Edmond Jabès e l’invisibile di ciò che incalza, di Anna Rita Merico

 

La relazione con l’altro e la relazione con sé, la relazione con l’altro per entrare in contatto con il proprio sé.

“Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero”[1]

 

“Invisibile Auschwitz, nel suo orrore visibile.

Niente resta più da vedere che non sia stato già

visto.

Serenità del male.” [2]

 

Edmond Jabès poeta, nato al Cairo nel 1912. Ha vissuto in Egitto fino al 1957, quando espulso perché ebreo, si è trasferito a Parigi ove si è spento il 2 gennaio 1991.

L’esperienza della II Guerra Mondiale con gli eccidi nei campi di concentramento, l’esperienza dell’essere esule, la propria fine appartenenza alla cultura ebraica conduce Edmond Jabès a scrutare il luogo dell’origine in cui abita l’esperienza della possibilità di pensare. Diviene centrale riflettere sul fondamento dell’essere del pensiero. È pensiero dell’essere in relazione. È pensiero che smobilita la possibilità della filosofia così come l’abbiamo conosciuta. È l’erranza, luogo per antonomasia antitetico alla stabilità del sistema, a dirsi luogo possibile del pensare. L’articolata meditazione jabèsiana sconfina nella dimensione poetica al fine di potersi esprimere tirando a sé sapienze esistenziali ed espressive.

È Canto che torna.

Rimettere l’essere nella possibilità di pensare, di pensar-si. Il tema del nulla, del vuoto, della morte, dell’assenza, della parola, del sogno, del luogo, di Dio tessono -nel segno della fragilità- la ricerca di una frase che possa divenire, di nuovo, testo. Di che natura è il testo? Testo che passa da destrutturazione della risposta, sicuramente. Dopo gli orrori cui l’umanità ha assistito come si ri-fonda il Libro, l’atto del pensare, il senso del vergare la pagina con la parola? Centralità della responsabilità interrogante.

“Ad ogni vita la sua vocale, la sua velatura; alla morte, le sue consonanti coesive”[3]

Dio è sceso nella dimensione della prossimità, è pertanto possibile, ora, rimettere la domanda al centro dell’interrogazione. La distruzione è stata talmente potente che, anche Lui, è chiamato a rendere conto dei propri errori, delle proprie mancanze. L’ambizione fallita di essere-divenire Verbo pone la parola in scacco, rende lo scambio con il divino imperfetto ma… e se fosse stato il Verbo a non essere riuscito ad essere Dio?

“Sai perché i nostri libri di sapienza, così come quelli di preghiere –chiese il Maestro al suo discepolo- sono di piccolo formato?

-Perché sono libri del segreto, e un segreto non si divulga.

<Il libro dei nostri Maestri ha la dimensione delle nostre mani, aperte solo per noi>.[4]

Esplode la sostanza della memoria la quale rivendica la possibilità del luogo. Lo straniero sdoppia, l’esilio esilia. Siamo collocati un attimo prima che il mondo e l’essere siano nella loro pienezza. È la lallazione sacra della parola che s’agglutina. Il libro potrebbe essere –però- anche sigillato chiudendo ogni possibilità di mostrare il segreto. Nel paesaggio del non luogo avanza lo Straniero, il suo incedere mostra i tratti dell’indicibilità, dell’indecifrabilità, dell’inafferrabilità. Di Lui è dicibile il margine collocato nei margini di un libro inesauribile. Lo Straniero incede verso ognuno, dall’interno ma, anche, dall’esterno. È incontro vissuto capace di mostrare il nuovo dentro a partire da un nuovo fuori. Nuovo è straniero. Lo straniero è pensato e nominato nella Sua dimensione fisica e metafisica. Infinito, memoria, sorriso, ferita, paura, diffidenza, lentezza: quali le dimensioni dell’essere dello Straniero?

Sicuramente è l’indecifrabile eppure, non è la maschera il Suo habitus. Al centro di crocicchi antichi, regni dell’opposizione Egli sosta come un Mercurio uroborico che tutto racchiude pur sfuggendo. In Lui è lo sfuggire, il sottrarsi pur nella pienezza dell’essere. È lo sfuggire, il sottrarsi che lo colloca ai margini. Nello Straniero vorticano le dimensioni del vicino-lontano, del presente-assente, del movimento-stasi. È soggetto fondante il libro affamato di Vita, libro sempre incompiuto, libro sempre pronto all’apertura ontologica e al cammino. Libro direttamente discendente dalle antiche Tavole in pietra dell’Ararat. Eppure Libro in grado di indicare inizio e fine all’interno del transito del linguaggio, del tempo, della scrittura.

“Amava anche ripetere che essendo lui il passato e il futuro di una pagina di scrittura non rivendicata fin qui da nessuno, firmandola con il suo nome, la salvava dall’anonimato nella quale essa soffocava.”[5]

Nel libro l’abisso dell’origine. Nel libro l’abisso della fine. Il vuoto e il niente avvoltolati nel linguaggio che mostra e nasconde, linguaggio che stana da cellule archetipe l’esistenza fuori dal tempo del corpo alla ricerca di carne e sangue che lo dica. Chi dice è la scrittura. La scrittura impila il Libro donando salvezza, provvisoria salvezza e tensione alla stranierità come dimensione che può essere letta, oggi, come universale perché legata all’affermazione di sé, dimensione ontologica. Nel libro la tessitura d’ogni interrogazione, la presenza d’ogni innocente affermazione di sé. Lo Straniero scinde, sdoppia eppure scissione e sdoppiamento avevano avuto, nella storia del pensiero occidentale, a che fare con il negativo: Jabés immette nella sua ricerca la dimensione del doppio e della scissione come dati di individuazione del sé e del trovarsi. Opera, pertanto, un cambiamento che entra nell’ordine ontologico, un mutamento che s’incista nella struttura dell’essere giuntoci dalla filosofia moderna.

