Nei giorni per versi di Anna Maria Curci, Arcipelago Itaca Edizioni, 2019, una lettura di Luigi Paraboschi.

     

Confesso la mia allergia alla lettura delle prefazioni  dei libri di poesia, perché molto spesso si esauriscono in un esercizio di enfasi osannante all’autore  che però non porta un grande aiuto al lettore in quanto il linguaggio adottato dagli estensori è  di frequente  autoreferenziale  e si ammanta di un certo compiacimento non per la bravura del poeta presentato, ma per la propria, piccola o grande che sia, cultura.
Invece in questo caso devo riconoscere a Patrizia Sardisco una intelligente a accurata lettura dalla quale stralcio quese due riflessioni che mi hanno orientato  durante il percorso, una è questa:
“tutto è frutto di un paziente lavoro di bulino perchè il verso si faccia più prossimo al vero“

e che tutto sia sviluppato
“senza piangistei stucchevoli, facili sentimentalismi e sterili ripiegamenti di tipo diaristico“.

Non deve essere stato davvero facile per la Curci scrivere 173 quartine di endecasillabi che raccolgono cinque anni della sua produzione;  ciò  deve aver richiesto un lavoro di attenzione, pazienza, cura, capacità selettiva degli avvenimenti, abilità di sintesi proprio per evitare i “facili sentimentalismi” e i “ripiegamenti di tipo diaristico“ cui accenna la Sardisco.

Scrivere poesie per molti è semplicemente auscultare i propri umori, le proprie sofferenze o pseudo tali, e poi cercare di dare loro una forma, andando a capo, e ritenendo di avere compilato qualcosa che si possa chiamare con il nome di “versi liberi”, ma stendere otto endecasillabi e farlo per ben 173 occasioni,  tenendo ben presente dentro di sé cosa si vuol dire, a quali avvenimenti si faccia ricorso, è un’impresa non dico epica, ma sicuramente pregevole, specie se si tiene conto della totalità di impegni letterari e lavorativi attorno ai quali è costruita la vita dell’autrice.

Per fare un’analisi testuale dell’intero lavoro occorre costruirsi dei capoversi attraverso i quali ricondurre i vari pezzi legati da un tema comune.

Io credo di averne individuati tre di questi temi  che fungono da agglutinante tra di loro e attorno ai quali vorrei spendere qualche considerazione.

Il tema che fa da perno conduttore agli altri è quello che io chiamo: LA COERENZA
al quale la conseguenza logica è I RICORDI AMARI che inevitabilmente conducono al terzo tema che è chiamerei  LA DISILLUSIONE.

    

La coerenza  è il prezzo che l’autrice ha pagato e paga ancora per ogni scelta che ha compiuto e compie, infatti nella n.XXIV scrive:
“Non ho mai fatto il cambio di stagione./ Libri sghembi e vestigia ammonticchiate/ sono compagni d’ore e d’omissioni/ schedari e fusciacche d’altre sfilate“

Di questi tempi di voltagabbana politico-sociali ai quali siamo sottoposti quasi quotidianamente, il rivendicare l’orgoglio di essersi affidata alla lettura di libri e alle tracce da essi “ammonticchiate”, e di aver rinunciato a sfilarle sotto bandiere differenti dal proprio credo, è impresa non facile, e infatti nella poesia n.XXXVI leggiamo ancora:
“Abbiamo ripiegato le bandiere,/ i teli funebri e le sporte a rete./ Chi si rimira compiaciuto e sazio-/ scansa con sufficienza gli irrequieti”

da cui capiamo l’atteggiamento di ripiegamento nel passato (le sporte a rete che facevano parte del guardaroba necessario negli anni ‘50 -’60 per chi si recava a fare spesa),  e che  rifiuta di essere  parte dei parvenu il cui sguardo è pieno di superbia e snobismo intellettuale.

E aggiunge in quella n.XXXIX  ironizzando con malinconia sulla propria intransigenza morale
“dalla filosofia del “resta fermo“/ confesso, potrei essere tentata./ Con l’aria brilla e gli anelli di fumo/ aspirerei autocompiacimento”

come pure nella n.XLV  leggiamo lo sconforto di chi in mezzo alla marea di folla che spesso assume le vesti di musa ispirata dalla letteratura senza  possederne i mezzi culturali, e  a costoro lei oppone la preparazione che deriva dalla pazienza nello studio e confesso di avere provato un senso di empatia affettuoso leggendo e rileggendo l’ultimo verso
“le lupe travestite da vestali/ schiamazzano l’amore per la musa./ Opponi studio e pazienza, tu/ lisa palandrana da troppi rivoltata“

La coerenza della studiosa, della traduttrice paziente, della scrittrice che si accosta con umiltà ai testi che deve giudicare, esce in modo perfettamente descritto da questa n.CLXVI, ove tocchiamo con mano la verità su quanto spesso “i blasonati” della cultura ufficiale mascherino dietro vuote parole la loro insufficienza culturale di fondo di fronte alla povera ciabattina che riconosce i Maestri ma non i tromboni
“Tu resta, ciabattina, al tuo deschetto/ (a pallettoni spara il blasonato),/ io resto, canto rido e poi risuolo. Maestri, non tromboni, riconosco“ 

     

