Oggi ti sono passato vicino di Tommaso Urselli (Ensemble, 2020), recensione di Fabrizio Bregoli.
Questa raccolta di Tommaso Urselli, che è la sua opera prima, ha un’architettura piuttosto articolata, con una varietà molto ricca di temi e di stili, e raccoglie testi che appartengono a un tempo di scrittura piuttosto ampio, come scritto dall’autore nella nota finale al libro: aspetti questi che sono tipici di ogni opera prima, come è naturale che avvenga a ogni autore che intende dare da subito un saggio di tutte le esperienze maturate fino al momento della pubblicazione. Tuttavia Urselli non è digiuno di letteratura, essendo autore di teatro e attivo in questo mondo da anni, per cui siamo di fronte a un’opera per nulla acerba, anzi capace di mutuare dal mondo del teatro tutta una serie di caratteristiche fra cui la capacità di impiego di una parola “affabulatoria”, tutta orientata a un rapporto con il lettore, alla costruzione di un dialogo. L’impronta drammatica e dialogica è ben presente in alcune composizioni del libro, soprattutto nel poemetto argomentante “Timshel”, ma anche nella raccolta di testi delle sezioni “In labirinto” e “Corpo-città” che hanno la forma di poemetti strutturati in più parti o atti; ciò che preme all’autore è il ricorso a una “parola viva” che sia in grado di generare “azioni e non solo il nominare”: enunciazione di poetica quanto mai esplicita e realizzata nei fatti con la pratica del verso. La ricerca è verso una parola, dunque, che non sia asettica, ma fortemente radicata nel mondo, nel corpo, nella realtà delle cose; la parola di Urselli è anche comunicazione, gestualità attraverso il corpo, fosse pure il “corpo” della parola scritta, una parola capace di “scavare canali, crateri”, insinuarsi in “tutto il sistema delle vene”, farsi sangue. Mai però un corpo chiuso in sé stesso, arreso alla tentazione solipsistica, ma un “corpo-città” che si congiunge con l’altro, istituisce un ponte verso il “fratello” (anche questo, termine che, sia nella accezione propria sia in senso esteso, ricorre più volte nel libro).
Se è possibile individuare un tema conduttore, come suggerito con evidenza dalla sezione eponima, è il ricordo del padre, la sua presenza pervasiva nel libro, anche nelle sezioni in cui meno ci si aspetterebbe di trovarla; un padre, ci annota l’autore, che era anche lui poeta e con il quale avviene una sorta di passaggio del testimone, a inseguire quei “pesci-parole” che lui scriveva, che il figlio oggi raccoglie non solo come omaggio alla memoria, ma come percorso che va continuato (“camminare / è parlare coi piedi”): quello forse il rimedio alla “rabbia / di essere sempre soltanto / figlio.”. Il tema dell’addio (per usare le parole di Milo De Angelis) è declinato con sobrietà e intensità emotiva, senza mai cadere nel patetico o nel sentimentalistico: la lingua asciutta dell’autore e il rispetto che è dovuto al lettore / pubblico, lezione del teatro, si combinano nella costruzione di un universo interiore essenziale e ricco di connotazioni al tempo stesso. Il dialogo con chi ci ha lasciato diventa allora l’attraversamento di una porta a doppia mandata (come si sottolinea nella intensa “Giorno otto”), una soglia dalla quale è impossibile decifrare l’ingresso e l’uscita, o frapporre un diaframma impermeabile all’osmosi fra i due mondi: “E sono fuori // o dentro non lo so.”. E ad attraversare questo varco sono proprio le parole, che affrontano sfrontatamente il silenzio, lo obbligano a rispondere: “una lingua / questo cerco”. Tema, quello del rapporto fra padre e figlio, del loro distacco forzato, per la legge della nostra mortalità, che riverbera anche nelle sezioni che hanno a sfondo una matrice mitologica (come nel caso di “In labirinto” ispirata al noto mito del minotauro a cui si combinano le vicende di Dedalo e Icaro e di Teseo), contribuendo così alla coesione del lavoro, avendo come filo conduttore il non arrendersi a “l’autunno che divora la mano”.
Alla varietà di forma e di stile che incontriamo nel libro si aggiunge anche la particolare sensibilità dell’autore verso la forma dell’epigramma che si esprime bene nella sezione “La lingua delle cose”, dove non mancano però anche testi più articolati, e soprattutto nella sezione “Parole alle formiche”, dove il riferimento al piccolo insetto è anche un’allusione alla brevità o al minimalismo dei testi. Qui a prevalere sono la vena ironica, sardonica, malinconicamente comica o paradossale, non immune da un certo effetto straniante di fondo. Questa sezione è anche percorsa da tutta una serie di riferimenti o cripto-citazioni letterarie, che vanno dall’esplicito riferimento a “La capra” di Saba (per Urselli il dialogo è invece con una rosa che ambisce solo a diventare ciò che è sempre stata: una rosa, se stessa – e come non pensare anche a Caproni o Rilke?) al tardo Montale (il suo “cinque per cento di vita” diventa “apnea di vita / al tre per cento”), da echi sereniani (“si parlava del nulla / del suo colore”, che ci ricorda “Autostrada della Cisa”) a vaghe atmosfere da “serie ospedaliera” rosselliana (come in “L’ammalato e il suo boia” dove però si respira un’aura amaramente ironica, tutta del nostro autore), a esiti più manifestamente da non-sense o gioco verbale a effetto, parzialmente affine a certa poesia di Zeichen (“Schermo”, “Caduta”, “Alzati” ad esempio). Anche in questo stile l’autore è convincente, sospeso fra “onirico e metafisico”, come fa notare giustamente Giuseppe Conte in quarta di copertina, suggerendo la lettura in particolare del testo “Treno siderale”, definito da Conte “quotidiano e cosmico” insieme.
Nell’insieme, riteniamo che il libro dia una buona prova delle doti poetiche dell’autore, confermate in numerosi testi e con esiti spesso convincenti. Il libro ha inoltre l’indiscusso merito di evitare la ripetitività, sia di temi sia di stili, mantenendo alta l’attenzione del lettore, non facendo venir mai meno l’elemento sorpresa, combinato a una certa freschezza e curiosa godibilità del linguaggio, come avviene anche per il testo di commiato “Miei figli”, poesia in prosa monologante in cui l’autore assomma molta della ricerca sulla parola evidente negli altri testi.
Fabrizio Bregoli
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