Circles di Virginia Farina | Il vuoto ha pareti sottili: dialogo con Giulia Berra
Le parole mi mancano
Il vuoto ha pareti sottili è il titolo della raccolta di poesie che hai recentemente pubblicato e che nasce come sedimento di anni di lavoro come arteterapeuta. Leggendolo ho avuto la sensazione che tu ti sia fatta carta per permettere alle vite degli altri di trascriversi: una carta aperta, ma non bianca, che assorbe e lascia emergere, che ora decifra e ora riflette ciò che l’ha impressionata. La tua scrittura, infatti, si compone nell’incontro con l’altro, e si fa custode di una memoria rielaborata nella tua intimità, come in un movimento di ritorno al silenzio dopo l’apertura e l’accoglienza. La tua posizione di ascolto somiglia per me a un osservatorio molto speciale, perché credo che il tuo lavoro di arteterapia ti permetta di assumere una posizione privilegiata di conoscenza e di visione dell’altro: puoi rimanere in contatto con il suo dolore e le sue risorse, ma con la protezione di quelle pareti sottili del vuoto che delimitano il campo del tu e dell’io. È davvero così? Vuoi raccontarci qualcosa di questo percorso di nascita e gestazione del libro?
Ciao Virginia grazie di questa lettura così attenta e sensibile. Penso che un libro che viene letto è come fosse scritto due volte perché nella scrittura e nella lettura ci si incontra in uno spazio speciale, intimo, proprio come avviene nella terapia. Per me le due cose non possono che andare insieme. Nell’ascolto dell’altro si diventa una carta porosa, si impara a fare spazio dentro affinché si possa comprendere, con più accuratezza, parte del mondo della persona che stiamo incontrando.
Ogni viaggio terapeutico è una relazione e il terapeuta è tutt’altro che uno spazio neutro ma è un essere umano con la sua storia, il suo bagaglio di immagini e sensazioni. Ciò che è importante è che il terapeuta conosca le proprie coordinate e sia capace di distinguere le sue emozioni da quelle della persona che accoglie, che abbia conoscenza di quali sono i propri confini e le sue stanze, per valorizzare i contenuti che la persona porta nel viaggio.
Un terapeuta accompagna e nella scrittura quello che mi accade è di comprendere dove mi trovo, quali sono le immagini che mi riguardano e quelle invece che sono proprie delle persone di cui mi prendo cura.
La scrittura nel suo atto di ordinare, dare nome ai vissuti più impalpabili, mi aiuta a fare luce a ciò che in seduta viene evocato. Nell’arteterapia solitamente i terapeuti utilizzano le immagini per fare questo; fanno un’opera alla fine della seduta per comprendere i livelli transferali e controtransfensferali che si instaurano nella relazione terapeutica. Per me la scrittura avviene dopo l’immagine, credo di utilizzarla come una bussola, forse per necessità di nominare il luogo in cui mi trovo e quello in cui penso si trovi la persona che ho di fronte.
È come un ritratto; ogni volta che un autore ritrae una persona, in quel disegno non c’è la persona ma l’incontro tra i due. Il ritratto è un luogo in cui si sta insieme come la scrittura che abbraccia uno spazio in cui è possibile abitare in due.
La prima parte della tua raccolta è dedicata alla parola, una parola che è vasta e complessa come un territorio che chiede di essere nominato per intero, con i suoi alti e i suoi bassi, con i suoi momenti oscuri e quelli pieni di luce. La parola che ci chiedi di osservare è quella capace di cucire e di tagliare, di uccidere e di dare la vita, di conservare e al tempo stesso di distruggere. Credo che l’atto stesso di dare un nome alle cose che stanno dentro e intorno a noi, significhi a volte mettere al mondo qualcosa che prima non c’era, e altre volte chiudere in una morsa stretta quello che proviamo, sezionandolo e costringendolo a una sola definizione.
Qual è per te il limite tra queste modalità della parola? Che ruolo gioca in esso la poesia?
Inizierei a risponderti partendo dal silenzio. Nel mio lavoro come arteterapeuta vivo spesso la dimensione del silenzio. Quando una persona traccia un segno su un foglio sta già raccontando una storia: il peso della matita sulla carta, le linee, lo spazio occupato, quello rimasto vuoto. Ci sono così tanti significati nel silenzio che la parola talvolta sembra imporci una sottrazione più che un aggiunta di peso e di valore. Penso anche alle persone con cui lavoro che non parlano e che attraverso il corpo, lo sguardo, il movimento comunicano in modi estremamente significativi. Dunque non penso che la parola sia più importante della non parola, anzi talvolta la parola allontana dal cuore delle cose, ci porta in una dimensione intellettuale e mentale che ritengo separi più che avvicinare.
