Risonanze di Massimo Parolini | I nuovi deragliamenti di Adriano Cataldo

 

La poesia, come la bellezza, non salva l’uomo e non salva il mondo, siamo d’accordo, ma forse può dare un buon contributo per descriverlo, definirlo e comprenderlo magari per, in un secondo tempo, cercare di migliorarlo, di renderlo più giusto e più vivibile. In Famiglia nucleare, pubblicata di recente per le edizioni Delta3 (nella collana Letture Meridiane diretta da Eleonora Rimolo), Adriano Cataldo, poeta, curatore di eventi poetici in radio e performer-organizzatore di Poetry Slam cilentano (di origini)-tedesco (di nascita)-trentino (di adozione), prosegue la sua annotazione critica, iniziata con la raccolta Liste bloccate, della scena sociale degli ultimi anni, caratterizzata  da separazioni, partizioni, scissioni, legate ai temi della tensione collettiva, del lavoro, del movimento endemico dei processi migratori,  ed  ora anche della distribuzione virale pandemica. Lo stesso titolo sembra rimandare a tale scissione fra atomi capace di portare ad una serie di fenomeni di  esplosione a catena del nucleo  sfocianti nella disintegrazione devastante della società stessa e ad un ritorno non tanto ad un mitico buon selvaggio rousseauiano pre-contrattuale ma ad uno spazio residuale feroce hobbesiano di homo homini lupus. Con la precedente raccolta, dicevamo, c’è una continuità di scrittura, di stile e di contenuti: Famiglia nucleare, tuttavia, aumenta la compattezza del dettato, che si fa più organico e unitario. Il compattamento si realizza nella prima sezione (Domesticità) con l’affiancamento-innesto di estratti del saggio Fine del mondo dell’antropologo Ernesto De Martino, i quali non si limitano ad essere delle citazioni in esergo, ponendosi invece in trapianto attivo col verso sottostante, costituendone la chiave interpretativa integrante del testo e dei messaggi stessi. Addirittura, tale innesto-trapianto, si ripete secondo un gioco combinatorio e di specchi, accompagnandosi a versi diversi, in un percorso di anticlimax degenerativo che, nel calembour di assonanza fonica, inizia con “l’affine”, passa dal “confine” e sfocia ne “la fine”. Nella seconda sezione (Sottrazione) si cantano ancora esempi, tratti dalla cronaca, del disfacimento sociale (migrazioni, lavoro, ricerca identitaria) ponendo come chiusa due poesie della speranza (nel disegno di una finestra e di un inizio): quella di rifondarsi Persone plurali e poter dire -rimescolando Rimbaud de “Io è un altro”- Io è noi, Io è voi, Io essi sono, Io siamo, diventando Voci di una nuova comunità.

Deleuze:  tutte le identità non sono che simulate, prodotte come un effetto ottico, attraverso un gioco più profondo che è quello della differenza e della ripetizione: ripetendo, nella differenza, quanto già scritto per Liste bloccate,  ricordiamo che Cataldo opera con citazioni e modi di dire “dirottati” o “deragliati” (dal termine francese  “détournement”), e ciò lo diciamo applicando ai citazionismi poetici e alle espressioni idiomatiche l’espressione coniata  dallo studioso per le modifiche dei proverbi in francese da Peter Barta. In Cataldo spicca la tendenza al motto di spirito, facendo uso di espressioni idiomatiche, frasi celebri, aforismi, preghiere o proverbi veri e propri rimaneggiati e citazionismi poetici che con l’uso dei giochi di parola vengono destrutturati modificando il loro significato abituale e convenzionale (spesso in origine metaforico e non letterale). La sua è un’operazione di “rovesciamento” del significato condiviso per graffiare, dietro l’apparente fare sornione (ma in realtà nella nuova raccolta l’elemento ironico tende quasi a scomparire) la società italiana nelle sue maschere, finzioni, croste, tic e pseudo valori: in Famiglia nucleare   l’apparente bonarietà accattivante tende a non apparire ma si fa più netto l’uso della sferza (come in  Pioggia feroce di Clemente Rebora) del Similoro, del finto luccichìo, delle manie e delle ipocrisie che vede ed esperisce, in sé e nel mondo che lo circonda.

