A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Il tuono laggiù è un dono della terra: alcune domande a Franco Castellani a proposito della sua raccolta Silenzio armato (Marco Saya edizioni, 2022) e quattro poesie
1) Nel tuo libro alcune parole assumono un forte valore simbolico. La parola «mani», per esempio, che ricorre ben sedici volte. Nella prefazione Paolo Maccari, tra le altre notazioni, scrive che le mani sono «fonte di comunicazione, di espressione: ma quella stretta, quel simbolo di unione, sono diventati impossibili..»
Nonostante la domanda sia molto imbarazzante per me, allo stesso tempo mi consente di chiarire il motivo del ricorso così frequente delle «mani». Per pudore e rispetto ai miei genitori, per evitare ogni forma di spettacolarizzazione e di pietismo, non ho mai rivelato in modo esplicito nei versi che loro erano «sordomuti». Le mani pertanto sono state per noi il mezzo di comunicazione e la lingua dei segni è stata la prima che ho imparato, quella verbale è venuta dopo. Ti ringrazio per la domanda perché mi ha fatto riflettere sulla mia reticenza. In effetti non svelare la loro condizione non permette di comprendere fino in fondo uno dei significati del libro e il peso che il ‘sordomutismo’ ha avuto sulla mia vita. È stato in qualche modo il motore primo di profondi disagi, psichici e filosofici, che sono ‘cantanti’ in Silenzio armato. I miei genitori nel frattempo sono deceduti e rivelare oggi la loro disabilità, forse, è una forma ingenua di riscatto, e di memoria.
2) Ci sono autori che rappresentano per te un modello stilistico? autori che hanno ispirato i tuoi versi?
Premetto che non conta qualche nome, ma pesa tutta la tradizione letteraria: il cosiddetto canone, sia italiano che straniero, che ho studiato a fondo per passione e per esercizio di critica letteraria. Non si finisce mai di apprendere. Spesso nei versi insorgono memorie automatiche e sono per me la testimonianza di autentica appropriazione. Sarebbe incomprensibile non nutrire la propria parola con la lezione dei grandi, e questo evita una scrittura ingenua. Dall’altra parte il rischio è di rimanere invischiati senza raggiungere e conquistare, se c’è, la propria voce. Inoltre, l’imitazione è il modo più economico per apprendere l’arte della parola e capitalizzare la lezione altrui. Notoriamente non si inventa nulla. Infatti il principio di imitazione è un concetto tradizionale e riporto le parole illuminanti di Leopardi: «è necessario grandissima imitazione dei classici, per essere insigne scrittore». Altrimenti vi sarebbe la presunzione di inventare ogni volta tutto da capo. Come dicevo prima però, vi sono dei rischi da evitare e delle accortezze da prendere. Un’imitazione troppo diretta porta al centonismo. Il modello va metabolizzato e poi «attraversato» per arrivare alla propria voce. Vale qui la celebre frase di Montale a proposito del dannunzianesimo di Gozzano: «egli fu il primo dei poeti del Novecento che riuscisse ad attraversare d’Annunzio per approdare a un territorio suo». A ben guardare però tutti i grandi poeti sono stati dei centonisti. È sufficiente un lavoro di accertamento delle fonti che la critica fa in modo abituale, per sentire l’eco nei loro versi di una intera tradizione. Riporto solo un caso eclatante a titolo di esempio. Si veda quanto abbia influito su Leopardi la canzone 50 di Petrarca in cui sono già delineate le figure mitiche, che noi sentiamo leopardiane, della «stancha vecchiarella» e dello «avaro zappador». Ma grazie alla forza stilistica e di pensiero, i versi tassellati in filigrana spariscono, diventando ‘solo’ tessuto connettivo della poesia del grande imitatore. Insomma, non si percepisce più il centonismo. Per tornare alla tua domanda, in modo non calcolato ma