La materia non esiste di Marco Colletti (Ed. La vita felice, Milano 2024). Nota di lettura di Carlo Di Legge
La poesia di Marco Colletti è poesia di immagini, in questo caso voluta e molto consapevole: le immagini si vedono e vengono mostrate, anche in parola – “Ho costruito questa gabbia dorata/di parole perché tutti possiate/vederle, prima di ascoltarle” (120). È la poesia di un uomo innamorato delle immagini (è il suo mestiere) che “Fantasmi sono”, dopotutto, ma che “regalano/sogni e voli della mente, l’unica/salvezza che vedo oltre le nubi…” (113). Se ben immaginiamo, se ci riusciamo, allora “il Paradiso è qui” (128).
Il carattere della parola-immagine è sensus, non solo o non tanto come sensibilità, e nemmeno come intenzione (ovvero quel che definisco il senso delle parole), a me pare, quanto come sensualità e musicalità suggerite dall’andamento e dagli usi linguistici evidenti in certe composizioni, alcune in particolare: l’universo sarà certo orrido abisso buio, ma posso immaginarlo come vivificato d’immagini che danzano – “… nelle mie pupille,/i valzer di galassie e le loro/musiche celesti” (ivi). La danza del caos è essa stessa antica e contemporanea immagine data dalle mitologie induiste e dalla fisica contemporanea, come sappiamo.
Per quanto reali(stiche) le immagini che usa l’autore sono anche dorate, tentativi di provvisorio approdo.
Può darsi che le illusioni siano necessarie a vivere, come sta nell’ antico messaggio della poesia. Provvede a questo l’immaginazione, come leggo al quartultimo verso (113), versi che credo siano chiave di questa sua poetica: le immagini sono come le nuvole; l’immaginazione ha una realtà, come diciamo, solo immaginaria.
Parafrasando un celebre filosofo, immaginare o pensare del denaro non vuol dire averlo. In questo caso, inoltre, il richiamo alla realtà va assieme al rammentare che non solo le stelle immaginate e rappresentate come calde e lucenti – aggiungo, come quelle di Van Gogh – ma quelle stesse viste nella notte sono in realtà “molte già morte” e ancora, nella stessa pagina, “morte sfere” che tuttavia, causa le leggi della luce, continuano a raggiungerci con suggestiva, intatta brillantezza.
Qui c’è già tutto: la presenza costante dell’avvertimento della morte, la necessità di trovare una ratio vivendi e, quindi, di far fronte a ciò in cui in effetti ci si trova. La presenza dell’assenza, in questo caso in un senso singolare, come presenza del nulla nel vorticoso presentarsi (in ogni componimento, senza respiro) delle colorate, brillanti, risonanti immagini.
Presenza del nulla, la morte, in particolare l’assenza di chi è caro: “chi fu tutto e poi nessuno” (63, esergo alla seconda sezione). Onnipresenza del nulla, in questo libro acqua filtrante per ogni dove, dunque anche nulla della presenza: “Tutto svanì ed io soffuso,/nella vita che diventò esistenza/e poi nulla e il vuoto”; e del dolore – “Ora c’è/cenere intorno ai miei occhi/e lacrime antiche…” (65).
Ciò non impedisce l’amore per la vita, il canto e l’estasi:
Ti penso come un groviglio
di diamanti, estesa lungo l’avido
terracqueo. Sortilegio di profani,
muto scoglio in appassito, colta
nell’ora della mezzaluna nera.
Diaccio angelo rovente (69).
Le parole in poesia si trasfigurano in musica, come è anche detto nella citazione da Ungaretti (129): musica sensuale, “A me le parole/piu’ care che intonano versi/di puro suono” (89):“Canterò per incantare chi non/ha voglia di ascoltare”, in sensibilità/sensualità avvertirò
Presagi arcani, tristi emozioni
e primigenie creature abitare
nel mio corpo, sotto i peli, sotto
la mia pelle, e vedere il sangue
che scorre pieno di storia, pieno
di uomini. Poi … si è levato un grido di piacere (65).
Rivolta a un tu e a un noi, tutta la seconda sezione è tessuta di forti liriche:
La tua carne boschiva si fa muschio
sui miei pensieri. Mi prendi, mi vesti
d’amore, il tuo fiore punto dalla mia mano
smarrita. Vederti sospirare, mi trapassi
nel cuore. Ecco, siamo dentro un’ombra
di silenzio. Ti tocco. Ti amo (77).
Male d’amore e insieme male di vivere, nell’universo in realtà buio.
Ma anche cor, la seconda parte del libro, si conclude con il verso “noi non abbiamo mai vissuto” (86).
