A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Come se la poesia dovesse a forza essere un funerale (Gloria al poeta che non sgomita), note di lettura a La perdita e il perdono di Roberto R. Corsi, Pietrevive editore, 2020
Una delle più grandi gioie che certe mattine e certe letture regalano è scoprire poeti che non sgomitano. Quando all’orizzonte del brioso mondo poetico si staglia, come il profilo del Rex che emerge dalla foschia notturna in Amarcord, l’uscita di una nuova antologia, ecco che subito si librano nell’aria le polemiche degli esclusi, le rimostranze dei critici
non convinti delle motivazioni alla base delle scelte, le prese di posizione degli inclusi e le manifestazioni di solidarietà ai curatori, ecco allora d’improvviso manifestarsi in tutta la sua bellezza il poeta che se ne fotte. Che dice “A me proprio non riesce”. Che meraviglia! che soddisfazione! Soprattutto trovare, o meglio scovare, dei modelli morali.
Dunque La perdita e il perdono, di Roberto R. Corsi, è il libro di un poeta talmente serio che si permette il lusso dell’autoironia, dello sberleffo, dello sputtanamento di certe paludate convenzioni in uso nel mondo dei poeti. Soprattutto capace di mischiare la sesta sinfonia di Mahler col calendario di Monica Bellucci, i siti porno e un rifacimento di Caproni, di citare poeti che ancora vivono e lottano insieme a noi e il suicidio di una pornostar, una partita di campionato, Roma Sassuolo, e Venezia che affoga, la nave Diciotti obbligata alla fonda e Kavafis, alternando lingua colta e lingua dello scambio comunicativo quotidiano, in definitiva di mostrare una possibile via al fare oggi poesia. Stessa originalità nella scelta dei titoli delle sezioni e delle singole poesie: L’oracolo della pizza, e anche Rimuovo la tua email dall’elenco dei contatti, e anche Adolescente in un Compro oro.
Si tratta di piccoli libri intorno ai quali è lecito domandarsi come mai le vendite, che nella più rosea delle previsioni non hanno superato le due o trecento copie, non siano invece schizzate fino alle duecentomila, per la meritata soddisfazione dell’autore e come giusto premio al coraggio dell’editore, al quale va riconosciuto il merito di certe predilezioni decisamente non a favore della corrente. E l’estensore di queste irrilevanti ma gaudiose note auspica che tramite il passa parola il libro scali le classifiche mondiali e riceva quanto merita.
Consuntivo: lirismo e poesia
La notte è così triste
che qualcuno
si è messo a ridere
(Kenshin Sumitaku)
Dice un amico che quello che ho scritto
“È perfino umoristico”,
come se la poesia dovesse a forza
essere un funerale, oppure l’aria
d’un tenore ingrifato.
“Tu scherzi sempre?” chiedono.
Il recensore giovane mi respinge via mail:
“La poesia è cosa seria!” – me lo immagino
mentre lo proferisce,
indice e medio uniti verso l’alto.
L’ho capito a mie spese:
la lirica richiede atteggiamento.
Ricordi quando stavi per venire
(“Amore, amr, vengo, vng, vnnggghhhhh”)
e io son scoppiato a ridere, smontandoti?
Per essere creduto, perché vada tutto liscio,
devi inscenare o credere sacralità nell’atto
(coito canto scrittura),
smarcarti per un poco
dall’assurdo, grottesco quotidiano.
Emanare una certa autorità.
A me proprio non riesce.
Questo verso finale rappresenta un inno alla schiena dritta, alla consapevolezza circa la vanità del tutto, un manuale pedagogico per l’aspirante poeta nello specifico, e più in generale per l’aspirante a qualsiasi cosa.
Nel corso del libro ci sono altre poesie al cui interno si cela una lungimirante vocazione pedagogica, seppure involontaria, questa per esempio, che a me pare un piccolo gioiello:
Da qualche parte, sul ponte della Diciotti ferma in porto,
siede il poeta Quasimodo. Un albero con radar
ed elettronica di bordo può ben essere
un salice frondoso, mi sussurra.
E se da tempo un groppo alla gola mi prende all’usare
il termine “affogare” nelle mie insipide poesie,
è veramente ora di tacere.
Qui il riferimento colto a Alle fronde dei salici, con le cetre che oscillavano lievi al triste vento, viene ripreso per rimarcare la consapevolezza della feroce disparità tra la vita e la poesia. Attraverso un procedimento semplice e lineare, il fatto di cronaca all’origine della riflessione poetica, viene visto attraverso lo sguardo del poeta che cantò gli sconvolgimenti della guerra, il figlio crocifisso sul palo del telegrafo e l’urlo nero della madre, e rende esplicita la vera tragedia dei nostri tempi, quella continua ed evitabile strage che si consuma nel Mediterraneo da tanti anni, e che qualcuno più avveduto di altri paragona alle stragi compiute nei lager nazisti, al genocidio che vi si consumò, con la differenza che il genocidio attuale è sotto gli occhi di tutti, scandito dallo stillicidio delle notizie dei telegiornali che aggiornano il numero degli annegati, degli scomparsi, e rende ancora attuali le parole, ancora di Quasimodo, di Giorno dopo giorno: “Vi riconosco, miei simili, mostri / della terra. Al vostro morso è caduta la pietà”.
In quel verso, “è veramente ora di tacere”, è contenuta tutta la verità dell’impotenza della poesia di fronte alle tragedie, ed è a partire da questa constatazione amara che può nascere una forma di riscatto, un sussulto di orgoglio e di umanità.
Eppure le potenzialità della poesia sono avvertite eccome, se “Gran parte dei poeti si rallegra che siamo marginali, / che la poesia non venda”, e pochi versi dopo afferma: io ne soffro, lo considero un dramma, e potrebbe sembrare un’apparente contraddizione, se non intervenisse una citazione di Brodskij a chiarire il tutto, quando dice, più o meno, riporto a memoria, “è difficile che chi ha letto Dickens spari al suo vicino”, volendo intendere che una sensibilità affinata da buone frequentazioni letterarie migliora anche il senso etico e s’indirizza verso valori positivi.
Ma la poesia è anche dire le cose come stanno, senza reticenze né ipocrite remore:
Dio della mezza età, del gelo sensuale
e del riutilizzo cartaceo, non so liberarmi
del calendario con Monica Bellucci.
Né della foto di Kim Basinger nuda:
Ironia, disincanto, sono tentativi di alleggerimento di una pena profonda che viene dichiarata dall’autore nella prefazione: “Il senso catastrofico che spira tra le pagine promana quasi unicamente dalla riflessione sull’emergenza climatica (la considero ancora la vera, definitiva apocalissi a venire)”.
Da capo al fondo
Venezia già affoga
come affogherà Pisa, si allagherà Ravenna –
e io chi sono per volermi salvare?
Le magnifiche sorti e progressive
spariranno nell’onda o nella sete, si ridurranno a tattiche
per evitare la fine del topo
o del romito senz’acqua, falciato nel deserto.
I più furbi già affrontano silenziosi il cimento,
il resto è lotteria senza neurone
(o forse apocalissi, o selezione).
Ma come sono belli i merli quando planano
e rapidi si bilanciano con le penne di coda,
slanciando il petto in alto! Assertivi e rissosi versiliesi,
neri negazionisti prima della sciagura.
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