Nota di lettura di Marisa Cecchetti a Il materiale fragile di Alessandro Agostinelli (peQuod Editore, 2021)
Divisa in quattro sezioni, Mappe d’amore e d’impazienza, Nel ventre passato, Il materiale fragile, Bianco e nero, con nota critica di Salvatore Ritrovato, la silloge poetica di Alessandro Agostinelli, scrittore, poeta, giornalista e documentarista, è tutt’altro che “materiale fragile”.
Materiale fragile è la vita “gattoparda invece/attorno ai nostri brividi sommessi/ nel materiale fragile/ sulle nostre pelli di gallina”; vita che il tempo consuma inesorabilmente, che svanisce nelle mani: “siamo un mutuo della vita/ sua fugace presenza, poi nulla/ nulla per sempre”.
Il sole che “smonta” fa sentire addosso “l’osso del tempo”, infatti “pur vien solida e lucente/si tocca ma scolora, la nostra vita” e in questo nostro procedere stupito non resta che chiederci “Cosa è vero? Cosa è qui?”. Quasi fossimo dentro un sogno: “allora ricapitoliamo/ gente, si sogna”.
Sensazione di precarietà ancora maggiore, visto il momento che stiamo vivendo, ma anche conseguenza di esperienze che hanno rafforzato la sensazione di fugacità, tanto che diventa importante vivere intensamente il presente, senza proiettarsi oltre: “Tutto ciò che pensate sia/ a portata di mano/ e fuori dalle coordinate quotidiane/ tutto ciò che sovrasta il giorno è bugia/ e l’eccezione che pare di sentire[…] dura il tempo di un budino/ inchiodato al muro”.
Può consolare forse il pensiero che siamo anelli di una catena, che ci sostituiamo gli uni agli altri avanzando nel tempo, come si legge alla base dell’affresco di Masaccio in Santa Maria Novella a Firenze: “io fui già quel che voi sete/ e quel chi son voi ancor sarete”. Ma può anche aumentare il disagio fino a trasformarlo in panico.
La parola poetica rimane salvezza, è quella che fissa la vita, riporta equilibrio all’interno delle nostre paure, perché “siamo il lento schiocco/della frusta[… ]/ un prestito, la brezza sottile/ di un giorno felice”.
Ma la poesia di Agostinelli è una miniera, un pozzo senza fondo di sorprese, va ben oltre.
Toscano, legato alla concretezza, alla solidità, lontano dalla retorica, Agostinelli parla attraverso le cose, gli oggetti, i colori, le forme, quasi riportandoci al correlativo oggettivo montaliano. E li avvicina, li giustappone, manda avanti parole libere, quasi con voli pindarici, apre finestre, fa digressioni, poi ritorna sul primo enunciato, lo ripete più volte creando una melodia interna, momentaneamente distraendo, facendoci viaggiare dietro i suoi voli, tenendoci agganciati con una grande capacità affabulatoria.
Mi ricorda quando da bambina ascoltavo le fiabe del nonno, che percorreva una miriade di sentieri e poi riafferrava il capo, in un procedere ariostesco che avrei scoperto più tardi: “lo diceva josif brodskij/in una sua conferenza/che questa stanza, proprio questa/ -diceva lui- / non è sempre così, così/ come la vediamo noi:/ questa stanza è riempita/ per lo più di silenzio/nell’arco delle 24 ore [… ] / lo scriveva josif brodskij/ che ha vinto il nobel/ come tanti l’hanno vinto/ e tuttavia son più quelli/ che non l’hanno vinto, / e che comunque hanno scritto/ e suonato con le parole[… ]/ magie bicchieri favole/ e le altezze delle donne/ il loro sguardo/ di gioie freschezze/ giorni di festa/ e il mare di notte/ che è nero, perché/ è nero come il mare/ che mugghia e poi/ spuma bianco e/ resta nero e largo[… ] e lo scriveva josif brodskij/ per la mappa del nuovo/ mondo di derek/ che le civiltà sono qualcosa/ di finito/ e nella vita di ognuna/ viene il tempo in cui il centro/ non tiene più”.
