Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo (Mondadori, 2024). Recensione di Enza Longo
Carlo Rovelli in “L’ordine del tempo” ci spiega in modo essenziale (è un libro scritto per il vasto pubblico) che nelle elementari leggi della fisica il passaggio tra passato e futuro non esiste. Difficile addentrarsi in tali argomenti se non si è esperti, ma di certo una simile considerazione ci appare sconvolgente dal momento che il tempo lo percepiamo, lo sentiamo e lo vediamo attraverso le lancette dell’orologio (anche se lo stesso fisico ci fa notare che non esiste un solo tempo e tanti orologi segnerebbero momenti diversi). Tuttavia Rovelli definisce la poesia come “radice profonda della scienza” poiché può vedere “al di là dell’invisibile”[1]. Marco Pelliccioli nella sua raccolta “Nel concerto del tempo”, edita da Mondadori nel febbraio 2024, a partire proprio da elementi sensibili ci mostra ciò che è intangibile. Si tratta di una composizione, un concerto appunto, in cui “suonano” vari soggetti mentre la linea melodica del tempo prosegue imperterrita trascinando con sé ciò che incontra. Si possono, infatti, quasi individuare due modi di percepire il tempo che procedono parallelamente: da una parte il concetto aristotelico di cambiamento (“il tempo è il nostro modo per localizzarci rispetto al cambiare delle cose”), dall’altra la concezione newtoniana di un tempo assoluto che scorre a prescindere dal resto[2]. I vari testi di Pelliccioli sono attraversati dal tempo relativo delle stagioni, e quindi della natura, dei singoli soggetti, dell’io poetico, della contemporaneità che invade un mondo genuino, tempi che a volte appaiono più lenti, altre volte rapidi o scanditi; e vi è, poi, la durata assoluta, vera, che procede imperturbabile. Come in quello musicale anche nel concerto del tempo i vari elementi si intrecciano e si snodano per poi avanzare verso una fine che non è mai uguale all’inizio, anche se vi è un ritorno ad uno stato di cose precedenti (“E poi cosa resta”). Più rughe segnano i volti e le mani, più crepe solcano le pareti e più piatti si accumulano nel lavandino come gli oggetti in cantina fin quando arriva il momento di mutare, eliminare, traslocare, ma non è detto che il mutamento sia positivo: è eliminazione eccessiva, irruenta, di individualità. Così il poeta, il cui io è più quello di osservatore che protagonista, ci descrive un mondo mutato, il nostro, in cui l’effimero passato della fisica viene soppresso da una gru che ci trasforma da Angiolina, dallo storpio o da Alberto in Martina e in api che vivono nel loro alveare nell’attesa della pausa caffè. C’è una speranza quando si chiede se forse “un giorno sboccerà/ancora una bottega, un fioraio/ come all’angolo di via Pietro Maroncelli”, ma la risposta è intrinseca.
Nonostante la consapevolezza di questo inevitabile scorrere e non ritorno, quello di Pelliccioli è il tentativo, attraverso “un viaggio, un sogno, una visione”[3], di ricucire il passato e salvarlo, sforzo che ricorda nell’azione quello di Antonella Anedda in Salva con il nome. L’io è presente come osservatore e ricercatore di ombre e di oggetti, posizione annunciata in una delle prose in corsivo legate da un filo narrativo che attraversa tutta la raccolta (“restavo io, in controfigura assente, a proferire accadimenti”). Questo stuntman ricompare, poi, alla fine creando una circolarità: “la controfigura scompare/nei granelli del secchiello”, quei granelli “di un muro ormai in frantumi”. In prima persona nel primo testo della raccolta e in terza nell’ultimo, il sostituto si delinea come un io precedente o una parte dell’io ormai perduta che non si può più ricostruire.
