Quaranta poesie più un monologo, di Anna Maria Benone (Controluna 2023); recensione di Ivano Mugnaini
Siamo fatti di frammenti. Siamo dolore, gioia, realtà e sogni sospesi tra tempo e spazio, particelle minuscole in grado di racchiudere tra istante, memoria e un’ipotesi di futuro, il bene e il male del mondo.
In un’epoca in cui la poesia spesso deborda fino a lambire le coste della prosa, e soprattutto tracima riversando ondate mirabolanti di vocaboli che vanamente si rincorrono e si sovrappongono, Anna Maria Benone, per istinto forse, per necessità o per inclinazione naturale, sceglie un sentiero meno battuto. Azzarda, prendendo la direzione autonoma di un’espressione asciutta, densa, concisa.
La “poetica del frammento”, ossia del componimento breve, dall’espressione intensamente significativa, ha una tradizione e ha avuto peso e diffusione in Italia in un determinato periodo storico-letterario. Alcuni poeti del passato, anche noti, l’hanno sposata per accentuare il carattere lirico dell’esperienza letteraria, costruita non su schemi prestabiliti ma ritagliati, per così dire, su una misura soggettiva e interiore.
Col il termine “frammentismo” si indica quel modo di fare poesia e quel gusto che furono propri degli scrittori italiani che si raccolsero intorno alla rivista La Voce durante il primo conflitto mondiale e negli anni immediatamente precedenti. Il fulcro della loro poetica era il concetto di poesia come brevità, immediatezza, folgorazione lirica estranea ad ogni disegno e struttura. La conseguenza è il desiderio di eliminare ogni diaframma tra ispirazione e stesura e l’obiettivo è la realizzazione di una ‘prosa lirica’ o ‘lirica in prosa’, depurata da tutto ciò che risulti estraneo all’impressione o emozione originaria.
Leggendo il libro 40 + 1 di Anna Maria Benone viene fatto di pensare ai modelli precedenti a cui si è fatto cenno. Tuttavia di gran lunga prevalgono le caratteristiche distintive, ispirate da un percorso autonomo e da un modo del tutto individuale di esprimersi attraverso la poesia.
La scelta del “frammento” per alcuni poeti della prima metà del secolo scorso era dovuta innanzitutto a una visione della vita confusa, parziale e soggettiva. Per loro una rappresentazione della vita unitaria e compatta era impossibile.
I “vociani” e altri autori vicini alla rivista ponevano inoltre l’attenzione verso l’analisi dei sentimenti e degli aspetti morali della vita, tralasciando i fatti concreti.
Nei versi di Benone i fatti concreti ci sono, sia come accadimenti che riguardano il mondo intero, sia come fatti della cronaca nazionale, disastri indicati in modo esplicito oppure allusi, resi individuabili tramite riflessioni che rendono ancora più lacerante il richiamo.
“Mancava poco ormai gioia nel cuore
Mancava poco ormai una nuova meta
Mancava poco ormai un attimo
il paradiso dopo l’inferno.
Tra ghiaccio e roccia l’ultimo saluto.”
Ci sono però anche e soprattutto i “fatti” della vita individuale, quegli eventi che non assurgono al ruolo di notizia, quelli che non generano strepito, ma, dentro ciascuno, nel chiuso e nel silenzio dell’interiorità, equivalgono a frane, slavine, alluvioni che spazzano via rocce e prati e mutano inesorabilmente il paesaggio. Per sempre.
“Ingabbiata nel ricordo
scollo il presente
scordonato passato
rimpianto
di un mancato sì.”
Il vocabolo “scordonato” ha la forza dell’esattezza. Innanzitutto rende possibile rilevare uno studio, una ricerca attenta, la selezione affiancata allo sfrondamento del superfluo. Inoltre, si tratta di un termine a suo modo fattivo, fattuale, in quanto registra un evento che non è visibile da occhi esterni ma che dentro, nell’animo di chi lo vive, equivale ad una sconnessione, uno stacco, lo schianto di un punto di contatto che legava due esistenze rendendole un’entità unica, condivisa, animata dallo stesso respiro. È la lacerazione di un cavo esistenziale che non ha nessuna eco nel mondo esterno, non fa rumore, non esplode, non stride. Eppure, nei territori del sentimento individuale e della poesia, equivale ad un crollo, ad un disastro.
È un accadimento della cronaca interiore che Benone registra con cura, senza mai lasciarsi andare a espressioni retoricamente appariscenti ma vuote di autenticità. Annota in versi essenziali come passi in punta di piedi gli eventi del proprio cuore e della mente che cerca la cura e spesso non la trova, finendo per aggravare il bilancio.