Nessuna sensualità d’immagine e di canto, nessun amore può cancellare l’altra fosca immaginazione che in molte guise mi raffigura l’irrappresentabile.
Immagine del buio, terrificante universo, il mare: “Il mare è un concetto che la mente/umana può solo sfiorare” (109, cfr. anche 127).
La prima sezione, intitolata Mens, è premessa alle altre, come il titolo stesso, la materia non esiste, a dire che se lascio spazio a un senso fisico-realistico e mentale di realtà tutto è materia e, al tempo stesso, non lo è, dipende dalla scala in base a cui considero le cose o meglio i fenomeni: è la scala che fa il fenomeno e tanto la materia quanto il tempo posso insieme crederli (mi serve per vivere, appunto) quanto pensarli illusori, e in entrambi i casi penso con verità.
Ma tutta la prima parte, come e forse più di ogni altra, insieme alla rappresentazione della materia mostra l’apparire – se mi si consente il piccolo paradosso – dell’inapparente ma presente niente: fin dall’apertura, che è come mettere la carte in tavola – “Tutto sento che è inspiegabilmente/compresente, nell’ogni istante/… È il nulla che avanza?” (19), “quel mare che…osserviamo,/ma che non attraversiamo” (20).
Concludere parlando dell’inizio del libro come dire incominciando dalla conclusione può essere uguale perché il conto torna. Credo che nel leggere questo generoso libro di poesia ci si trovi di fronte a una forma estrema, acuta della sensibilità, è come si dicesse: ci sono lenimenti possibili, ma il male è radicale:
Nel mio recinto di colori vado
spendendo le trenta monete
della vita. Quanto costa quel
tradimento da pagare
per sopravvivere …” (62).
Il senso del tradimento, qui, ognuno lo interpreti come sente. Nel recinto dei colori in cui si sta non senza guardare oltre i limiti, il divertissement sarebbe assicurato, se non si avvertisse con tale evidenza l’inutilità di tutto – dagli interessi di lavoro all’impegno etico-civile. Di ciò, con delicatezza, ci si scusa: ma subito si provoca un po’ –
Vi chiedo perdono di scrivere il buio.
Ma perché, voi avete la luce? (25).
Come avviene per certi libri, la domanda pone il lettore di fronte a se stesso, ed è già essa stessa una bella risposta a chi dice che la poesia è inutile, o che è un divertissement.
Marco Colletti vive e lavora a Roma. Laureatosi in Lettere all’Università degli Studi di Roma La Sapienza con la tesi ‘L’immaginario affettivo nelle Familiares del Petrarca’, Relatore Prof. A. Asor Rosa, si occupa da sempre di poesia, critica letteraria con approccio ermeneutico-antropologico e arte contemporanea in qualità di curatore e artista digitale: le sue opere digitali sono poesie visive e le sue poesie visioni. Organizza eventi e convegni letterari ed è redattore della rivista letteraria Formafluens International Literary Magazine. Suoi contributi critici sono presenti anche nelle riviste Laboratori Poesia e Il Mangiaparole. Nel 2024 è uscita la sua raccolta di poesie La Materia non esiste, ed. La Vita Felice. È art director e illustratore per aziende e case editrici internazionali nel settore dell’illustrazione per l’infanzia.
15/08/2024 alle 22:49
La Poesia è una scommessa, ma anche un fenomeno di serendipità per cui si cerca una commessa e si scopre una… contessa. Due son le cose, come insegna l’esperienza di Rimbaud: o si va oltre i limiti e si può scoprire una “Terra Australis incognita” ed è sempre entusiasmante andare “in fondo all’ignoto per scoprire il nuovo” (Baudelaire) oppure si rischia la bernoccolite acuta come quella di don Chisciotte. Questa è curabile con una buona ginnastica mentale, qualora ci si accorgesse che sconfini nell’alienazione. Tuttavia si può continuare nella convinzione che Ordine e Caos siano autofertilizzanti fino a quando l’entropia non consentirà più scambi di energia. Adelante, con juicio, hasta la victoria!
16/08/2024 alle 07:50
I dubbi sono qualcosa di sano, da cui spesso prende piede un’evoluzione: mi riferisco ai dubbi suscitatimi dalla disamina sulla bernoccolite di Don Chisciotte / Quixote; mi viene in mente l’analogia con Don Juan maestro d’amore (film con J. Depp e M. Brando) dove sostanzialmente si conclude che l’adattarsi a una societa` arida e oscura e` un gioco di cui si imparano quasi sempre le regole, talvolta con fatica, mentre la finzione, sconfinante appunto nell’alienazione del delirio, e` la realta` che vale la pena di vivere e che ci regala poesia. Grazie del dubbio.