioia ogni morso
mi condanna
la succosa polpa
la rigiro sul palato
la bevo di vita
la mangio fino al torsolo […]”
Una sovraeccitazione primordiale ed edonistica scatena l’indole più schietta e originaria, perché non censurabile dalla convenevolezza morale o dalle forzature razionalistiche degli ambienti culturali.
Con inesauribile voluttà, l’atto recriminato si ripete secondo trasformanti movimenti ciclici: il pomo peccaminoso diventa semenza, germoglio e, di nuovo, tentante frutto:
”[…] poi i semi sotterro
per vederli crescere gli alberi del peccato
fiorire
dare frutti
e iniziare daccapo “.
Il male attecchito rinsalda le sue ragioni nello sguardo, a tratti, disincantato e, a tratti, compiaciuto del poeta.E senza infingimenti di sorta, si innerva nell’umanità’ e, di essa, ne segue, come una profetica ombra, l’assegnata sorte.
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