Circles di Virginia Farina | Legarsi all’infanzia: dialogo con Silvia Vecchini.
Quando senti l’estate arrivare
metti tra le cose da fare
cogliere un papavero premere
il pistillo stampare una stella
sulla fronte di un’amica
fischiare usando un filo d’erba
lasciare una briciola in terra
e aspettare una formica
cercare un soffione prendere
fiato soffiare insieme
ricordare che ogni desiderio
è un seme.
Ci sono libri e poesie che crescono stagione dopo stagione con la semplicità delle piccole foglie odorose che fanno tana nella memoria della nostra pelle. Leggerli ha il potere di riportarci a una dimensione intima e silenziosa, come se quei versi appartenessero a noi soltanto, anche se poi ci sorprendono facendosi eco intorno, rilanciandosi di bocca in bocca fino a diventare coro di voci.
Così è per me la poesia di Silvia Vecchini: una poesia che nasce nell’infanzia e che ad essa si tiene stretta per rinnovare continuamente la parola, per non lasciarla sola ad invecchiare. Per consegnarci i nomi del mondo in piccoli sassi da tenere nella tasca e seminare nel labirinto della vita per segnare e (forse) ritrovare un giorno la via di casa.
Ho cercato Silvia in occasione della Fiera del Libro per ragazzi di Bologna. Volevo dialogare con lei sul suo lavoro e sulle tante traiettorie che lo attraversano e che, con la collaborazione dell’artista Silvia Rubechi, hanno dato vita a una splendida mostra dal titolo: Sulla punta delle cose. Dieci passi nella scrittura di Silvia Vecchini. Una mostra di risvegli poetici.
Ed ecco a voi il nostro dialogo, anch’esso a suo modo invito a piccoli risvegli di poesia.
Buona lettura!
Che cos’è per te la poesia? Attraverso i tuoi versi emerge uno sguardo stupito, che ha memoria di infanzia non pensata ma ancora viva, vissuta. Ci sono tracce di oggetti e gesti piccoli e quotidiani in cui tutti possiamo ancora riconoscerci: una barricata di gomme e matite sul banco, una lite tra amici, un passare veloce del vento, un farsi vela di braccia in rincorsa. Ci sono molte immagini nella tua poesia, e forse per questo tanto bene si fanno accompagnare dalle diverse illustrazioni. La struttura metrica a volte è discreta, non segue forme esatte, si muove più libera, e allora mi chiedo: qual e il rapporto con il suono? Che voce hanno dentro le tue poesie?
Mi piace recuperare questa definizione di Giuliano Scabia: “Lei (la poesia) è il bambino che vede per la prima volta e cerca di scolpire nel suono l’immagine delle cose che sente e vede disegnandole con la voce”.
È vero, cerco di non pensare l’infanzia quando scrivo. Chandra Candiani ricorda che “l’infanzia è un luogo assoluto, senza tempo, luogo di transito, in cui non si può sostare, ma tornare sempre”. A questo luogo, alla sua sorgente, posso ancora tornare e accedere proprio grazie alla poesia che ha una memoria profonda di tutto quello che è stato prima della parola. Della mia preparazione alla parola, un lungo apprendistato del silenzio che ho vissuto nell’infanzia dove ogni cosa risuonava con potenza e sprigionava il suo senso con lentezza. Questo accesso segreto all’infanzia mi è anche dato in dono dai bambini che frequento. Sempre in maniera inaspettata, qualcosa della loro infanzia tocca la mia e la fa parlare. Non come ricordo o nostalgia ma come presenza viva capace di risvegliare lingua e pensiero. E in “Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno”, tutto è capace di questo risveglio. Le cose piccole come un biscotto, una tazza di latte, una matita, le cose grandi come la luna e un cielo stellato, le presenze naturali, alberi, animali, ma anche la neve, la pioggia, le cose invisibili come l’immaginazione che corre guardando dal finestrino, le variazioni minime del paesaggi interiore, i sentimenti.