Eppure, a dispetto di ogni forma di smarrimento, di nostalgia e di pena, il pessimismo assoluto non prevale. Non ha luogo la demolizione di ogni ponte tra il reale e l’ideale. Non è un caso forse che la prima lirica della raccolta sia composta da questi versi: “Passato / culla del futuro. / Incanto di / una nuova speranza.”
Non parte da una presa di posizione rigida riguardo alla vita, l’autrice. Descrive ciò che vede e percepisce con un atteggiamento aperto, in grado di accogliere anche le istanze contrapposte. In un’altra lirica, dichiara “Ritorno nel dolore / per sorridere alla luce”. Lontana dai preconcetti, interiorizza e descrive la complessità non di rado “ossimorica” dell’esistere.
È conscia, Benone, ben consapevole che l’esistenza umana è coesistenza di buio e luce, suono e silenzio. Forse anche per questo è attenta a scegliere adeguatamente ogni sillaba, ogni fonema che utilizza per manifestare la propria visione, la memoria e la speranza del domani. Sempre senza pretendere di possedere verità assolute né formule magiche, ma con l’onestà e la sincerità di chi incide con parsimonia segni grafici sulla roccia del silenzio.
Il “dilemma” alla base di tutto ciò è adeguatamente colto e messo in luce nella prefazione (nitida e acuta) della professoressa Letizia Mazzella che nella raccolta rileva “un linguaggio che «usa» le parole perché necessitato, ma le distrugge nello stesso momento in cui le usa perché in questa nuova dimensione della vita ogni «cosa» non è e non «fa» e tutti noi «siamo nuvole/in un deserto chimico». «Se pensi di essere arrivato/non sei mai partito», «il dolore/non si allevia non scompare, /si indossa fiero/con abiti di rughe».
È indubbiamente vero: il poeta dissolve e destruttura il linguaggio, erode le fondamenta di ogni parola. Tuttavia, per farlo, necessita della parola stessa.
Una parola a cui Benone sente la necessità di togliere gli orpelli, le zavorre, i filtri, quelli stessi che rendono ormai tutti simili e tutti falsi, nelle foto e non solo. Sente di dover togliere anche gli “air-bag”, per così dire, ossia le formule retoriche con cui tendiamo a edulcorare il dolore, la malinconia, l’oppressione di una vita che nega se stessa nell’atto di proseguire in apparenza identica a se stessa.
Restano, dopo l’opera di sottrazione simile a quella che gli scultori compiono con la pietra o il marmo in eccesso, le ossa delle parole contro gli spigoli della realtà, del non detto, del detto necessariamente in modo imperfetto, parziale.
La parola ricalca il respiro, la mimica secca e breve di una comunicazione che sovente, purtroppo, è assenza di empatia.
Accade così che diventi evidente, anche dal punto di vista grafico-tipografico, per così dire, la pienezza ossimorica di questa raccolta, vale a dire la capacità di osservare con gli stessi occhi situazioni e stati d’animo di natura contrapposta. A pagina 52, fianco a fianco, troviamo la lirica Soffio d’amore che recita: “Non posso / respirare / senza il tuo canto / incanto di una preghiera. / Decina / del tuo mistero. / Grano di luce”. Immediatamente dopo, accanto, la poesia Sorelle, in cui leggiamo “Vedo dove tu non vedi / credo dove tu non credi / credi ciò che io non sono / sono l’esistere del mio confino.”
Il poeta è l’esistere del suo confino ed è le sue parole, anzi i frammenti della sua vita che mette insieme tramite le parole per confermare la propria esistenza e dare misura al proprio dolore.
T.S. Eliot li definisce “a heap of broken images, where the sun beats / And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief / And the dry stone no sound of water”. Ci ricorda, nell’atto di ricordarlo a sé stesso, che siamo “mucchietti di immagini frantumate”. Eppure, tra disillusione e speranza, anche lui, come Anna Maria Benone, fa ricorso ai frammenti, delle parole, dei ricordi, delle sensazioni, per dare vita alla vita, e ad una speranza, seppure ad una speranza conscia di una tempesta mai del tutto spenta.
“These fragments I have shored against my ruins,” afferma Eliot, suggerendo in tal modo la possibilità di proseguire il cammino a dispetto di ogni mancanza di certezza, creando arte, nonostante tutto, in the face of madness, in faccia alla follia.
Per tutte questa ragioni, consapevole del peso ma anche del valore della parola, Anna Maria Benone ha scelto in questa raccolta una forma espressiva in cui niente è sprecato. Non ci sono orpelli, né lustrini. C’è una struttura coerente in grado di accogliere il vivere nella sua interezza, nella complessità e nelle sfumature, sottili e dense di senso.