Una parola chiave è confini. Fin dalla prima poesia le frontiere di un’area geografica, ma anche della storia, sono annullate da un muro caduto, quello di Berlino, che comporta una perdita di confini nel privato. Anche nella poesia successiva (“lontano ma vicino”) i limiti geografici tra due avvenimenti lontani sono dissolti, in questo caso in una raffinata contrapposizione di morte-vita a ricordare come nello stesso momento in un presente, secondo Rovelli inesistente, c’è chi piange e c’è chi ride. La poesia di Pelliccioli è contrassegnata da una mescolanza tra sfera privata e pubblica: la storia entra nella piccola quotidianità e la mette in crisi; dunque, come si è detto, le delimitazioni tra storia e ambiente familiare appaiono sfocate come tra realtà ed immaginario. Nella sezione 1950-1970, difatti, si parte da elementi descrittivi reali, ma lo scenario, alcuni gesti e elementi si inseriscono in una dimensione immaginaria da sogno o fiaba (creature al neon o ancora Alcune gocce scesero dal cielo./ Ne riposi una nella mia piccola valigia). Marco Pelliccioli scrive anche racconti per bambini e il diverso registro penetra in molte sezioni della raccolta come in Una vita semplice le cui poesie ricordano la forma della filastrocca, ma in prosa. Ricorrono termini che rimandano alla stregoneria (“sortilegi”) con riferimenti anche al mito come quello di Orfeo nell’immagine di Piera. Lo stesso poeta prova a superare i confini (“inciampavo come in un Atlante e mi ritrovai lì con loro”) usando una visione che richiama la poesia di Maurizio Cucchi: “Spostavo lento il dito sulla mappa,/ […] Così, mentre ero al tavolo, la carta/si ingigantiva, a tratto, /a dismisura e diventava terra, diventava/un intrico di terra, boscaglia e di palude/che quasi mi inghiottiva nel suo verde/ e ocra”[4]. Questo superamento delle estremità si rispecchia anche nella forma: la cifra di Pelliccioli sta nella frequenza di un ritmo spezzato da enjambement che dividono nome e aggettivo.
È un linguaggio semplice e vario quello usato dal poeta, con riferimenti classici (Ilio, Nettuno), ma che muta nel momento in cui si parla di contemporaneità con parole che appartengono ad una nuova lingua e per questo precarie, anglicismi inseriti tra virgolette quasi a sottolinearne l’estraneità della poesia e del poeta. E si passa da versi onirici a elenchi come nella sezione Blister, quasi una narrazione di un fatto di cronaca, ma di un morto che riappare (“i vivi mai morti. I morti non più” scrive altrove riprendendo un tema frequente nella poesia contemporanea come in Versi del malanimo di Mario Santagostini). Sono sempre richiami ad un passato nel presente, oggetti, figure che si ripropongono anche dopo essere morti. Sorprende, dunque, la capacità di transitare da una situazione all’altra, di essere a tratti profondo e commovente, come nella poesia Lo storpio, e a tratti più descrittivo. La molteplicità di stili e forme contraddistingue, infatti, questa raccolta: prose, prosimetri, terzine sempre con grande attenzione alla musicalità del verso, non melodica, ma assiduamente spezzata da cesure ed enjambement, scelte sonore mai banali. Alla musica si associa l’immagine con i rimandi impliciti alla pittura: molti gli scorci impressionistici di scenari naturali e non solo (“Bolle di intonaco s’irradiano/sulla parete gialle/potrebbero essere due cani”)[5]; ricorrono ritratti di soggetti descritti nei dettagli come in Istantanee (nell’ultimo testo domina il lato più sonoro che visivo). Pittorici sono anche gli accumuli di oggetti e di immagini che ricordano anche in questo tratto la poesia di Maurizio Cucchi, in particolar modo l’ultima raccolta Sindrome del distacco e della tregua in cui il poeta va alla ricerca di arnesi di una realtà rurale in cui le cose preservano un valore d’uso e una storia umana. In Pelliccioli gli oggetti vengono umanizzati come “le spugne che bivaccano” [6] o “il clacson che accende la giornata”. Le cose vivono e animano gli spazi rivelandosi all’ombra e non alla luce: in Ritagli e variazioni un fievole chiarore entra dalla finestra svelando dei particolari e deformandone altri. Ricorrente, difatti, è la parola ombra che richiama la pittura in quanto ne è matrice. Come ci ricorda Victor I. Stoichita nel testo Breve storia dell’ombra[7], la pittura e la scultura nacquero dai contorni ombrosi. L’io lirico va alla ricerca del passato in oggetti, ricordi, storie e ombre che ci chiamano come quella di Alberto[8], invocazioni non estranee alla poesia. Sono sagome che risorgono o che si vogliono far risorgere (“Che l’Angiolina potesse risorgere da qui?”)[9], soggetti che sembrano riapparire come in 2000, un defunto, ma vivo, un incontro non con la morte, ma con l’accettazione della fine.
