Il pensiero emotivo di Carlo Giacobbi | Nota di lettura su Ricostruzione delle favole di Fernando Della Posta (peQuod, 2022)
Ci sembra di poter affrontare il commento dell’opera di Della Posta utilizzando le forme elementari che Northrop Frye (1912-1991) rinviene nell’arte verbale e di cui lo stesso autore dà conto in <<Anatomia della critica>> (1957).
Tali forme elementari vengono denominate da Frye con il termine di <<archetipi>> (di derivazione Junghiana) e si sostanziano nel rituale, nel mito e nel folclore.
Già il sintagma <<favole>>, di cui al titolo dell’opera in epigrafe, è elemento paratestuale indicativo d’una diegesi fantastica, leggendaria o, appunto, mitica, capace di evocare quel retroterra di ambienti rurali, culture locali, e immaginari folcloristico-popolari da cui le favole traggono origine.
Nell’intentio dell’Autore, la fabula, per come sopra intesa, dev’essere ri-costruita, o forse re-introdotta nel tessuto sociale al fine di meglio comprendere fenomeni umani (religiosità, superstizione, visioni della vita) non riducibili alla conoscenza logico-scientifica.
La riflessione dell’antropologo De Martino, posta in esergo alla silloge [<<(…) la presa di coscienza che l’uomo non è riducibile ad oggetto fra oggetti (…) costituisc[e] un salutare esercizio in un’epoca come la nostra>>] sostiene il tema del corpus testuale cioè – sempre stando a Frye – <<l’idea o il pensiero poetico>> di Della Posta.
Detto pensiero poetico si fonda sull’esigenza di evitare che l’uomo sia reificato; il poeta, dunque, avverte la necessità di tornare a comunicare con un passato che – nel bene e nel male – interpretava il mondo in chiave animistica, mitica, o se vogliamo epifanica (p. 13, <<Quei luoghi di apparizioni terribili / e dolci>>) o sacrale <<olio santo>> (p. 13 cit.).
La stessa figura retorica dominante nell’opera, id est la prosopopea o personificazione, è funzionale a ri-animare il mondo, a riconoscergli appunto un’anima, un quid vivificante.
Le cose del mondo, per Della Posta, agiscono: p. 21, <<Fanno chiasso i girasoli>>; p. 22, <<Il cielo fa l’acrobata sulle grondaie / e a salti e capriole fra nuvole e case / cerca di riavere un pubblico suo>>.
Si noti, in tale ultima locuzione versale di p. 22 cit., come il movimento del cielo sia felicemente restituito dal poeta mediante la tecnica dell’enumerazione per polisindeto.
Per dirla con Francis Ponge (1899-1988), l’Autore prende partito sugli oggetti, in relazione ai quali fissa il suo sguardo appassionato e li scorge nel loro dinamismo (p. 24, <<Autunno pio fraticello snocciola / i colori dell’arcobaleno>>) nonché nel loro sfarsi o vanire (p. 24 cit., <<Poi sfuma tutto in filamenti di nebbia, / come fumo di officine industriose. / Sparisce infine in un cantuccio di neve (…)>>.
L’opera si articola in cinque sezioni.
Nella prima sezione (Apparizioni) – anche se in generale nell’opera tutta – prevale la visione, la fanopea poundiana; i luoghi sono abitati da apocalissi che, simul, rivelano il terribile e il sublime; l’umano è rapito da quel thauma (angoscia e meraviglia) che è alla base di ogni novella e straordinaria esperienza di senso.
Il dettato riflette l’alterazione emotiva provata dall’io-lirico innanzi allo stupore (ad esempio del mare, p. 14), alterazione bene espressa attraverso quell’autoecolalia incantatoria che si manifesta nell’epizeusi quasi invocativa <<Qui il mare, il mare>> (p. 14, cit.).
