La vita minima di Emiliano Cribari, Anima mundi Editore, 2020, una lettura di Luigi Paraboschi
Una nota fondamentale attraversa la poetica di questo autore che possiede una scrittura piana, di facile accesso: ed è il senso della precarietà, che, se ci riflettiamo un po’, si può rintracciare anche dentro ogni aspetto della nostra esistenza.
Con questa affermazione non vorrei indurre alla conclusione frettolosa che il lavoro di Cribari sia deprimente o carico di angoscia, si tratta invece di una riflessione continua attorno al significato di ogni sua azione , riflessione che è ben condensata dentro il titolo, come troviamo a pag.16:
È una vita…/ fatta di poco/ è solo l’illusione/ di una vita minima//
Quando egli scrive a pag.13:
“le poesie non si cercano/ si levano come gli uccelli …
e poi continua nella stessa:
“ …tra i faggi d’inverno/ quando la nebbia apre il sentiero/ al primo uomo del mattino//
Sembra che il poeta voglia mostrarci il mondo dentro il quale operano i suoi versi, mondo fatto di colline dove il panorama è composto quasi esclusivamente da piante nella nebbia in cui muove i passi il primo uomo dell’umanità.
“Illusione” egli scrive ed è facile accostare questo sostantivo ai versi che hanno attraversato molta della poesia di Leopardi, ma in Cribari si affacciano spesso anche gli echi nostalgici di Attilio Bertolucci quando parlava delle sue lunghe soste sull’ Appennino parmigiano.
Scrive infatti il nostro, a pag.18:
“è novembre/ a Castagno d‘Andrea piove da un mese/ la mattina la nebbia nasconde il paese/ le case sono fievoli luci di cucina:/ i lampadari una definizione/ della parola poesia/ dietro i vetri fornelli e televisioni/ odore di legna, / tepore di montagna/ in attesa del pranzo,/ gli anziani s’avvicinano alla finestra/ e scrutano in alto, in basso/ scuotono il capo/ non che debbano uscire/ è un tristezza così, tanto per fare//
Abbiamo novembre – pioggia – nebbia, appaiono – luci di cucina – e quegli – anziani che scuotono il capo – come spesso succede in chi ha un certa età, e alla fine c’è -una tristezza così, tanto per fare -.
È un continuum vivere in attesa di qualcosa di indefinito come leggiamo a pag.20:
“sono in attesa di una lettera,/ di un’occasione,/ di una scossa in fondo al cuore/ di una poesia/ sono in attesa di una telefonata/ e di una malattia//
Il “male di vivere“ lo stesso male che ha attraversato quasi tutta la poesia di Montale, in Cribari si manifesta angosciante a pag.22:
“vivo ogni istante/ come dopo una lieve/ scossa di terremoto/ aspettando il crollo/
L’aspettare il crollo di cui abbiamo letto è il solco dentro il quale si muove la vita di sofferenza, non fisica ma mentale, e che fa creare a pag.23:
“…un giorno così/ vivo conficcato/ nel funerale di domani
Sembra una vita impregnata di angoscia esistenziale, la stessa che troviamo in molta della poesia del tardo ‘800 e di tutto il ‘900, da Baudelaire fino a Celan e non solo, ma anche in tanti altri poeti che hanno posato il loro sguardo su quella presenza “sorda come un vecchio rimorso/ o un vizio assurdo“ come ha scritto Cesare Pavese, ed è ciò fa scrivere a pag.29 al nostro autore:
“ogni morte improvvisa/ sconvolge/ poco più del tempo di un funerale/poi arriva subito/ un pasto/ una partita di calcio/ una telefonata/ e ogni male/ anche il peggiore/ inesorabilmente arretra/ la sua posizione/ dalla morte non abbiamo ancora/ imparato niente.
Ma come possiamo classificare la raccolta allontanandoci anche se poco dal sentimento dominante attorno alla vacuità del nostro vivere?
Direi che Cribari è uomo di fede religiosa, un uomo che cerca in continuazione se stesso attraverso l’osservazione accurata di quanto gli accade e di ciò che osserva nel mondo.
Nella poesia a pag.30 egli fa una una riflessione attorno al pensiero di Dio, che, con una sorta di devozione giovanile, egli chiama Gesù, ed è molto abile intellettualmente nell’estrarLo osservando una giovane monaca
“dall’inchino umile e lento/ il canto assiduo/ lo sguardo risolto/ rivolto a un tratto verso l’alto//
e successivamente nella stessa poesia egli è colpito dal:
“dire aspro/ di una cornacchia/ posata sopra un pino/la sua fuga improvvisa/ il silenzio/ l’idea costante/ di un suo ritorno.
Se da un lato egli afferma nel titolo che “oggi ho incontrato Gesù” dall’altro il duro canto della cornacchia sembra avvisare della presenza della morte.
Dio (e qui egli Lo chiama con un espressione da uomo adulto) è ancora una presenza che si manifesta con riservatezza, come leggiamo a pag.41:
“… e tra la pioggia/ e dice soltanto/ una parola //
ma poi Lo ritrova meglio dentro in questa di pag.44 con una sobrietà di linguaggio che dice molto più di lunghi discorsi
“è domenica/ prendo il sacramento/ dell’acqua/ da una sorgente/ la benedizione/ di una tortora/ assisto immemore/ allo schiudersi del bosco/ sottovoce.
L’uomo Cribari dentro cui vive il poeta è uomo che vive intensamente il suo territorio, l’Appennino, lo ama profondamente, ama le sue tradizioni e lo definirà più avanti “una bottega/ chiusa per delusione“ ama il bosco che lo abita, e ciò che scrive a pag.49, ciò mi fa ricordare la stessa passione che animava Rigoni Stern,
“Quando è sera mi manchi./ Quando abbaia la primavera, e fuma./ E l’ombra stacca l’ultimo/ chiarore, nella tregua/ fumosa del vino./ Mi manchi nell’ odore dei villaggi/ che vengono via da te//
È un mondo quasi scomparso quello che popola la montagna, un mondo ove anche l’altro poeta appenninico, Dino Campana, forse “camminava a braccia incrociate/ a passo svelto e sicuro/ le pupille dilatate/ i sensi tesi/ a stanare anche soltanto/ una parola” e che nei suoi deliri d’amore si sentiva:
“… braccato dentro boschi che/ hanno gli umori del poeta/ placano e affogano…/
Desidero concludere questa mia lettura riportando per intero un pezzo, tra i quattro tutti notevoli in prosa-poetica che chiudono La vita minima, e che a mio avviso fornisce ancora meglio il temperamento di vero FLANEUR (e io aggiungo: di vero poeta) che la critica moderna assegna da sempre a Baudelaire:
“Il fatto è che non mi riconosco in alcun male che sia riconoscibile. Non ho male ai denti, non ho lo sfratto, non sono disoccupato. Non ho un cancro, non ho debiti, non ho nemmeno un trasloco da fare. Oggi sono entrato in un bar e ho ordinato verdure grigliate e un bicchiere di vino. Ho scelto un tavolo e mi sono seduto. Alla televisione le solite immagini , la cronaca rosa, la cronaca nera. In alto a destra la scritta: “Questa sera ore 20,30 Coppia Italia Inter-Cagliari”. Ho veduto mio nonno seduto in poltrona nella casa in piazza Mosca a Pontassieve.
Luigi Paraboschi
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