Sono “ombre anonime disperse lì nello sterrato/umili destini grattati/via dal tempo, sintesi imperfette/di quello che siamo”[10], scrive Pelliccioli reiterando il termine nel testo successivo (“il muschio, nell’ombra, /cresce più dei fiori”). Seppur richiamando sensi differenti le due poesie restituiscono un unico significato: si tratta di orme di soggetti umili, “anonimi”, come il muschio, rappresentanti di un comune destino perché è nell’ombra e in ciò che sta nello spazio ombroso la vera rappresentazione delle cose, la chiarezza. In fondo non ci è ammesso conoscere la vera essenza e forse è nelle tenebre che la realtà si palesa o si rovescia. Che azione ha la luce su di noi come sulle cose della natura o sui sassi? Provoca una scissione nelle piante[11], acceca con i fari[12]. Nella notte, nello spazio onirico, le prospettive, invece, possono invertirsi ed è la natura a prendere il sopravvento. Tuttavia il “viandante perse lotta contro cani” e “trovarono brandelli di mammut”, forse di colui, umano o animale, che è l’ultimo destinato ad estinguersi pur avendo tentato di lottare. È una risposta dolorosa alla speranza enunciata in precedenza (“o se un giorno sboccerà/ancora una bottega, un fioraio/come all’angolo di via Pietro Maroncelli”[13]). Nelle sezioni oniriche ricorrono termini che rimandano al sacro e al rito (messa, colomba) in un’assenza di maiuscole quasi a riprodurre un flusso di coscienza tipico del sogno.
Fin dalle prime poesie Pelliccioli convoca personaggi del passato che appaiono familiari i cui legami si rivelano all’interno della raccolta pur restando in qualche modo velati. Si tratta di un’umanità che vive in maniera genuina a cui si contrappone la massa indistinta della Milano caotica e moderna, non identificabile con individui, ma api frenetiche. Protagonisti diventano il treno, la gru addetta alla trasformazione, uomini che mutano con i luoghi e gli oggetti (vetro, forme quadrate, spiroidali, termine quest’ultimo ripetuto più volte a sottolineare il caos in cui si è inseriti difforme dall’accumulo di oggetti precedente). La natura lascia lo spazio a “piantesempre verdi!”, alle nostre pause caffè, alla nostra “epica sconnessa”, nell’esistenza vorticosa delle telefonate e dei calcoli. In questa collettività anonima si staglia la solitudine di Martina, ombra che non si mostra realmente per quello che è, ma riflesso dello specchio e dello schermo. Anche le cose vogliono ritornare cose e riacquisire un senso.
In questo scorrere del tempo ciò che mantiene la sua unicità è la natura e non mancano dei testi dedicati alle componenti naturali che ricorrono anche in poesie in cui si parla di altro. Elementi frequenti sono l’acqua, e ciò che appartiene a questa sfera semantica, il vento, la luce, il buio. L’acqua consuma (“sbrodola dai vasi/le persiane/ormai sono divelte” e ancora “l’acqua leviga i sassi/ sono trascinati dal vento”) anche nelle immagini delle spugne, dei piatti, dei panni, come se sciacquare permettesse di ripulire e di creare ordine. Molti i rimandi alla fauna marina. I pesci appaiono in uno stato di sofferenza, quasi di soffocamento come il pesce gatto in un fondo liquido che evaporava o l’anguilla “in un recipiente di vetro che non aveva sbocchi […] foce o sorgente erano scomparse”; l’io diventa partecipe di questo senso di oppressione (“la terra lo inghiottì, l’anguilla lo premeva”). Non a caso gli animali vengono talvolta umanizzati e utilizzati come controfigure degli uomini (i rettili oppure le api[14]).
La natura, tuttavia, nelle poesie di Pelliccioli non è specchio dei sentimenti umani alla maniera simbolista, piuttosto diviene metafora di una condizione umana. Altrove, forse l’uso più frequente, sembra contrapporsi all’uomo come in La bianca magnolia che fiorisce “lontano dal male” e “intralcia/l’andare sbagliato di noi”. La natura, nelle foglie gialle sul marciapiede, anche se intralciata dalla trasformazione ci ricorda il suo tempo, quello delle stagioni, conservando la consapevolezza della ciclicità in una perdita umana del senso del tempo.