È il poeta che si confronta con il nostro tempo, mette a nudo le deformazioni dell’umano sentire, la decadenza, la mancanza di pietà di fronte a chi bussa inutilmente alla porta di noi privilegiati dalla sorte – bussano i viandanti/si spezzano le nocche per entrare- , ma lo fa in modo che sembra giocoso, alla maniera ancora dei toscani, scherzando -un po’ il “Lasciatemi divertire” di Palazzeschi?- per sdrammatizzare denunciando. Lo fa infilando nei versi, come zeppe, citazioni di poeti, parole di canzoni. Per comprenderli tutti quanti dentro di sé, i poeti, i parolieri.
In realtà è evidente l’accusa: abbiamo i mezzi per salvarci -anzi avremmo- perché “conosciamo le strade/ e la luce di notte/ e sappiamo dove andare/ e abbiamo occhi per guardare/ altri occhi e mani per toccare/ e orecchie per sentire/ e bocche per dire/ e piedi per muoversi/ [… ]e statemi bene e buonanotte a me a voi, e a tutto il mondo/ di cui siamo cittadini/ e buonanotte suonatori…”
Se non è merito nostro nascere nel continente giusto, con il cognome giusto, qualcosa deve cambiare per arrivare a un nuovo umano equilibrio, è necessario tale cambiamento, bisogna “ribellarsi alla false bandiere”. Davanti alle tragedie umane, sempre più grandi, sempre più estese, in un tempo “sottile” in cui siamo “acciughe senza testa”, non si trovano più le parole, rimane solo il pianto: “non riesco a smettere di piangere”. Le ripetizioni battono come una cascata di lacrime.
Se la vita simbolicamente è viaggio, Agostinelli fa del viaggio un elemento fondante, quasi a inseguire “il totale svanente senso del mondo”, un viaggio fuori e dentro di sé, possibile, lui afferma, solo quando si sono viste cose, fuori e dentro di noi. Allora si può parlare della vita, e ogni aspetto della vita-viaggio può diventare racconto.
Un aereo che atterra su Pisa, navi che si toccano quasi con mano tanto sono vicine, “grandi come viaggi tutti interi”, rimangono simbolo del suo continuo desiderio di andare, e racchiudono anche un destino: “gli atlanti del mondo/ si aprono al centro del torace/ mentre comincia a soffiare il vento/ un’anima”. Del resto i luoghi “riempiono i nostri vuoti”.
Basta l’immaginazione per veder proiettato sul muro davanti a casa tutto l’atlante del mondo: “c’è un muro di fronte alla finestra/ della cucina di casa mia/ nel vicolo del porton rosso/ è su quel muro che leggo i continenti/ sento i refoli dei venti, nuvole/ le turchesi braccia dei tesori/ sventolare sulle terre del galoppo/ e vedo agitarsi oceani in tempesta”. Percorrere “le vene lunghe delle strade”, provare “il piacere della mobilità”, “passeggiare i cammini/ne rende meglio il lavoro” e si affina il pensiero.
Al di là di ogni accusa, pianto, timore, nonostante le ferite e la camiciola bagnata, comunque “resta giovanile/ ardore senza età/ il luogo della vita”. Resta lo “zolfanello scaltro” che accende il desiderio e “il tempo della lotta/ su, su dalla pianta dei piedi”. Resta un’anima innamorata della vita, pronta a cogliere la bellezza: “dove campeggia il cielo/ e la vita nel vento profuma come l’aria”.
Struggente il gesto d’amore, quello di mettere un cappotto sulla maglia di lei, sola sulla gruccia, perché soffia il vento: “c’è una tua maglia/ sola sulla gruccia,/ le ho messo addosso un cappotto/ perché oggi tira vento,/ le persiane sbattono/ le piume sopravvivono/ e qui è tutto silenzio”.
Il vento fa sventolare anche la tenda alla stazione di Santa Maria Novella: quella tenda, il treno, il colore del vento, il sole sul panneggio, il chiaroscuro, tutto quanto ha una bellezza così pulita e assoluta che fa desiderare di ”scioglier l’essere umano in quella tenda/diventare cosa e più niente intorno”.
Qui si racchiude un desiderio. Al di là di un fugace rimando al panismo di dannunziana memoria, c’è il bisogno di sollevarsi sopra al dolore e farsi “cosa”, per protezione. Sempre che le cose ne siano esenti, dal dolore.
Ma in questo modo si chiude anche il cerchio: in apertura “c’è un muro di fronte alla finestra/della cucina di casa mia/nel vicolo del porton rosso”, su cui si immagina il mondo; in chiusura una stazione ferroviaria e una tenda che si muove leggera nel vento, quasi a significare “una destinazione che si compie”.
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