naturale, procedo per assimilazione e per superamento. I due estremi non sono in contraddizione. L’innovazione stilistica, lo sperimentalismo non programmatico ma di necessità, nel mio caso è orientata unicamente a trovare uno stile, un ritmo, perfettamente aderente al contenuto. Questa per me è sempre stata una grande scommessa. Comunque non posso rispondere in modo sistematico alla tua domanda e ti indico solo alcuni nomi che mi hanno colpito per qualche motivo. Questo non significa che non abbia avuto presente tutti gli altri che qui non nomino. Cavalcanti per la teatralità interiore che si ravvisa nei suoi versi, mentre Dante per me resta inimitabile. La linea Petrarca-Leopardi l’ho avuta sempre presente per la purezza dello stile. Ma anch’io come Contini «mi sento profondamente poligamo e inclinante verso l’estremo dell’espressionismo e verso l’estremo della purezza monolinguistica». Altro libro che ho sillabato con grande attenzione è stato il breve ma compattissimo canzoniere di Giovanni Della Casa, un petrarchista che è riuscito a raggiungere per consunzione del modello uno stile innovativo. Nel ricchissimo canzoniere ‘minore’ del Tasso ho trovato una fucina straordinaria di stile e sperimentazione. Per rimanere soltanto alla letteratura italiana e avvicinarsi ai tempi moderni, ho studiato a fondo Carducci, un autore assai ostico che ha molto da insegnare in termini di stile ma che allo stesso tempo è molto rischioso, dalla cui lezione bisogna stare anche molto distanti per non importare anacronismi oggi insostenibili. Concludo con Montale, del quale ho ammirato in particolare i primi libri: dagli Ossi a Xenia di Satura.
3) Ci sono parole che ricorrono a volte in maniera ossessiva, come mare, cielo, ma è la parola «notte» che, paradossalmente, illumina il percorso della raccolta con le sue quarantuno presenze, e con versi che gettano luce, come questa terzina: «La nuda verità ho cercato in fondo / alle parole per scovare un’altra / notte, e non si può».
Altra domanda assai pertinente che mi permette, anche qui, di illustrare alcuni punti, almeno per me me, significativi. In Silenzio armato ci sono diverse parole chiave, tematiche, che hanno una funzione sia di poetica che di legame, di strutturazione del libro. Per questo ricorrono nella filigrana dei versi. La «notte» è una di queste ma potrei entrare molto nel dettaglio: per carità del lettore evito il supplizio. Per efficacia e brevità, riporto invece le parole calzanti di Paolo Maccari usate nella Prefazione: «nella poesia finale, tornano tutti i cardini concettuali dell’intero volume: la notte e il silenzio, la pioggia e il tempo. Torna anche la pietà, ma stavolta nell’impensato stilema di “giusta pietà”». Per comprendere meglio il ruolo profondo che svolgono le occorrenze, ossia le ripetizioni di parole, nel creare compattezza, rimando in generale al saggio di Santagata (Dal sonetto al Canzoniere, Liviana, 1979) che ha svolto questo lavoro di accertamento sul canzoniere di Petrarca da cui prelevo una citazione soltanto, sintetica, tra le molte che potrei fare: «La frequenza elevata di connessioni basate sulla ripetizione di costellazioni lessicali conferma la centralità del ruolo svolto dalla parola» nel creare l’unità. Inoltre la mia ‘poetica’ si trova nell’animo. Intendo dire che l’unità si trova a monte, nel pensiero e nei sentimenti, e mai in un progetto o in un ragionamento a freddo. A volte mi stupisco di scoprire questa unità incarnata nella “forma” ma la ragione è chiara: sta, come dicevi tu, nella «ossessione». Una specie di pensiero ricorrente, per non dire «dominante»… La «notte» è sicuramente un termine centrale di questo libro e assume più significati contemporaneamente. In sintesi indica da una parte la malinconia e la