Nota di lettura di Francesca Del Moro su Erranze e altri demoni / Driftings and Other Daemons, Caterina Davinio, Robin Edizioni 2018.

     

“La vita non è in alta definizione” avverte l’epigrafe che introduce la sezione delle immagini alla fine del volume. E, per quanto spesso ci illudiamo che possa essere così, non è nemmeno un percorso lineare, una serie di tappe da mettere insieme in vista di una qualche meta. Coincidente forse con il nostro essere compiuti, adeguati, risolti. Non è questo il viaggio che Caterina Davinio ci racconta nel suo libro: lei non cerca una possibile compiutezza ma si muove sospinta da “intenzioni, presagi, infinite storie, disperazioni, brame”. Ama mescolarsi ai perdenti, ai naufraghi, alle anime smarrite, vagare nei quartieri bassi dove si respira una dimensione più umana.
Impossibile delineare una traiettoria tra i salti geografici ed esistenziali che si susseguono prima nei versi e successivamente nelle fotografie. Prendendo in prestito le parole dalla poesia “Afghanistan 1970 (A un viaggiatore)”, si potrebbe dire che il viaggio, al contempo fisico e interiore, proceda attraverso “disegni così illimitati, deformi, infinite deviate vie”. Oppure in una sequenza casuale di ‘erranze’, come recita il titolo, termine che se qui va interpretato nel significato di “vagabondaggio, andirivieni” nondimeno chiama in causa il concetto di ‘errore’, antica accezione che si conserva nel suono. Non a caso ‘errore’ è uno dei vocaboli più frequenti nei versi, che attingono omogeneità proprio dalla ricorsività tematica e lessicale (“errore errante di natura”; “un cuore (non più fanciullo) / denso di errori / ma tenero di musica”; “notte frastornata di errori”). Nella versione inglese (il libro è bilingue) la parola ‘erranze’ è stata tradotta con ‘driftings’, evocando l’idea di “andare alla deriva”, ovvero un movimento passivo, un senso di abbandono, di resa. Una scelta da cui si evince che non solo il viaggio della vita non è lineare ma non è nemmeno – o almeno non del tutto – determinato dalla nostra volontà.
Altra parola chiave, tra i ricorrenti verbi di movimento, è ‘cadere’, che alla passività unisce il senso di pericolo, ha in sé i germi della fine: “Cadere all’infinito” era il titolo scelto originariamente per l’intera raccolta e l’espressione viene mantenuta nei versi di una poesia della sezione “Narcotika”, dove ci si lascia andare all’interno di una casa, tra materassi nudi, bottiglie vuote e aghi infilati a turno in una cucina sporca. Ma si cade anche a New York “tra le case come un pezzo di carta / danza nell’aria, volteggia da un grattacielo” e soprattutto a Bangkok, precipitando senza mai toccare il fondo. Si cade in ginocchio davanti all’Himalaya “tetto del mondo” e travolti dai ritmi tribali nella giungla, sopraffatti dal dio della danza. Anche le “povere parole piangono” cadendo e Caterina in questo libro non nasconde le sue cadute, gli smarrimenti e i ‘demoni’, altra parola cruciale introdotta fin dal titolo e anch’essa ambivalente.
Nel suo significato positivo, il demone rappresenta l’elemento di intermediazione tra il mondo dell’esperienza sensibile e il divino e dona intense passioni e facoltà soprannaturali, mentre nell’accezione negativa è sinonimo di demonio, entità malefica per eccellenza. I demoni sono per l’autrice soprattutto le sostanze stupefacenti, che si affacciano a più riprese nei versi e ispirano in particolare la penultima sezione dal titolo esplicito di “Narcotika”. Un po’ angeli e un po’ demoni, che in fondo sono la stessa cosa, gli stupefacenti mettono in moto il vagabondare, innescano esperienze, amplificano sensazioni. L’oppio fratello, la pipa di felicità possono creare un “artificiale paradiso” come quello di cui si parla nella prima poesia della quale una variante ritorna circolarmente in chiusura: una rinascita scandita dalla musica, spalancata ad accogliere tutte le storie e i mondi che verranno. Tra New York e il Lungotevere, la poeta delinea un secondo viaggio nel viaggio: i percorsi alla ricerca della droga, degli spacciatori amici, tra il ticchettare dei tacchi sulla pietra e il trascinare con la gamba fiacca l’anima sciancata. Chiama le cose col loro nome: fa sentire gli aghi che affondano nelle vene, mostra il cucchiaio e la siringa. Accogliela dose quotidiana che salva dalla morte quotidiana. Si leggono qui i versi più duri, in cui l’autrice si mette spietatamente a nudo senza compiacimento ma anche senza rinnegarsi.