Nei suoi giochi di parole Cataldo adotta le varie tecniche: dalla “rassomiglianza parziale” (o casuale o falsa derivazione) alla più sofisticata “doppia significazione” (o ambiguità semantica, considerata da Freud di livello più avanzato nella genesi del motto di spirito), al lapsus volontario.  Attuando sempre, come di rito nei giochi di parole, l’operazione di sdoppiamento (o spostamento):  per accostamento-affiancamento ( cosiddetto “in presenza”) di parole o frasi, oppure,  più spesso, per sostituzione o inversione-ribaltamento (cosiddetto “in assenza”) di una o più parole in dei versi famosi o in un modo di dire/proverbio (ovviamente è la fama del verso o dell’espressione idiomatica/proverbio modificati a garantirne la comprensione, nel bisticcio, del senso):  Sicura da ogni turbamento, lasciare dovrebbe/ [la stagione della paura lo strascico -dove all’embolismo “Liberaci, o Signore, da tutti i mali” intercalato dall’officiante dopo il Padre nostro, si sostituisce alla beata speranza del ritorno di Cristo quella che cessi la paura sociale del diverso, dello straniero, legato alla legge sulla legittima difesa; Con quale/[turbamento grave siete fratelli? -con chiaro riferimento al reggimento dei fratelli ungarettiani; beati i popoli/ che hanno apolidi/ da fare eroi -con modifica inversione della brechtiana “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”; Qualcuno sta/ con il suo doppio/ con il suo opposto/ con il suo dolo/ con il suo rimedio/ tra fitto e proprietà, sul corpo del mondo./ Poco è preso/ ed è subìto -ovviamente sul calco de Ed è subito sera di Quasimodo; il petrarchesco Solo e penoso/ misuro le strade/ a forza di crampi; o Primo Levi in Se questo è un vento […] troppo umano per essere un vento e infine ancora l’amato Montale, pure musicato da Cataldo, col suo smerigliare pallido.

La vena dell’anarchia, rispetto alla precedente raccolta, forse si innesta più blanda nel testo e la   maschera da commedia avellana, del giovane Bucco fanfarone, è sostituita da quella di un Krampus fustigatore. Ma comunque, ripeteremo ancora, pur nella differenza, che anche in questa raccolta il lettore deve tornare indietro, e rileggere da capo, trovare nuovi punti d’entrata interpretativa, nuovi rizomi,  entrare da un altro piano, per intravedere come l’autore usi ironia, umorismo, giochi di parole e parole crude alla stregua di una deleuziana “macchina da guerra nomadica”, come norma d’aggressione o resistenza per conservare forme di libertà e democrazia, contro il pensiero unico di ogni totalitarismo e consumismo, a favore delle reti sociali e di una coscienza collettiva, convinto che la misura sia colma e il dubbio sia solo sul metodo

 

Perché, Adriano, il titolo Famiglia nucleare, a cosa ti riferisci esattamente e quale messaggio vuoi condividere?

 
Con Famiglia nucleare ho voluto sottolineare l’idea che alcune comunità siano unite semplicemente dalle contrapposizioni, dall’individuazione di un nemico. Queste divisioni sono spesso tali da portare a scontri, a guerre (parola che nel libro compare diverse volte). Il titolo può anche essere inteso nel suo opposto, la comunità allargata. Non a caso, ho dedicato il libro a Mimmo Lucano, figura che per me rappresenta la capacità di essere solidali verso gli altri in modo disinteressato.

La famiglia è poi un simulacro, perché viene tirata fuori all’occorrenza come un’istituzione in pericolo, nonostante sia qualcosa che nella storia umana esiste da pochissimo, soprattutto nella forma in cui noi la conosciamo o vogliono farcela intendere. Devo anche aggiungere che, mentre scrivevo i testi per questa raccolta, l’epidemia di Covid ha mostrato quanto le famiglie possano essere pericolose per i singoli e quanto in essa si giochi un campo di battaglia tra generazioni.

Il titolo infine fa riferimento a un fatto personale, la nascita di mio nipote Gabriel, che ha dato una scossa positiva alla mia esistenza nei termini di una maggiore propensione alla cura verso il futuro.

 

In Famiglia nucleare continua l’operazione di deragliamento-dirottamento di citazioni poetiche (o religiose) famose o frasi di uso comune (aforismi, frasi fatte, detti): ritieni che questa tecnica sia ormai parte integrante della tua cifra stilistica e ti caratterizzi?