Il mare diviene, nell’imagery (ancora Frye) del testo, correlativo dello stato di calma interiore e di sospensione temporale, di accettazione dei tempi fisiologici della natura, accettazione che <<smorza l’ansia di partire e di arrivare>> (ibidem).
Anche le ulteriori visioni de <<L’Olimpo (..) roccia brulla>> (p. 17), de <<l’Egeo, grembo trapuntato di rotte>> (ibidem), della <<rada nebbia di casali / sul gorgogliare delle ninfe>> (p. 20), rimandano ad una ricerca di primordialità mitica o fabulosa, ad una volontà di ritorno alle origini, alle radici dell’essere. (Si noti a p. 22 la dimensione dell’io <<Disperso tra i mille percorsi di un volto>> contrastata dall’avversativo <<Ma approdo ad un borgo di radici>>, borgo evocativo d’un ritrovato nido o focolare domestico).
In Agonia dei ghiacciai (seconda sezione dell’opera) l’io-lirico si distacca da quella sorta di rêverie cui s’era abbandonato, per indagare le dinamiche relazionali; l’Autore principia dai <<tempi dorati>> (p. 27) dell’infanzia ove v’era <<L’illusione (…) che ogni cosa fosse / al proprio posto>> (ibidem) per giungere all’amara constatazione della difficoltà dell’uomo di riconoscere nell’altro un <<simile>> (p. 28).
V’è qui la critica a tutte le forme di discriminazione del diverso, del non allineato, del non riconosciuto come facente parte del proprio sistema di valori (o dis-valori). Il tema torna in I paesani (p. 33) di cui Della Posta evidenzia l’atteggiamento di chiusura e superficialità nell’affrontare questioni sociali che gli stessi non vivono direttamente, dai quali sono distanti <<settemila leghe>> (p. 33 cit.) e sui quali occorrerebbe tacere o porsi seriamente in discussione cercando di comprendere.
Nella lirica Mazzamauriello (p. 29), l’Autore reintroduce il tema del mistero e del segreto già espresso nella prima sezione; un’oscura presenza, <<un altero cilindro nero / dai guanti bianchi e il manto muto (…) bussa a una soglia d’alcova>> (p. 29) in un’atmosfera crepuscolare di dissolvenza e sopore (p. 29 cit., <<All’ora in cui i colori si fanno muti / e la nebbia scialba le luci>>) il cui fascino inquieto, la cui suspense è enfatizzata dall’efficacissima allitterazione <<netti rintocchi di legno si sentono>> (p. 29 cit.) continuata nei versi successivi dai termini <<altero>> (ibidem) e <<muto>> (ibidem); con la reiterazione dell’occlusiva dentale sorda (t), l’Autore sapientemente evoca il suono duro eppure attutito del battere sul legno (o con il legno) e sembra conferire ritmo al passo del misterioso uomo della notte che da ultimo bussa <<a una soglia d’alcova>> (ibidem) e – ci piace pensare – come del resto sembrerebbe dalla successiva lirica di p. 30, condivide la sua notte d’amore con la donna <<tutta movimento e follia>> (p. 30).
L’uso dell’allitterazione, quasi con la stessa tecnica di cui s’è detto sopra, ma in <<c>> (e con aggiunta di anafora), è ripetuto da Della Posta nella lirica di p. 32, ove si legge <<c’è sempre un balcone sotto il sole / dove una bianca calla stecca / una stupida canzone; / c’è sempre una camera nerastra>>.
Segue il topic della guerra, di cui il Nostro evidenzia l’insensatezza, criticando il potere (p. 37, <<il dio della battaglia>>) che soggioga i contendenti (p. 37 cit., <<menti istupidite>>); il <<tempio>> (ibidem) che il dio della battaglia <<avrà>> (ibidem) sarà ben poca cosa a fronte di <<mani gambe e braccia mutilate>> (ibidem).
Ne Il giudizio finale (p. 39) l’Autore sembra propendere per un’interpretazione degli eventi – e della vita individuale – che rimanda ad una concezione naturalistico-veristica dell’esistenza, leggibile in termini di materialismo storico.