Un altro demone è l’amore, celebrato come concrezione cosmica di passione, mancanza, umiliazione e desiderio nell’inno in più tempi “Sequenza d’amore numerata” che ancora una volta sembra raccontare una storia ma rifugge ogni logica linearità. Con un “cuore orante, palpitante”, la poeta va incontro all’altro e alla vita, aperta e disponibile a sentire sempre tutto fino in fondo, accettando le conseguenze e scegliendo di raccontarsi, attraverso l’arte, senza alcun infingimento, senza quel distacco che oggi è spesso lodato ma che rischia di raffreddare e opacizzare la scrittura.
Caterina vaga tra Oriente e Occidente, superandone l’apparente contrapposizione. Li vive entrambi in un abbraccio mistico, riconoscendovi una dimensione spirituale che se a Bangkok si esprime attraverso le preghiere buddhiste a New York si declina in una “incerta religione positiva / fatta di ruote, tracciati di metrò / alta finanza” e nelle “cattedrali di cemento dagli spigoli levigati e lucenti”. San Francisco è un angelo di nebbia che avvolge e fa perdere consistenza, mentre Las Vegas, “America di cartapesta”, “Luna Park dell’esistenza”, le strappa un grido d’odio ma offrendole gioie fugaci la costringe a perdersi nella sua luce abbagliante.
“Cavalcando una tigre” o come “uccello migratore smarrito” la poeta si sposta in India, pianta tende nella giungla, torna in California e si smarrisce nella contemplazione del bianco sull’Himalaya. E ancora, la ritroviamo in Nepal, nel Laos, a Monaco di Baviera, a Piazza Navona… mentre i versi ci trascinano con il loro ritmo incalzante, avvolgente, spesso salmodiante, invitandoci a non fermarci, a “mordere” (altro verbo ricorrente) la vita, a gettarci (cadere) in essa con passione e fiducia, accogliendo ogni nuovo luogo per farne spazio interiore, allargamento dei sensi. Ogni luogo è diverso e diverse sono le persone che lo abitano, diversi gli spettacoli della natura e le intenzioni dell’architettura e lo sguardo dell’autrice rotea instancabilmente, avidamente, per cogliere tutto e restituire tutto nei versi. E tra le folle multicolori che si avvicendano di città in città, affiorano anche i nomi cari: per primo Silvio, il fratello perduto, poi Claudio, l’amore, il figlio Riccardo e la gatta Miki. La famiglia alla quale si aggiunge, più volte evocata, la madre, che non viene chiamata per nome ma a cui si dedica il libro, precisando “che non approverebbe”. E, accanto a loro, personaggi anonimi che più di altri hanno attirato l’attenzione dell’autrice, messo in moto i suoi pensieri: una cassiera del discount, una bambina yemenita, un senzatetto ma anche un gorilla dall’aspetto fraterno. Incontri che si moltiplicano nei numerosi ritratti della sezione fotografica.
In parole e immagini, il libro procede come un lungo canto, come la vorticante danza di un derviscio rotante. Ovunque la scrittura trasuda un’intensa spiritualità, complici la luce onnipresente e i numerosi riferimenti alla preghiera e alle religioni, variegate manifestazioni di un unico anelito: “Siamo poveri come Gesù / e ardenti come Shiva / aerei come Buddha” fino alla sfida lanciata a Dio, con la promessa di riscattare la propria finitudine e irrilevanza con il linguaggio e, in definitiva, con la propria opera poetica.