La poesia è a mio parere più vicina al dipingere che al narrare. Se dovessi collocarla in un luogo direi che vive tra la scultura e la musica; con la prima condivide il sottrarre, lo scavo fino a nominare solo il necessario, con la seconda il ritmo e il suono. Penso che la poesia sia la scrittura meno mentale che esista, è più vicino a un gesto che a un pensiero, ed è per questo che può essere ascoltata e non compresa, possiamo godere del suo ritmo intuirne le intenzioni, oppure può arrivarci come immagine minima, in modo che ognuno di noi possa sentirla simile alla propria sensibilità e se lo desidera, farla sua.
Nella piccola sezione dedicata a Tiresia ti interroghi e ci interroghi sull’atto del guardare, sul modo con cui attraverso gli occhi ci appropriamo a volte del reale. Qui la possibilità di chiudere gli occhi diventa quasi una modalità nuova, forse più profonda, del vedere. Per te che lavori tanto con l’arte visiva questa riflessione sulla vista ha certamente un peso importante. Che rapporto ha per te lo sguardo con le relazioni e con il conoscere?
Che bella questa domanda! Per me la vista anche data la mia professione, è uno degli aspetti sensoriali che frequento di più, ma riconosco anche i suoi aspetti contraddittori; cerco di osservare il mio sguardo con le inevitabili contraddizioni di cui è portatore.
Se ci fidiamo solo della vista, possiamo dare per scontato che ciò che vediamo sia reale. È importante secondo me conoscere a fondo il proprio sguardo con tutti i limiti, i pregiudizi e le visioni di cui è portatore e pensare che ciò che vediamo è inevitabilmente filtrato da ciò che pensiamo di sapere.
Ogni volta che osservo una immagine cerco di comportarmi come se fossi di fronte a un mondo sconosciuto con tutto il rispetto e lo stupore che posso portare verso qualcosa che non conosco. Lo stesso vale per una persona che alla pari di un’opera d’arte, possiamo incontrare come qualcuno di misterioso con tutto il fascino e la paura che proviamo verso l’ignoto.
Ciò che vedo è ciò che il mio filtro e la mia lente mi consentono di osservare ed è molto meno di ciò che possiamo conoscere. In questo senso la possibilità di incontrarsi e di mettere insieme i propri sguardi è l’atto umano più arricchente ed evolutivo che possiamo praticare.
Ritengo che solo accettando che ciò che vediamo sia un punto piccolo all’interno della conoscenza, possiamo stare con gli altri con la curiosità di vedere anche con i loro occhi. Possiamo guardare in profondità e non solo vedere. Possiamo altresì iniziare a frequentare gli altri sensi, così poco conosciuti da noi occidentali e sentire che si può conoscere anche con il tatto, l’olfatto, l’udito e il gusto. Ritengo che il nostro modo di imparare sarebbe esattamente più ricco se facessimo esperienza di tutti gli strumenti che abbiamo.
Tiresia a mio parere è un personaggio molto interessante; punito dagli Dei e reso cieco, sviluppa una visione interiore, non giudicante. Tiresia come uomo anziano, non è interessato a cosa è giusto, ha compreso la parzialità e talvolta l’inutilità della vista, specie se è usata come strumento di controllo.
Il modo in cui siamo visti dagli altri penso sia esattamente importante per la costruzione della nostra identità e uno sguardo amorevole o uno giudicante può cambiare enormemente la nostra modalità di relazione sia con noi stessi, sia con il prossimo. Quindi spero di averti risposto; benché sia molto grata di avere la possibilità di imparare attraverso lo sguardo penso ci siano tante altre strade da percorrere e credo che l’unione dei linguaggi espressivi sia una possibilità estremamente interessante soprattutto se affiancata da uno sguardo che si rivolge all’interno e chiede di comprendere ciò che non si vede.
L’ultima parte del libro disegna una mappa vasta e articolata dei nostri sentimenti e del nostro sentire, in cui definisci i punti cardinali in alcune esperienze fondamentali della nostra vita. Pur giocando sulle polarità queste esperienze si dichiarano, come i punti cardinali, possibili solo in relazione le une alle altre. Non può esistere un Sud senza un Nord e viceversa. Com’è nata quest’idea? Come integrare nella nostra esperienza queste coordinate per percepirci come un intero?