Inevitabilmente la coerenza conduce alle disillusioni, quelli del secondo gruppo che esordiscono con la n.XXV  nella quale rileviamo l’amarezza di chi, dovendo insegnare come professione, è frastornata da circolari, riunioni, parole vuote alle quali non fanno mai seguito i fatti, le riforme necessarie, e si rifugia nella compiaciuta pienezza della parole che hanno significato, le pagine scordate:
“Sorrido a quei proclami ripetuti,/ le pellicole e romanzi delle cime,/ la vetta genuina di riforme. Ancora sto tra pagine scordate.“

Sopraggiunge talvolta lo scoramento e la riflessione attorno alla caducità delle cose terrene nella n.XLVI:
“Quando salirai il corso dei nomi/ (è la lama di dentro che ti spinge)/ in faccia al marmo e ai fiori rinsecchiti/ saprai che la tua casa non è il mondo./

Anche il contatto con coloro che forse un tempo sono stati compagni di viaggio e di ideali, si risolve nella proposta, oserei dire la garanzia, che l’abbandono delle baldanze e delle pie intenzioni può procurare quel disincanto necessario ad osservare con distacco i sogni del passato:
E’ la n.LVII:
“Il compagno segreto rigattiere/ mi invita a sgomberare il ripostiglio/ dalle baldanze e dalle pie intenzioni./ In cambio mi assicura il disincanto”

E di questi tempi è talmente grande la confusione sotto il cielo (come avrebbe detto il  “grande timoniere Mao Tze Tung”) che tutto finisce per essere mescolato e involgarito al punto che non si riesce più a distinguere ove sia in grano e la zizzania (come ha detto un altro Personaggio). Trascrivo qui la n.XCVI
“L’erba è cresciuta sopra gli ideali/ (va a  separare, adesso, la sterpaglia./ Non sai se è soffocata o rigogliosa,/ se è sovversivo o prono il fiore giallo”

Concludo questo breve excursus nella gamma delle disillusioni con la n.CXII che dice:
“non sono un’isola, nemmeno una boa,/ solo un turacciolo usato e disperso/ gettato a caso ad assorbire sabbia/ che si rotola goffo in cerca d’acqua“

     

perché mi sembra che possa fungere bene da apertura per la serie che ho definito  i Ricordi amari  che desidero introdurre con il ricordo di un amico (Pino), un musicista che l’autrice descrive  associandolo ad una fredda mattina di gennaio nella n.XXVI:
“Triste nella mattina di gennaio/ è una coperta consumata ai bordi/ sono i ricordi, allora, a rimboccare/ belle stagioni al ritmo del tuo blues” 

Anche in questa, la n.L, l’evocazione di poche mattine forse adolescenziali è vista con profonda nostalgia:
“A fine luglio, nei giorno di pioggia/ giocavamo a Monopoli o a  Carriere./ Meteo e tempo  ci erano propizi./ Mai più sarebbe stato come allora.”

Non manca l’accenno ai voltagabbana, a coloro che sono passati dall’essere sempre e comunque “i bastiancontrari” per tramutarsi in muti coristi inquadrati e addolciti, e lo leggiamo nella n.LXXIII
“Per note voci inquadrate e ammansite/ sento che furoreggia l’entusiasmo./ Cantavano una volta a gola piena./ Non è più il tempo del bastian contrario”

Il passato con tutto il peso dei ricordi di lotte politiche, sociali, di giustizia sembra non abbandonare la memoria  della Curci che in questa si figura come Penelope che tesseva e poi disfaceva la tela in attesa del ritorno del consorte.
L’amarezza qui cede il posto al sarcasmo amaro nell’ultimo verso  della n.CXVIII in cui leggiamo:
 “come per quella tela celebrata/ agucchio nella testa la pariglia./ Poi disfo, e non per proci o per ritorni. A me viene da ridere, compagni.” 

Il  disco di un gruppo famoso degli anni 70, i “Procul Harum” fa tornare alla luce il ricordo  per qualcuno che allora  era giovane,  ed il cui rimpianto è diventato amaro, e mai dimenticato, lo si legge nella n.CXXV:
“Che ne sapevi tu del Procul Harum,/ quando lasciavi andare “Senza luce”/ sul piccolo vinile a squardciagola?/ Canto da allora e forse tu mi senti”

E chiudo il  percorso attraverso questa raccolta così intensa per chi, come chi scrive anche se in anni diversi, ha vissuto alcune delle esperienze della Curci, soffermandoci sul ricordo un una tragedia che nel 1978 ha segnato e condiziona tuttora  la storia del nostro paese. La poesia ha il n.CXLVIII e  dice:
“Ci avvisarono in classe, era il liceo:/ Scorta spezzata in via Fani, il sequestro./ Tutto è finito, si affacciò il pensiero./ Fu allora che la notte invase il giorno”

Mi soffermo un istante su quel “tutto finito” che sottolinea come la fiducia che allora una buona parte del Paese riponeva nella speranza dell’apertura politica dell’on.Moro sia stata distrutta, lasciando aperto almeno un decennio al terrorismo ed alle scelte politiche conseguenti, che Curci evidenzia con maestria in quell’ultimo verso.

     

Concludendo questo breve viaggio nei ricordi di Anna Maria Curci, so di avere omesso tante altre poesie altrettanto degne di essere scelte, ma confesso di sentirmi gratificato dalla postfazione dell’autrice quando si augura con questo suo lavoro di ritrovare un’affinità riconosciuta con  le “anime messe a maggese” alle quali, lei scrive, ci lega una cura per “le pagine scordate”, e devo  ammettere  che alla mia età sono tante queste pagine.

        

23-25 luglio 2020
lettura di Luigi Paraboschi