Il <<crogiolo in cui si mescola ogni fuoco, / dove ogni polvere si macera nell’altra, / dove tutto affoga e si trasforma>> (p. 39) evoca la <<fiumana del progresso>> di verghiana memoria ove, appunto, <<dileguansi (…) tutte le passioni>> (cfr. Prefazione ai Malavoglia); <<l’urlo del capro si confonde nella bolgia / e di nuovo accade inascoltato>> (p. 39 cit.) quasi fosse – sempre con Verga – <<mezzo necessario (…) a beneficio di tutti>>, a beneficio cioè d’un progredire (o di un regredire) pronto a sacrificare le istanze del singolo.
Per Della Posta i vari capri espiatori della Storia, coloro che innocentemente hanno scontato una pena immeritata, non verranno risarciti (p. 39 cit., <<il (…) conto non viene pareggiato>>) poiché – sembra capire – non esiste altro mondo che quello terreno.
Nella terza sezione (Un nero inverno) il poeta pone in dominante l’esigenza dell’uomo di giungere <<alla meta di un porto sicuro>> (p. 47) nonché quella di essere amorevolmente accudito (p. 47 cit., <<che qualcuno si occupasse di noi>>); esigenze, quest’ultime, frustrate dalla presa d’atto del <<miraggio di una culla benevola>> (ibidem).
Nella lirica di p. 52, I sommersi e i salvati, l’Autore sembra farsi portavoce di quella parte di umanità dimenticata (p. 52 cit., <<(…) i figli degli altri / e i figli degli altri figli>>) che è lontana dal modello borghese, quello che accudisce i propri figli (<<che crescano in salute / con le camice sempre inamidate>>, ibidem) cercando di conservarli in <<quella fortezza / che cresce indisturbata>> (ibidem), metafora d’uno spazio preservante da possibili contaminazioni.
La critica di Della Posta al sistema sociale è rinvenibile altresì nella lirica di p. 53 ove gli uomini – potremmo dire sistematizzati – vengono definiti <<dei moderni e indifferenti>> (ibidem) conformati alle <<comuni sorti e aspettative>> (ibidem) dei simili, i cui principi-guida (p. 54, <<il “si salvi chi può” e il “guarda e passa”>>) denotano quell’indifferenza per l’altro e quella stasi evolutiva che rammaricano il poeta (<<nei millenni / non è cambiato nulla>>, ibidem).
Ne esce fuori la rappresentazione d’una società in cui i singoli non sono disposti a porsi in discussione, a perdonare, a lasciar correre, pur riconoscendosi in “concorso di colpa” (p. 55, <<vediamo che la colpa dell’altro / è anche nostra ma non indulgiamo>>) sicché le relazioni non perdono il loro livello di conflittualità.
In Time-lapse, quarta sezione dell’opera, torna il tema delle <<colpe che non abbiamo affrontato>> (p. 62), nonché quello di un’asperitas esistenziale iconizzata ne <<il pan / dell’orto, [che] resta duro, scarso ed aspro>>; in tale verso il sintagma <<pan>> appare polisemico: l’Autore si riferisce al pane dell’orto (ovvero con linguaggio traslato a ciò che la terra coltivata restituisce in termini di prodotti agricoli) o al dio Pan (figura della mitologia greca legata alla vita agreste)?
Il livello contestativo, con evidente vis polemica e sarcastica, si estende anche all’intellighenzia, a <<Questa pletora di grandi alternativi / questi grandi pensatori>> (p. 66) che magari si arrogano il diritto di pontificare dall’alto per somministrare la loro pretesa verità, considerando gli altri un <<mondo di coglioni>> (ibidem). È più appagante – dice l’Autore – <<un piatto di trippa e un bicchiere di grappa>> (ibidem) che stare ad ascoltare la loro <<tesi bislacca>> (ibidem). Efficace la chiusa della lirica, mediante il verso-parola <<Prosit!>> declinato qui in senso evidentemente canzonatorio. Si noti l’uso dei deittici (<<questa pletora di grandi alternativi>>; <<questi grandi pensatori>>, ibidem) funzionale a minimizzare in termini generici ed anonimi i dotti, i sapienti cui il poeta si riferisce, a considerarli in massa e dunque senza individualità, senza volto.