L’idea di dare delle coordinate spaziali al mondo delle emozioni nasce da una riflessione.
Al posto della domanda “come stai?” sarebbe interessante chiedere “dove sei?” Ovvero in quale luogo dei tuoi luoghi ti trovi?
Penso che dialogare con il nostro mondo interno in termini spaziali, ci permette di immaginarci come contenitori di luoghi; abbiamo stanze dentro di noi che attraversiamo insieme agli eventi della nostra vita.
Capita di trovarsi in stanze fredde come quelle descritte nella sezione “Nord” in cui parlo della solitudine e dell’ospedalizzazione, oppure di vivere emozioni intense come quelle descritte nella sezione “Sud” che parla del trauma e della difficoltà nel nominarlo.
L’importante è tenere presente che tutta la nostra esperienza è in costante movimento e questi luoghi, anche se faticosi, possono essere passaggi transitori.
Ritengo non dobbiamo pensarci come abitanti permanenti in una delle coordinate, ma appunto come viaggiatori che sono predisposti a fare esperienza e trasformarsi proprio grazie ad essa.
La poesia che tu ci offri, anche nelle presentazioni che stai facendo del libro nel tuo Atelier Sospeso, è un luogo aperto e abitabile, uno spazio di comunità e comunione che diventa la condizione di una reale comunicazione. Credi che la poesia possa davvero farsi un luogo comune senza banalizzarsi? Come si possono provocare processi poetici condivisi?
Tengo molto all’aspetto comunitario e credo che l’arte sia un veicolo molto potente di incontro tra le persone. Basti pensare a come ci emozioniamo guardando un film o un’opera esposta in un museo o come possiamo immergerci nella lettura di un libro e sentire che quell’ora un po’ ci appartiene. La potenza dell’arte sta proprio in questa possibilità di farsi specchio interiore. Tramite un autore, talvolta vissuto molti anni prima di noi, sentiamo che le emozioni che proviamo e i pensieri rimasti muti, possono avere una forma e un nome. Attraverso un’opera ci sentiamo meno soli perché qualcuno ha dato corpo a qualcosa che sembra appartenere anche al nostro vissuto.
La poesia per sua natura nasce anche come linguaggio orale, viene letta e può esserci letta proprio come quando ci sono state raccontate delle storie e forse anche senza capirne il senso capivamo l’intenzione di quella voce che ci accompagnava nel sonno. La poesia a mio avviso assolve alla stessa funzione, ci traghetta in mondi in cui possiamo ascoltarci, è un ponte tra il reale e il simbolico proprio come sono le storie che vengono narrate da secoli all’interno delle comunità. Se pensiamo a una comunità come a un contenitore simbolico la poesia è uno strumento estremamente popolare, che è stato negli anni relegato a una nicchia ristretta di intellettuali la quale ha allontanato le persone dal praticarla. Basti pensare che nelle librerie la sezione dedicata alla poesia è quasi inesistente e se chiediamo ai più cosa ne pensano la risposta è “non la capisco” oppure “mi annoia” Credo che questo sia il risultato di una pedagogia molto sbagliata verso la poesia che ci porta sin da bambini a pensare che siano versi metrici da imparare a memoria. Con questo non voglio svalutare la tecnica. Ritengo sia molto importante comprendere la metrica e le regole della scrittura. Ma credo sia ancora più importante coltivare il sentire e l’espressione simbolica come strumento di tutti che se praticato può essere un linguaggio molto utile a una comunità per sentirsi più integrata e anche ai singoli per conoscersi meglio.
In ultimo credo che fare poesia sia possibile se si riesce ad osservare il quotidiano con maggiore cura. È lo sguardo che rende poetico ciò che si racconta e coltivare questa tensione all’osservazione poetica credo sia di grande aiuto per tutti. Basti pensare a come possono cambiare le strade, i quartieri ma anche solo il nostro rapporto con il vicinato, se pratichiamo gesti simbolici che valorizzano la nostra e l’altrui presenza. Coltivare le relazioni è poetico poiché ci porta a fare uno sforzo verso l’altro e quindi verso di noi in una direzione che non sempre ci è nota e sembra assomigliare a quel buio in cui ci accompagnano le storie narrate.
Dalla lettura del tuo libro emerge una relazione speciale tra poesia e cura, una relazione che permette la scoperta di quegli aspetti inimmaginati di noi che spesso emergono durante un processo terapeutico: io è un altro diceva Rimbaud, ma allora di chi è la voce che in noi canta?
