Ma dove sono le parole? – a cura di Chandra Livia Candiani e Andrea Cirolla

 

Le mani che scrivono le poesie
sono le stesse mani
che fanno le pulizie.

Ramayana, nove anni, rom.

 

Combaciamo tanto bene con le nostre parole da non chiederci più da dove arrivino, da non ricordarci più del mondo prima della parola. Eppure non è distante quel mondo, quel tempo. Sta appena un palmo sotto al nostro fiato distratto. In un vuoto abitato, proprio qui, in “una frescura al centro del petto”, come la chiamava il poeta sufi Giallal al-Din Rumi.

È di questa frescura che ci parla “Ma dove sono le parole?” (Effigie, 2015), raccolta di poesie scritte da bambini che abitano nelle periferie di Milano insieme a Chandra Livia Candiani e poi ricomposte con la collaborazione di Andrea Cirolla. Bambini dai sette agli undici anni. Bambini italiani ma con le radici aggrappate in diversi paesi: Marocco, Filippine, Algeria, Perù, Egitto, Cina, Giappone, Russia. Tra tutti questi un posto speciale l’hanno i bambini rom, bambini che hanno radici nel vento e anime di vetro.

 

Un piccolo autoritratto

La mia mano è vuota,
nubi e sudori nel corpo.
Onde del sangue che gela per la paura,
respiro con il vento argento.
Tuoni negli occhi,
nella mente c’è il mare.

Wangyi, nove anni, cinese.

 

Chandra Livia Candiani è una maestra così piccola che finisce col somigliare ai suoi bambini. Ha una vocina sottile, un passo sensibile, una timidezza antica, che la fanno ancora vivere sulla soglia di un’infanzia senza tempo. Insegna ai bambini a cucire le loro parole per farne poesia, prima ancora di insegnare loro la precisione della lingua con cui scrivono. Per fare questo parte dal punto esatto in cui  ciascuno di essi si trova. Dalla capacità che ci ciascuno ha di sentire. “Un poeta sente”, dice, ricordando il verso di un anonimo poeta nicaraguense. E dalle tracce di questo sentire nascono le parole.

Per dare spazio a questo sentire, per imparare davvero ad ascoltare, occorre però fare amicizia col silenzio. Scoprire che non c’è solo il silenzio “teso del comando, a cui si obbedisce facendosi piccoli” e muti. C’è anche un “silenzio che allarga”, che è piacere di riconoscere sé e il mondo. Un silenzio che non “è assenza di rumori, ma il loro sfondo, il loro riposo”.

 

Il silenzio è la grandine
è il cane che corre
è fischiare nel verbo.
Il silenzio è il gatto
sono occhiali
per guardare
sono campanelli
sono lampade lucenti
ma che cos’è il silenzio?

Ale, otto anni. Non vuole indicare il suo paese.

 

Chandra Livia Candiani raccoglie le tracce delle scritture dei suoi bambini con delicatezza e pudore, chiedendoci di entrare nelle loro parole in punta di piedi, rinunciando per qualche momento alle nostre usuali e a volte usurate categorie. Per ascoltare. Per respirare una parola che è sempre nuova, perché nasce dal corpo, dall’esperienza del continuo sradicamento e radicamento che vive chi si muove per le periferie del mondo. Nelle periferie dell’esistenza.

Ognuno di noi porta che con sé queste tracce, a cui poco a poco si può imparare a dare voce. Non tanto per dirci ciò che sappiamo, ma ciò che non sappiamo, ciò che non ci spieghiamo. Ciò che ancora può schiudere il nostro stupore. In questo tutti torniamo piccoli, torniamo a capo. Perché forse, sembrano suggerirci questi bambini, abitare la poesia è esercizio continuo al cominciare.

  

Le parole sono onde elettromagnetiche
escono dalla bocca e dal cuore
le falsità sono una corsa
la verità è una camminata nel fango
risuonano a Istanbul
e tacciono in Tibet
escono di gioia a Natale
nel mondo sono come una pioggia estiva
di ogni lingua
e sapore
sono l’unica
arma contro
le guerre
ma anziché dire bontà
il mondo le sopporta. 

Riccardo, dieci anni, italiano.