Per quanto riguarda la metrica, la struttura, sono molto affezionata a settenari, novenari, endecasillabi. È sotto queste forme che in principio nella mia mente si forma il primo verso. Poi mi piace sospendere il respiro, nascondere rime, assonanze, lasciare una briglia sciolta al metro, riportare sulla pagina un pensiero che si muove nel tentativo di dire ciò che vede.
Le mie poesie non sono esattamente per i più piccoli, in forma chiusa, con un ritmo che dà un appuntamento a fine verso. Sono forse per chi sta un poco crescendo e si sporge sul bordo del verso insieme a me per stare in equilibrio. Una volta Bruno Tognolini, il maestro di chi fa poesia per l’infanzia, scrisse che nelle mie poesie c’era quello che chiamava “tamburo nascosto”. Mi è molto piaciuta la sua osservazione. Ecco, a me piace portare questo tamburo nascosto e una voce che muta forma, velocità, intensità, come qualcosa che sta appena nascendo. Probabilmente è una voce che parla all’orecchio e non declama, una poesia scritta a matita che registra questi cambi e si muove libera anche sulla pagina.
Se un bambino o una bambina ti chiedessero chi è un o una poeta, cosa gli risponderesti? Che immagine del fare poesia porti con te nei tuoi laboratori?
Forse direi che è un rabdomante. Ecco, tiene in mano un legnetto di poco conto che funziona come un’antenna. Questo bastoncino è l’attenzione, l’ascolto. Gli capita così di avvertire dove c’è una sorgente, dove si trova l’ acqua, dove scorre l’energia. Non per forza è manifesta, non per forza è dove tutti la cercano o si aspettano che sia. Anzi, magari si trova in qualcosa di storto, al margine di un sentiero meno battuto. O molto in alto, o molto in profondità. Il poeta segue questa pista fatta di niente, una vibrazione, una frequenza muove il suo bastoncino, gli fa mettere un piede davanti all’altro anche se non conosce la strada. E mentre segue in sentiero, lo canta e lo scrive con la voce.
L’immagine che porto con me nei laboratori per bambini e ragazzi, ma anche in quelli per adulti, è questa ricerca del luogo in cui si trova la sorgente delle nostre parole. Sempre Candiani, nel suo bel libro “Ma dove sono le parole?” traduce e riprende una poesia di Rumi che parla di un’intelligenza particolare, un quaderno già completo e custodito dentro di noi, una sorgente sempre in movimento che da dentro di noi va verso l’esterno. Ecco, forse le parole stanno in questo luogo profondo che ci mette in comunicazione con il mondo, l’universo, gli altri, che siano uomini, animali, piante, stelle. Nei laboratori, in modo avventuroso, giocoso e serio insieme, proviamo a fare insieme la strada verso la nostra sorgente fino ad aprire quel quaderno e toccare almeno una parola.
Esiste per te una “letteratura per l’infanzia”? Se sì, come la definiresti?
Dovrebbe essere letteratura e basta, come scrive Maria Teresa Andruetto, senza aggettivi.
Credo che uno dei tuoi libri più conosciuti e amati sia “Poesie della notte, del giorno, di ogni cosa intorno”, che nei giorni della Fiera del Libro per ragazzi era a Bologna praticamente introvabile nelle librerie. C’è una poesia di questa raccolta che ti è particolarmente cara? Quale?
Dato che parliamo di poesia, forse questo testo con cui ho provato a rispondere alle domande dei bambini. Spesso mi chiedono “Che succede? che emozione provi? come fai?”. Così, nel cercare di rispondere, è arrivata questa poesia. Quando scrivo, scrivo dopo un momento di ascolto profondo. Non è mai a comando, non è quasi mai in reazione a qualcosa ma è qualcosa che accade, una parola o un movimento che mi visita e mi sveglia. Ho provato a dirlo così, una catena di trasformazioni animali, un piccolo vortice nel quale cado anch’io, fino all’ultimo momento, quando mi sembra di risalire, staccarmi, vedere quello che ho scritto, come da lontano.