Non posso affermare di essere pienamente cosciente di quanto caratterizzi una mia cifra stilistica. Credo che citare testi poetici ormai classici, frasi idiomatiche e riferimenti liturgici, sia parte di una grammatica. Questi deragliamenti-dirottamenti di cui parli sono soprattutto funzionali al testo, dovrebbero fornire a chi legge una base semantica a cui appigliarsi, per poi andare verso un senso proprio. Faccio l’esempio di un testo contenuto nella sezione Tre: la fine di Famiglia nucleare: “Ci siamo detti, avremmo a lungo rimpianto / l’infilascarpe e il toglisuole”. Questi due versi riprendono il montaliano “L’abbiamo rimpianto a lungo l’infilascarpe”. È abbastanza facile qui appigliarsi, tramite il verso di origine, a un immaginario domestico (il mio testo in origine era intitolato Famiglia nucleare) caratterizzato dalla dispersione di oggetti e persone. I versi di Montale sono per me un lungo avverbio di cui servirsi per un duplice scopo: per chi coglie la citazione, si tratta di un avverbio rafforzato, capace di aprire diversi piani di immaginario. Per chi non coglie la citazione, il senso è depotenziato, ma comunque valido. Un secondo esempio: in “Sicura da ogni turbamento, lasciare dovrebbe la stagione della paura lo strascico” cito la liturgia cristiana e la metto in associazione con l’introduzione della normativa sulla legittima difesa (nel testo della legge 36/2019 si parla di “turbamento grave” a giustificazione di un omicidio). Anche in questo caso, i piani sono molteplici, le possibilità semantiche ampie. Voglio che si torni spesso sui miei testi, che si faccia anche un po’ di fatica a leggerli. Altrimenti, avrei scritto un libro di ricette. Se dovessi dare una definizione di una mia cifra stilistica, sarei felice di fare riferimento alle strutture dissipative teorizzate in fisica da Prigogine: un sistema aperto che dialoga-scambia energia con i sistemi limitrofi e grazie a questo è in costante evoluzione.

 

Anche questa nuova raccolta rientra nel genere della poesia civile: quale definizione di “versi civili” ritieni   la più confacente al tuo concetto di poesia?

In una nota di lettura a un libro di Davide Galipò (https://www.utsanga.it/cataldo-ipotesi-per-una-poesia-incivile-nota-di-lettura-a-istruzioni-alla-rivolta-di-davide-galipo/) avevo delineato il profilo di una “poesia incivile”. Mi sento di inserire Famiglia nucleare in questo filone, visto che la definizione di “versi civili” mi sembra più associabile a un approccio cauto nella resa in poesia dell’esistente. Per “poesia civile” intendo il testo letto da Amanda Gorman per l’insediamento di Joe Biden. Le parole della poetessa sono piene di speranza, fiducia nella nazione e nelle sue istituzioni. Nei miei versi questo non è presente. Vedo soltanto il disfacimento dei legami, comunità basate unicamente sull’odio verso un non ben identificato Altro. La Famiglia nucleare è questo, un legame basato sugli scontri. In questa visione ovviamente entrano in gioco la mia formazione sociologica e il mio anarchico e destrutturato apprendistato poetico. Sono per l’impegno attraverso le parole e la prassi, per una postura intellettuale subalterna. Avrai notato che entrambe le sezioni del mio libro si concludono con la parola dubbio. Ecco una chiave di Famiglia nucleare: esercitare il dubbio, possibilmente con rigore. Vi è infatti la tendenza ad abusare di questa possibilità, basti pensare al fiorire delle varie fantasia di complotto che aleggiano nei discorsi pubblici.   

 

Nella prima sezione della silloge (Domesticità) metti in relazione i tuoi versi con estratti del saggio Fine del mondo dell’antropologo Ernesto De Martino: quale relazione esiste fra quelle citazioni e le tue poesie?

Come dicevo primaa, oltre alla formazione sociologica, ho avuto modo di approfondire l’antropologia culturale grazie a una delle mie maestre: la professoressa Amalia Signorelli, che è stata a sua volta allieva di Ernesto de Martino. In La fine del mondo sono presenti gli elementi filosofici necessari a comprendere una delle spinte culturali che a mio avviso caratterizzano il nostro tempo: la consapevolezza dell’apocalisse e la disperata necessità di salvare qualcosa e salvarsi. Uno delle strategie che De Martino sottolinea è la domesticità utilizzabile, la volontà dei singoli e della comunità di creare uno spazio in cui riconoscersi. Non sempre questa strategie sono fruttuose in senso positivo. Assistiamo infatti a crescenti chiusure identitarie, comunità basate sull’odio, che portano al risultato opposto rispetto a quello sperato: accelerare l’autodistruzione.

Avrai notato nel testo che le citazioni di De Martino si ripetono tre volte nelle tre sezioni (l’affine, il confine, la fine). In questo ho voluto che l’esergo non fosse semplicemente una mappa concettuale, ma che De Martino fosse in dialogo dinamico con i miei testi. Mi sono riferito a un importante libro, “La radice dell’inchiostro”, pubblicato nel 2021 da Argo, a cura di Giorgiomaria Cornelio (https://www.argonline.it/prodotto/la-radice-dellinchiostro-dialoghi-sulla-poesia-a-cura-di-giorgiomaria-cornelio-2/). In particolare, mi rifaccio al saggio di Carlo Selan, che definisce la poesia come un “gesto umile di farsi voce seconda” (https://www.nazioneindiana.com/2020/03/14/la-radice-dellinchiostro/#carlo-selan), di scrivere in nota a chi ci ha preceduto. In questa prospettiva, spero che la mia voce poetica sia stata anche feconda.

