Fra le pieghe del rosso di Marcello Buttazzo (Quaderni del Bardo edizioni, 2022), recensione di Annarita Nutricati
“Un effluvio di fanciulla/ m’afferra”, così Marcello Buttazzo nella recente silloge Fra le pieghe del rosso (Quaderni del Bardo edizioni) consona la lusinga cavalleresca, allitterazione dalla timbrica rinascimentale, al mordicare trappolatore dell’eros. Un permearsi fortuito e scaltrito, un irriflesso tremore e un lucido seguire “vertigine/ stratagemma”.
Non vi sono interstizi con cui ammansire le discontinuità, i vertici e i collassi e neppure anfratti segregativi,ma pieghe, levità petrose e “fianchi di pane” sul corpo dell’amata che scorrono con massiva incidenza e distensione per incalzare il transito e concitare il rosso.
“Spierò sempre tra le pieghe del rosso/ per scovare il corso del sangue/ l’ardimento temerario / il fermento delle stelle”.
Nella lirica di apertura il poeta colpeggia con onestà retrospettiva il suo pantano, la confessione più dolorosa:
“Troppo tempo / mi sono affannato/ silente/ nei porti / della rimembranza.”
Nel soverchio si cala tutta l’insopportabilità, l’impossibile rimando, il soffrire tacito che interrompe la curiosità dell’odeporico racconto.
Il topos classico del porto rifugio dai pelaghi in furia viene rovesciato perché l’eremitaggio memoriale, la stanziale àncora intormentIsce, necrotizza il redivivo, il ceppo, ancora, sano e vivente. Nulla possono la salvezza, la gioia temporanea dello scampo dinanzi a quel bisogno urgente di riprovare l’insolenza del frangente che cimenta il corpo,la sventura inflitta e voluta che si sversa sul viso a ristabilire la prepotenza dell’elemento iniziatico,il pericolo, la sinfonia contraria come in “un solenne/ battesimo di felicità“.
Prosegue
“Ma ora è tempo / del ciliegio,/ è tempo / del tuo corpo d’incanto.”
L’albero caro a Venere censisce un presente demarcativo, dionisiaco colcare di corpi stanti.
Un ulissismo maturo, da veterano perché sulla terraferma ha assorbito con gnosi esperienziale i limiti e i naufragi. Ora, e non più avanti, è obbligatorio antagonizzare, respingere ” il fissismo delle cose morte” e le resistenze autoconservative nascostamente fatali più dei demoni marosi.aizzati dalle contumelie divine.
Lo storico svizzero Jacob Burckhardt nel 1867 scrive:
“Ci piacerebbe conoscere l’onda sulla quale andiamo alla deriva nell’oceano; solo, quell’ onda siamo noi stessi”.
Buttazzo avvalora l’impermanenza alla statica, pignola imperniatura, il vagellare delle passioni al piattume andamento:
“Meglio molto meglio / l aleatorietà degli eventi ./ Meglio la precarietà./ E tu,maga prediletta / scrivi a chiare lettere/ di indelebile inchiostro/ tutta la titubanza / del nostro domani”.
La prova accertativa dell’oscillìo si costruisce con la scrittura di cui il poeta si spodesta per insignire la donna dal “pensiero scarmigliato”.
Un mandato intimo e pubblico, pari narratrice e testimone della consunzione vitalististica dell’essere, del dicevole sgrezzarsi nell’ indeterminatezza.
Un amore che demanda e si spoglia dal convulso stato d’inazione, diaritmiche esitazioni, isolamenti, e chiede non deboli spiragli, ma aperture, paesaggi:
“Toglimi di dosso / quest’ ansia sorda/ perché io possa rivedere/ la loquacità del cielo. / Aprimi lo spazio /delle venature dell’anima/ perché le scorribande d’amore/ possano essere di porpora / come i papaveri di fine maggio”.
Riaffiorano i versi di Dino Campana:
“Come è piccolo il mondo e leggero/ nelle tue mani’.
Buttazzo in simil modo si rivolge alla “musa contemporanea” ed è immediatamente la realtà una impastatura effusiva, un tenersi assieme a dividere il peso mutando in carezza la presa delle dita:
“Tu dammi /il colore della passione/ e l’intreccio delle tue mani/ strette alle mie,/ ch’ io possa contenere / tutta la leggerezza/ del mondo”.
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