Segue una riflessione sull’attività interpretativa (Ermeneusi, p. 67): <<Ogni linguaggio eviscerato è impoverito / (…) perde la sua bacca di mistero>> (ibidem). L’Autore, in termini figurali, considera l’esegesi, come estrazione delle viscere del testo, sicché il significante, esplicato o tradotto in significato andrebbe a tradire la forza espressiva del verso nell’originaria formula concepita dal suo autore. La questione non è di poco momento. E tutt’altro che accademica. Essa postula la domanda: qual è il compito del commento? Quale senso può avere – se ne ha – l’attività del critico letterario?
Chi scrive ritiene il commento, il giudizio critico, consustanziale alla lettura. Chiunque legga un testo poetico – per il solo fatto di leggerne la litera – non può fare a meno di intenderlo a suo modo, e quindi di attribuirgli una significanza. È inconcepibile leggere senza interpretare e, forse, non avrebbe alcun senso.
Già Dante evidenziava il di più di <<ragione>> che si ottiene spiegando la <<litterale sentenza>> (il senso letterale) in vista dell’acquisizione della verità allegorica nascosta sotto il <<manto di queste favole>>. A ciò si aggiunga che, la poesia contemporanea, è spesso volutamente oscura, densa di polisemie, non immediatamente apprensibile o comunicabile, di guisa che, il commento, fondato sulla lettura dell’opera intesa come sistema di relazione tra i testi, può essere utile a fornire una chiave di comprensione – certo sempre parziale ed opinabile – del corpo testuale.
La quinta sezione dell’opera, dal titolo Ricostruzione, si muove tra il salvifico di <<quell’amore che distoglie / dall’abbraccio di una nenia mortale>> (p. 77) e le ombre mentali de <<il ripetersi di ossessioni psichiche>> (p. 79). Tutto è incline all’attesa (<<s’aspetta>>, ibidem) de <<il singolo atto d’amore / che spezzi la catena dell’errore>> (ibidem); il tema dell’amore è in questa sezione centrale come pure si legge in Amore asincrono (p. 80) – dedicata A Lidia – ove si parla di <<stagioni d’amore>> (ibidem) e del <<disegno sulla bocca tanto atteso, / salvifico, mai del tutto compreso>>.
Della Posta, con Ricostruzione delle favole, ci consegna un’opera ad alta densità figurale e semantica; il linguaggio, pur utilizzando vocaboli accessibili, è fortemente connotativo, metaforico, analogico, sicché i significati dell’opera sono spesso sottesi e dunque di non immediata apprensione. Ne esce una silloge complessa (sia a livello contenutistico che formale) la decodificazione della quale esige una lettura attenta e reiterata, come si conviene alla poesia in genere e a quella contemporanea in particolare.
Fernando Della Posta, nato nel 1984 a Pontecorvo (FR) vive a Roma. Tra i tantissimi piazzamenti nei concorsi letterari nazionali ricordiamo i primi posti al Premio Bologna in Lettere del 2016, al Premio Poetika del 2017, al Premio Zeno del 2018, al Premio Antica Pyrgos del 2020 e al Premio Arcipelago Itaca del 2021. Sue piccole sillogi e recensioni ai suoi libri sono reperibili sul web sui migliori blog letterari ed è presente in diverse antologie di rilievo nazionale. Ha pubblicato diverse raccolte di poesia tra le quali, da ultimo, Voltacelo (Oedipus 2019), Sembianze della luce (Ladolfi 2020), Sillabari dal cortile (Macabor 2021).
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