 

Alcune poesie (Giorgia, Europa: arte della fuga, A mia nipote) sono state musicate e inserite in un Ep intitolato Subalterna (operazione che tu hai fatto anche con poesie di Montale: cfr. Electro Montale): da organizzatore (e partecipante), inoltre, di Poetry Slam ritieni che la poesia debba recuperare quelle caratteristiche ritmico-musicali risalenti, ancora prima della nascita della poesia lirica alle  formule propiziatorie ritmico-ossessive (invocazioni-litanie, di solito comprensibili) o divinatorie magico-enigmatiche (oracolari, incomprensibili), entrambe ripetitive e con cadenze ritmiche, legate, come sarà poi con la nascita della poesia lirica, al passaggio  dalla parola detta a quella cantata e viceversa? Ritieni che il sintetizzatore oggi debba affiancare il verso come fu un tempo per la lira greca, l’arpa druidica celtica, la viella, la tiorba, la ghironda e il flauto dei provenzali?

Credo che le pratiche divinatorie magico-enigmatiche, le litanie etc non ci abbiano mai abbondonate, nonostante la massiccia secolarizzazione della civiltà occidentale. Provengo da una terra (il Cilento) dove la cultura religiosa si accompagna da sempre a quella pagana, alla ritualità. Si tratta di elementi linguistici basati su codici che solleticano una parte del nostro cervello che non abbiamo ancora, per fortuna, addomesticato. In questo scenario, è inevitabile che la poesia ne sia pervasa e che abbia successo presso il pubblico. Non credo sia qualcosa di nuovo, perché troviamo elementi propiziatori e cantilene anche nella poesia di Adriano Spatola. Ovviamente, rendere su carta (o altro supporto digitale come lo schermo) questi ritmi risulta difficile e molti preferiscono una poesia prettamente orale e performativa, perché altri supporti non fonici la renderebbero meno forte. Negli ultimi tempi ho recuperato maggiormente un approccio ritmico, operando su schemi metrici classici come il doppio settenario o il doppio ottonario. Allo stesso tempo, mi piace pescare nei ritmi contemporanei che si rifanno al rap. Questo mi dà la possibilità di avere un testo che funzioni in diverse situazioni di fruizione (orale, lettura privata, esibizione). Faccio fatica a focalizzarmi su di un solo approccio, perché li ritengo tutti validi e perché il messaggio poetico che voglio dare non è univoco. Allo stesso tempo, sarei felice se ci fossero meno contrapposizioni nella comunità poetica tra i vari approcci. Anche in questo, si vede la tendenza agli odi che cementano i gruppi sociali, su cui credo di aver basato il mio Famiglia nucleare. 

Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, il sintetizzatore è uno strumento che ben si presta alla poesia, perché capace di produrre suoni che spesso non sono armonici. Sicuramente si tratta di uno strumento musicale capace di definire il nostro tempo iperconnesso e dipendente dai dispositivi elettronici. Ritengo però validi anche gli strumenti analogici. Molto dipende dal messaggio che si vuole veicolare, ma anche da timbro di voce di chi legge i testi e dai testi stessi. Sicuramente, accompagnare i propri testi alla musica apre degli scenari di diffusione molto ampi, l’ho vissuto con il mio spettacolo Poesia & Musica: dipende dai punti di vista (https://www.youtube.com/watch?v=hQwEj6a6sU4) dove, oltre al progetto Electro Montale, mi esibisco anche con dei testi miei. 

 

Adriano Cataldo, originario del Cilento, è nato nel 1985 in un Paese che non esiste più: la Repubblica Federale Tedesca. Dal 2008 ha iniziato a pubblicare su blog, riviste e collettanee di poesia contemporanea. Ha pubblicato la raccolta Liste Bloccate (Edizioni del Faro, 2018),  due autoproduzioni (Amore, morte e altre cose compostabili, 2019; Come poter dire alla fine, 2020) e, di recente, Famiglia nucleare (Delta3, Letture meridiane, 2022). Organizza reading ed eventi di promozione della poesia in Trentino e Campania, partecipando alle attività del Trento Poetry Slam e dell’Università Popolare del Cilento. È stato tra gli ideatori del festival Poè di Trento. Ha creato il movimento Breveintonso, di cui ha curato la pubblicazione della raccolta Poesie il cui titolo è più lungo della poesia stessa (2017). È stato tra gli autori de La Trento che vorrei (Helvetia, 2019) e Le parole e il consenso (Castelvecchi, 2021). Cura la rubrica radiofonica Il pubblico della poesia su Sanbaradio ed è membro della redazione del blog letterario Poesia del nostro tempo.
Ha ideato il progetto di poesia e musica Electro Montale e Subalterna. Vive a Trento.