Il titolo esprime con scabra logica numerica il senso di questa fertile unitarietà, 40 + 1. Quaranta poesie più un monologo. È giusto fare ricorso ancora alla prefazione di Letizia Mazzella per rilevare che “Se in queste poesie cerchiamo il «racconto» della vita, resteremo delusi perché è la stessa scelta della forma poetica che l’autrice fa, che non ci permette sensi ultimativi e monovalenti, perché la poesia vuole scoprire il diverso, il non detto, il divergente e rompe la visione «normale» delle cose per offrirci ogni volta un ventaglio di sensi. Non è per caso che la raccolta poetica si conclude con un monologo teatrale che non è fatto di atti ma di movimenti perfettamente in sintonia con il movimento di quaranta punti luce che abbracciano la vita nel suo continuo morire e rinascere e che conosce una sola realtà: «il dubbio».
«Ritornerò? Ritornerai?»
Morte e rinascita dunque in un ciclo che Benone accetta e assimila e rende parola e verso mai urlato, mai stridulo, nella pena e nel sorriso.
Non è un caso forse che una delle poesie più articolate della raccolta sia quella in cui vengono descritti i falsi poeti:
Attenzione ai falsi poeti
predicatori di odio
rapinatori di pace
salvatori di delitti
relitti
camuffati da geni.
Attenzione ai falsi poeti
divulgatori di ipocrisia
dittatori
illusionisti allo sbando.
Attenzione ai falsi poeti
ricchi di parole povere
bucate dai loro stessi coltelli,
spalmati sulla terra come oceani di popoli ormai estinti.
Attenzione ai falsi poeti
festaioli di miserie altrui
manipolatori di menti.
Attenzione ai falsi poeti,
attenzione ai falsi profeti.
Non è un’invettiva. È un modo per tracciare un confine, una linea di demarcazione che è allo stesso tempo letteraria e concreta, riguarda al contempo le parole e i fatti, i comportamenti, i gesti, le azioni, il modo di vivere e di interagire con gli altri esseri umani.
Oltre ad essere una lirica importante nell’economia del libro, svolge anche il ruolo di compendio. Leggendola, nei versi e anche tra le righe, si colgono gli spunti, le motivazioni che hanno spinto Benone a mettere insieme frammenti di autenticità in un mondo che invece tende a valorizzare il superfluo, il posticcio, lo scarto appariscente che riempie gli occhi e svuota il cuore.
Nell’inversione di tendenza, in una differenziazione dalla massa che è un gesto, un programma, una volontà necessaria e non un capriccio, c’è la sola agrodolce speranza di cui parla il libro. C’è il percorso arduo ma salvifico che conduce ai “luoghi che respiriamo / cedro / limone / melograno”. C’è l’incanto dei profumi e della quiete.
Ivano Mugnaini
24/09/2024 alle 09:06
Nella gradevolissima recensione di Ivano Mugnaini compare per ben due volte l’aggettivo “ossimorico” e in effetti la mia impressione e` che la tecnica del frammentismo porti a svelare una contraddizione di percorso: la ricerca dell’emozione ispiratrice iniziale attraverso lo svuotamento da orpelli apre la via alla scoperta di nuove complessita` nascoste e l’essenzialita` in quanto tale non e` mai raggiungibile; cio` avviene, come si evince grazie alla psicologia di cui sono permeate sia la poesia che la relativa recensione, per il fatto che cio` che approssimativamente donominiamo pura realta` e` invece la conseguenza di interazioni fra vibrazioni, comprendenti il valore semantico delle parole, il confronto coi propri modelli emotivi e cognitivi di riferimento, l’influsso dell’epoca in senso non solo culturale ma anche politico e sociale, persino la brevissima memoria necessaria a collegare l’inizio di una frase col suo termine. Per rendere un quadro piu` chiaro si potrebbe fare un paragone con lo studio scientifico della materia: fin dai tempi di Democrito e Platone si cercava il mattone essenziale di cui e` composta la complessita` da noi percepita coi sensi, per trovare, grazie a microscopi sempre piu` potenti, costituenti quantistici con effetto matrioska, fino ai quarks (o in futuro si riuscira` ad andare ancora piu` addentro?), privi di significato se disgiunti dalla loro vibrazione, dalle interazioni con altri elementi simili, dalla configurazione di un campo, e persino dallo spaziotempo relativistico. Trovo quindi estremamente rivelatore questo esperimento letterario.