Io è l’altro e penso sia vero anche il contrario ovvero l’altro sono io. In ogni incontro facciamo l’esperienza dell’alterità, soprattutto della nostra e questo è il dono delle relazioni in cui specchiandoci attraverso l’altro impariamo moltissimo di noi stessi.
Dentro di noi convivono tanti aspetti interiori, tanti sé e anche molte maschere.
Possiamo immaginare il nostro mondo interno un grande rumoroso teatro in cui è in corso un perenne concerto composto da strumenti in accordo, altri in dissonanza. La voce che canta è quella a cui diamo maggior spazio sul palcoscenico e quando siamo più nudi a noi stessi, è quella più profonda e più intima.
Penso sia interessante conoscere quale voce pratichiamo con maggiore attitudine e quale arriva solitamente agli altri. In questo senso le relazioni come specchio umano sono un’occasione per fare esperienza della propria alterità.
Penso che la ricerca dell’altro non possa che andare insieme alla ricerca di sé, anzi penso che ogni incontro e ogni esperienza di relazione siano occasioni per capire qualcosa di più del nostro teatro. Io e l’altro non possiamo che essere vicini come due stanze che senza nemmeno saperlo si sfiorano.
Un ultima domanda, credo che al cuore della poesia ci sia una visione, sacra, profonda, quasi indicibile, della vita: come custodirla, come coltivarla o almeno come non disturbarla nei processi di crescita dei bambini ma anche di noi grandi?
Credo, ma forse mi sbaglio, che tu stia indicando una parte sacra, quasi invisibile della poesia che consiste in uno sguardo intimo che si posa sulle cose. Questo sguardo che è simile a quello che hanno i bambini per i quali il presente è un’occasione di continua meraviglia.
Al contrario di noi che siamo spesso nel passato e nel futuro, i bambini vivono con grande pienezza il loro presente; questo non sempre significa che provino gioia, ma danno peso ad aspetti che nel mondo adulto sono scontati, talvolta invisibili. Imparo moltissimo dai bambini perché la loro presenza mi richiede di stare esattamente dove sono, di smettere di andare altrove con il pensiero.
Inoltre finché non vengono educati dalle istituzioni, la loro conoscenza deriva dall’esperienza diretta che fanno attraverso il corpo.
Mi ritengo molto fortunata perché come terapeuta ho la possibilità di stare con i bambini e questo mi permette di frequentare piuttosto assiduamente, una parte bambina dentro di me, che mi consente di ricordarmi chi ero. Io mi ricordo quanto era tutto prezioso: un disegno, un amico, il saluto di un genitore, un suo ritardo a scuola, un gioco fatto insieme agli altri. I bambini giocano molto seriamente perché danno valore a quasi tutto quello che accade. Ciò è esattamente quello che avviene in una scrittura poetica. Un’esperienza apparentemente invisibile assume un significato profondo.
I bambini lo fanno di continuo: cercano di nominare il mondo che li circonda e quando non hanno parole le inventano. Qualche anno fa avevo iniziato a segnarmi le parole inventate dai bambini perché ero molto ammirata dalla loro capacità di trovare nuovi termini per indicare qualcosa. Mi hanno ricordato come mi sento in un Paese in cui non si parla la mia lingua e quale forza ha la propria vulnerabilità quando viene messa a servizio della creatività.
Ecco forse ho capito cosa risponderti, per coltivare questa capacità che hanno i bambini, occorre frequentare la propria vulnerabilità il più possibile e non averne paura. Solo attraverso la vulnerabilità possiamo conoscerci davvero, prendere per mano i bambini che siamo stati e giocare attraverso di loro con il mondo in cui siamo.
Io credo di giocare molto con ciò che mi accade e sono consapevole della serietà e dell’importanza di questa occasione. Penso che sia grazie all’incontro tra la serietà e una dose di sana incoscienza che mi permetto di creare. Anche questo libro come ogni progetto che ho svolto e che svolgo nasce come un gioco; alla base c’è sempre una intuizione come quella di un bambino “mi piacerebbe fosse così”
Anche in questo momento in questa intervista mi diverto, sento di giocare con te anche se lontane nel tempo e nello spazio e ti ringrazio molto perché scrivendo di me mi conosco meglio e mi ricordo alcune stanze che altrimenti avrei lasciato socchiuse.
Giulia Berra
Il vuoto ha pareti sottili
Argentodorato, 2022.
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