Quando scrivo una poesia
mi godo tutto il sole come un ramarro
sopra al sasso, un attimo
e sto all’erta – gatto nel buio
dietro al topo, pesce nell’acqua
che scatta di lato. Soltanto dopo
somiglio al gabbiano, fermo nell’aria,
un puntino lontano.
Come è nato il progetto di mostra “Sulla punta delle cose. Dieci passi nella scrittura di Silvia Vecchini. Una mostra di risvegli poetici”? I rimandi che si possono cogliere nelle scelte di oggetti e parole che tu e Silvia Rubechi avete composto per la mostra sono tantissimi: dai sassi di Pollicino che ci aiutano a non smarrirci nell’immensità dell’indicibile ma ci fanno scorta di parole per tracciare possibili sentieri, ai libri che richiamano Maria Lai, la cucitura della parola al mondo per non perdere le radici del senso nella vita. Vuoi raccontarmi qualcosa del vostro percorso creativo? Quali sono i maestri e le maestre di cui seguite le tracce con il vostro lavoro?
Il nostro incontro risale ormai a otto anni fa. Silvia Rubechi aveva letto le mie poesie e mi invitò a tenere un laboratorio per la sua bellissima associazione Libri Fatti A Mano. Anni dopo mi chiese di mettere al centro di una piccola mostra la mia scrittura chiamando a raccolta illustratori e illustratrici che avevano lavorato sulle mie parole e lì mi accorsi di quanto conoscesse a fondo il mio lavoro e quanta attenzione ci fosse nell’accoglierlo. Così, quando la biblioteca Casa Piani mi ha chiesto una mostra per bambini, ragazzi e adulti sulla mia scrittura ho subito pensato che lei sarebbe stata perfetta per “tradurre” alcuni dei temi che mi stanno più a cuore in un percorso leggibile da tutti e non schiacciato soltanto sulla dimensione del libro. Ci siamo confrontate e abbiamo progettato insieme il senso della mostra sintetizzato in dieci postazioni più una, tutte ispirate a una piccola definizione della poesia. Volevo che fosse una mostra di risvegli poetici e che portasse in scena piccole sorprese, oggetti e metafore prima ancora dei libri e della parola scritta. Silvia ha una grande sensibilità e ci unisce l’amore per i particolari. Condividiamo lettere e ispirazioni. Mi viene da dire che i maestri che Silvia ha seguito per allestire la mostra sono questi: la natura (che le ha indicato la via del dettaglio e dell’armonia per scegliere con cura ogni elemento), il ricamo (per l’arte di tenere insieme con precisione le tante suggestioni che le avevo offerto ma necessitavano di una tessitura capace) e le cose antiche come i legni recuperati da vecchie porte e finestre che sono diventati i nostri tavoli (che suggeriscono che gli oggetti passati di mano in mano, come le parole, si consumano ma un occhio attento è capace di dare loro nuova vita). Infine, entrambe abbiamo sempre tenuto nella mente e nel cuore i bambini e le bambine. Volevamo che incontrassero con piacere e curiosità la poesia e la scrittura, che vi facessero un po’ la tana, come dentro la tenda montata in sala. Per tutti gli altri, i ragazzi, le ragazze, gli adulti che avrebbero visitato la mostra, abbiamo pensato tanti indizi, segnalibri, testi, immagini, rimandi che avrebbero allargato le maglie in un abbraccio più grande. Perché ho capito che quello che a me piace fare è condividere il piacere di scrivere. È stato come allestire un tavolo per un laboratorio, come quelli che mi piace far trovare quando scrivo con un gruppo. Ecco, nella nostra mostra il tavolo era grande quanto la sala, un tavolo comune fatto di tante postazioni in cui ciascuno poteva sedersi, sostare, leggere, scrivere, prendere un verso o un’idea in prestito.
C’è un verso solo, come un piccolo invito, che ci vuoi lasciare per concludere questa piccola intervista?
Come un piccolo invito, sì. Allora questi due versi di Mascha Kaléko: “Scaccia la paura/ e la paura della paura”.
Silvia Vecchini
Poesia della notte, del giorno e di ogni cosa intorno
Topipittori, 2014.
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