È nella sezione Nell’aria leggera che il soggetto si immerge nel paesaggio quasi a ricordare la Pioggia nel Pineto di D’Annunzio, ma privo di panismo. L’uomo si inserisce nel contesto naturale, che è il vero “habitat/di noi/esseri/animali”, ma appare spaesato. Il soggetto è ben consapevole della vita nascosta delle piante che talvolta tenta di rivelarsi, ma diventa quasi incapace di comprendere. Eppure c’è qualcosa che accomuna l’uomo e la natura ed è l’azione del tempo “assoluto”.
L’insetto più nascosto sa che le foglie
sono fatte per cadere
come i fiori delle surfinie rosa:
è il ciclo della vita, splendido e crudele, fragile ed eterno […]
e, in riferimento alla vita umana, “mi chiedevi a mani nude se la vita fosse eterna[15]”. Tutto è destinato a finire, la foglia secca, l’Agnese, Nino, l’uomo del tapis roulant, ombre, “vivi mai morti”. Anche l’insetto più nascosto sa che deve accadere mentre spesso ci si ostina a negarlo (“Doveva accettarlo:/a volte si muore”).
[1] Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017 p.28
[2] Ivi, pp. 59-61
[3] Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo, Mondadori, Milano, 2024, p. 7.
[4] Maurizio Cucchi, Sindrome del distacco e tregua, Lo specchio Mondadori, Milano, 2019.
[5] Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo, p. 41
[6] Ivi, p. 37
[7] I. Stoichita, Breve storia dell’ombra, Il saggiatore, 2023.
[8] Marco Pelliccioli, Nel concerto del tempo, p. 50
[9] Ivi, p.48
[10] Ivi, p. 32
[11] Ivi, p. 121
[12] Ivi, P. 83
[13] Ivi, p.60
[14] Ivi, p. 42, 43
[15] Ivi, p. 94
Marco Pelliccioli (1982) ha pubblicato: Nel concerto del tempo (Mondadori, 2024, Cinquina finalista Premio internazionale Gradiva, Menzione speciale Premio Camaiore); la plaquette Il sogno del pesce gatto (Stampa2009, 2023); L’inganno della superficie (Stampa2009, 2019, Cinquina finalista Premio Città di Acqui Terme); L’orfano (LietoColle-Pordenonelegge 2016, Premio Colline di Torino); C’è Nunzia in cortile (LietoColle 2014, Premio Albero Andronico). Del 2015 è il romanzo A due passi dal treno (Ed. Eclissi), segnalato dal Premio Calvino. Scrive racconti per ragazzi (Gallucci, Einaudi) ed è presente in Giovane poesia italiana (Pordenonelegge 2020), tradotta in inglese, francese, spagnolo e tedesco. Collabora con quotidiani e riviste, per i quali scrive recensioni e articoli dedicati alle principali figure poetiche del Novecento italiano. A Milano, ha curato diverse iniziative culturali, come i corsi annuali di “Poesia italiana e straniera dal Novecento a oggi” per il Teatro Fontana e la rassegna “Nuove questioni di poesia” per la Casa della cultura. Dall’autunno 2024 è direttore della Casa della Poesia di Milano.
26/07/2024 alle 07:38
La meccanica quantistica ci nega, effettivamente, la direzione del tempo nell’infinitamente piccolo, per cui riusciamo a dedurre che cio` che per noi e` il passaggio dal passato al futuro e` un concetto statistico, strettamente correlato, infatti, con l’Entropia; assolutamente geniale Aristotele nell’accorgersi che cio` che chiamiamo tempo e` essenzialmente il cambiamento, quindi il movimento. Un Universo totalmente immobile e privo di cambiamenti, come quello immaginato nella singolarita` che avrebbe preceduto il Big Bang, sarebbe da considerare estraneo al tempo e all’idea stessa di realta` (qui si dimostra l’illogicita` intrinseca del modello Big Bang: se nulla cambia non puo` esserci un evento che ne precede un altro). Il tempo oggettivo, cioe` indipendente dall’essere percepito, e` accettato nella visione newtoniana solo per motivi pratici, come quelli inerenti la musica, ma Einstein ne dimostro` l’inconsistenza in termini relativistici. Quando il cambiamento e` nella nostra percezione e si fissa in memoria diventa tempo psicologico, ed e` questo il campo di applicazione anche della poesia. I processi illustrati in questo articolo rendono con efficacia e coinvolgimento l’idea di un miracolo poetico che nasce dalla percezione del cambiamento, non solo verniciata, ma addirittura resa reale dal trasporto emotivo associato sia al cambiamento stesso che ai modelli gia` presenti in memoria per confronto.