Lo straniero: un saggio.

Lo straniero sa discorrere della propria differenza riconoscendo legame e tensione all’essere. Dello straniero è il pensiero ossia la tensione alla consapevolezza dell’infinito nutrito di silenzio, di perdita, di gioco sacro. Luogo dello Straniero è la pagina su cui si scrive la mai raggiunta completezza dell’origine e sull’origine. L’origine mai completamente indagata determina ciò che sfugge: l’appartenenza. Senso della mancanza e spaesamento divengono dimensioni dell’ubiquità continua, ubiquità di un essere-non essere nel luogo che il deserto sintetizza e mostra nella sua essenza viva di traccia possibile ma, anche, subito cancellabile dal vento.

Nella ricerca jabèsiana il deserto diviene luogo centrale d’indagine. Nel deserto l’uomo è consegnato a se stesso dinanzi e dentro allo svanire di Dio. È svanire che lascia nell’indomito del nome, del niente. È nello svanire delle possibilità di immagine dell’uomo che si delinea l’immagine in cui Dio si riconobbe. In quel nulla avvenne il canto d’essere d’una vocale. Immagine nell’immagine, dune che si uniscono per spartirsi nel dopo di una inaccessibilità della forma che dilegua pur senza morire, dolore fondo dell’abrasato che genera assenza del volto. È volto che mostra un mondo assassinato, un mondo il cui sostentamento è il vuoto abissale. Emerge, non nominata, la potenza del senso luciferino (perché opposto alla possibilità della nominazione di Dio) dei campi di sterminio. Esperienza che ha consentito all’umanità del ‘900 di avere piena  contezza della relazione tra visibile ed invisibile. Ciò che si è visto e ciò che è rimasto sotteso è esperienza profonda di pensiero sul senso dell’orizzonte dell’umanità e sulla sua possibilità di essere, ancora.

La scrittura jabèsiana lascia ineliminabile analisi di quanto accaduto nei campi di concentramento dal punto di vista dell’analisi ontologica. Di cosa abbia significato la cancellazione del volto dell’ebreo ossia, dello storico fondante la divinità monoteista in occidente. È pensiero carico di orizzonte. È pensiero inframezzato di sguardo sul quotidiano, un quotidiano in cui trascendenza e immanenza incrociano fili: Jabès si esprime in termini di prodigiosa realtà. La città rinnegata è la città ove non è possibile riconoscersi perché è la città in cui è avvenuta la devastazione dell’essere.

Lo Straniero è condizione di una zona precisa d’umanità che fonda la propria esistenza sulla differenza. È differenza in grado di portare luce nella notte dell’umanità stessa, è riconoscimento della volontà di uscire da un’omologazione che piaga le infinite possibilità dell’essere stesso e della parola. Il testo jabèsiano è infinita variazione e ancor più infinito pensiero sulla fondazione di una soggettività la cui genesi, come in un antico rito mediterraneo, è generato da un’uccisione che fonda. È fondazione di città, è fondazione di essere altro. Straniero è il nuovo in cui siamo.

Nel Libro di piccolo formato lo straniero ha assiepato, per tutti noi, preghiera e rito di fondazione.

“La domanda che ti rivolgo non è: <Chi sei?>, ma: <Cosa mi porti?>”[6]

Lo straniero porta una chiamata alla parola forgiata e vergata nella differenza, nell’alterità. La parola deve poter, ancora, ri-significare. La parola ri-mostra, tra le macerie, la propria potenza creatrice. Essa patteggia con il vuoto abitato da Dio nell’attimo dopo in cui Dio era stato nella vertigine della sparizione. La parola deve saper dire lo sprofondamento nel silenzio e il superamento del proprio stesso pensiero verso una rifondazione del pensiero che indichi possibilità di silenzio che slarga la percezione e nutra una forma nuova quella che si nutre di accesso all’origine. La relazione tra storia e pensiero emerge dal farsi della pagina. Il metodo d’indagine di Jabés ruota intorno alla pagina interrogante la scrittura. La scrittura si spezza colando nella poesia, sperimentando un proprio grado zero da cui far rialzare un sentire che è un’interrogazione  originaria.

“<Il libro dell’uomo è libro del male>, aveva detto.

E se il libro del male altro non fosse che il male del libro?

Il libro del male, forse, non è che un libro che soffre in attesa.

Non vi sono sogni, né cieli compiuti. Frammenti.

Luoghi scritti…

Diceva: <Il pensiero scopre. L’uomo apprende: La parola sa>.

Sorto dal niente, il pensiero illumina.”[7]

La possibilità di essere e divenire Straniero non è data come scontata. È condizione legata alla capacità di affermarsi. È condizione che ci riguarda. È dinamica che dice di un antico processo e percorso di   umanizzazione nel quale è stato ritenuto “straniero”, “esiliabile”, “colpevole” l’ergersi nella differenza (la sovversione) dell’individualità in relazione. È da legare ciò all’essere ebreo o ad una condizione di razzismo interiore presupposto della fine dell’uomo?

“…Abbiamo fatto dell’infinito lo spazio di questo libro, il libro infinito delle nostre interrogazioni…”[8]

 

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[1] Edmond Jabès: Uno straniero con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato; a cura di Alberto Folin, ed SE srl 1991 Milano, pg. 11

[2] ivi pg 15

[3] ivi pg 14

[4] Ivi pg19

[5] Ivi pg. 23

[6] ivi pg 15

[7] ivi pg 28

[8] ivi pg 24