Giovane canzone di asparagi svettanti, note di lettura a Poesie vegetali / Green Poems, di Lino Angiuli (edizioni di Pagina, Bari 2021), di Esther Celiberti 

 
 
«Non riesco a concepire che il nucleo di tutte le cose/ possa avere origine da un piccolo seme/ e che ciò che noi pensiamo sia insignificante/ fornisca l’aria più pura che respiriamo/ troviamo dentro la vita segreta delle piante/ una specie più piccola di quanto l’occhio possa vedere/ o più grande della maggior parte degli esseri viventi/ dalla quale noi prendiamo senza consenso/ il nostro riparo, cibo, abiti/ ma troppi in cambio/ le calpestano, affogano o bruciano/ come se non fossero nulla/ ma se ti chiedi dove saresti/ se loro non esistessero, tu non lo faresti»: così Stevie Wonder in una canzone dell’album Viaggio attraverso la vita segreta delle piante del 1979.
E Lino Angiuli si sintonizza lungo gli interminabili sentieri di Poesie Vegetali Green Poems,  raccolta di testi dedicati alla natura, ai paesaggi, alle piante. Il landscape disegnato, doppio dell’autore, riproduce l’apparente silenzio e l’aridità della pietra accanto alla vitalità incandescente del sole e dell’orto. Le piante divengono trasposizioni di stati d’animo in una poesia arcimboldesca, nata e cresciuta tra filari, vivai e campi. Questo lirico giardino dei semplici è l’ alter ego del poeta, appagato hortus conclusus. Ma non è solo questo, non l’assunzione di una maschera polimorfa ma una linea, avviata ed avallata da tempo, di allontanarsi dai rovi dell’io.
 
La terra è un grembo nel quale si ritorna «Quando morirò/avrò bisogno/di sentirmi a casa mia» (scriveva appena mezzo secolo fa), un luogo ipogeo e viscerale come Hal Saflieni a Malta dove all’opulenza presiede Gea.
Mistilinea, la poesia di Angiuli è mediterranea nel senso più vasto del termine. Il femminile della dea si accompagna al maschile dell’ulivo, verde totem, albero di culto al quale il poeta si consegna e si affida: «ma perché veramente possa dimorarti accanto/ donarti il sangue infracidito/e in cambio possa percorrere/ attraverso le radici ogni mia vena disseccata/ entrarmi nella voce eventualmente».
Terra ed ulivo, una coppia di genitori di arcaica solidità.
Il poeta chiede anche aiuto al carciofo, ritraendosi inane ed alla ricerca di un senso: «Io che vado tentando l’innesto di una verde statura/ dentro un calamaio/ chiederò a lui di aiutarmi a impaginare».
 
In  il giardino creò l’uomo Jorn de Precy nel 1912 teorizza l’ascolto ed il mettersi a servizio della natura e del genius loci che l’uomo deve praticare riallacciando un legame perso. In cambio riceverà lo spettacolo della vita e delle stagioni.
Ed é anche una sorta di baratto quello di Angiuli; da sempre in ascolto delle voci vegetali semina parole nei solchi, ara fondi, dà acqua ai neologismi che conia e talvolta impasta con il parlato e il dialetto, accende storie «per le stradine del mio feudo terrestre», imbastisce trame: «e via nei campi mattinieri a fare primavera/ mi basta un grillo qualità malandrina/ e poi faccio altri miracoli coi fiocchi/ da riempire tomoli e tomoli di carta» e così via saltabeccando da un filo di paglia ad un covone.
E quella «morra di pensierini a buon mercato» che gli si fa incontro con la bassa musica insieme all’«insalata di pensierini vegetanti» ed alla «giovane canzone di asparagi svettanti» la dice lunga sul tono faceto, gioviale di versi che sanno sfogliare tutta la gamma dell’allegria. La burla si unisce all’utopia, al sogno «di un nume senza nome senza numero di casa» che conduce il poeta «dentro il borgo delle sue braccia/ dove si parlano tutte le lingue che non parlai».
 
Con un nuovo lasciapassare, «un tascapane di sillabe buone», il poeta vorrebbe ibridarsi, «trapassare dalla carne al verde», nel vecchio desiderio di diventare pianta («voglio abituare il cervello ad abitare caposotto»), catapultato meteorite in un pulo, «da un chiostro accampato nella murgia aperta», il poeta esprime l’incanto e la meraviglia della veduta, quella «striscia di cose d’altro mondo» che corrisponde a un’epifania, allo stupore, alla «controfirma di quello che da noi si chiama dio».
Le «tante domande di creta» si sporgono dai calanchi, si rapprendono intorno ad un tempo vissuto bene: «quanta roba si perde lungo una manciata di anni/ che però si mantiene intatta in una scatola segreta/ perciò penso che la pace sta sulla strada del ritorno/ dove avantieri può combaciare bene con domani».
Un vero e proprio manifesto può essere considerato Sono nato nella terra delle pietre mentre è di grande presa Neve in bianco,  ad illustrare l’analogia fra la visibilità della poesia e quella della pittura.
 
Con grande cura e coinvolgimento Maria Rosaria Cesareo e Barbara Carle hanno scelto i testi, li hanno presentati e Carle, docente di italianistica presso l’Università di Sacramento (U.S.A.) ha tradotto in inglese i versi.
Poesie Vegetali, salvacondotto per ricongiungerci alla terra in tutti i lati, dai più prossimi  ̶ la Puglia̶ai più siderei  ̶ il cosmo  ̶  con slancio inventivo e tensione ideativa, attenzione, rispetto, passione per la Grande Madre, è, a suo modo, una richiesta di futuro.
Bene ha fatto la Presidenza del Consiglio Regionale pugliese a offrire il proprio patrocinio a un’edizione nata anche con l’intento di portare la “Puglia in versi” negli States.