conseguente indagine esistenziale che l’autore svolge sul senso della propria vita: è un buio che palpita e destabilizza. Dall’altra, ormai tradizionalmente, denota l’interiorità secondo la lezione di Novalis. Riporto qui le parole di Ferruccio Masini che nella sua introduzione ne riassume perfettamente i termini: il «linguaggio della notte» è quello «stesso dell’interiorità, dal momento che non esiste alcun altro abisso se non quello dell’anima» e Novalis con i suoi Inni certifica «la superiorità della notte interiore sulla notte fisica» (vd. Novalis, Inni alla notte, Garzanti, 1986). La notte è anche il tempo in cui, nel dormiveglia o nell’insonnia, l’animo si domanda e spesso gli interrogativi restano senza risposta e sono vissuti con grande intensità. Il termine è un leitmotiv che unisce il libro dall’inizio alla fine. Non posso dilungarmi troppo e parto per sommi capi da Notte fonda, l’ultima poesia di A un filo di pietà che lega la prima con la seconda sezione attraverso la «oscurità» di Iride di marzo. Si prosegue con «In me la notte non finisce mai» di Clic e le «troppe notti in una notte sola» di Nodi, ci si sofferma interamente con la poesia A tarda notte per approdare infine a Indulgenze con i versi «E adesso puoi calare sulla notte / il sipario». Ma giustamente la rappresentazione più plastica della notte interiore la troviamo con i versi di Fachiro da te citati nella domanda, dove «un’altra notte» indica la ricerca indefessa condotta con lo strumento della poesia ma l’indagine non ha portato alla luce una verità ma solo altra oscurità che minaccia profondamente l’integrità dell’animo.
4) Silenzio armato è un titolo molto efficace per una raccolta sulla perdita, come lo hai scelto?
La domanda che mi poni è a suo modo centrale e riassume la ‘poetica’ del libro. È utile intanto dare qualche istruzione sul suo significato. Quello di blindatura è immediato per indicare un mutismo non scardinabile, voluto per proteggere con pudore la propria intimità dal degrado e dallo svilimento. L’aggettivo evoca la strenua difesa dalle intrusioni. È a suo modo un silenzio eloquente, risentito. Ma il significato più profondo, forse, risiede in quello di una chiusura organizzata che strutturando il libro con l’acciaio interno del silenzio cerca di allineare il comportamento ‘esemplare’ a parole essenziali. Insomma un silenzio impenetrabile, che non rivela e custodisce le proprie intime ragioni. Come l’ho scelto? Stavo cercando da tempo un titolo che fosse coerente con il contenuto del libro. Un giorno stavo risalendo un fiume e incontro un ponte molto degradato. Il rivestimento di cemento armato aveva ceduto in molti punti e sotto traspariva l’armatura in acciaio. Da quella visione ho avuto l’insight del titolo… Un silenzio armato, strutturale, che innerva internamente tutto il libro.
5) In fondo a una delle poesie è segnata una data che fa da spartiacque, ed è facile immaginare a cosa si riferisca. Per quale motivo hai scelto di evidenziarla in maniera così palese?
In realtà la data non indica quello che immagini. È la data di anniversario della nascita di mia madre, avvenuta pochi giorni dopo la sua morte. Ho scelto di evidenziarla perché è in relazione con l’epigrafe pasoliniana («Sono qui con te in un futuro aprile») e la ragione sta nella impossibilità di festeggiare assieme a lei l’anniversario. Vi è però una speranza nei seguenti versi
La notte ci unirà per sempre
alle nostre parole
e sarò oltre la bufera e il sole,
oltre il rigore
di un futuro aprile
Ci ritroveremo nel vento
e saremo la nostra libertà
che consiste nell’illusione di sconfiggere con la parola la severità della perdita e l’auspicio è quello ‘religioso’ di potersi incontrare ancora una volta quando saremo liberi definitivamente…
6) Mi sembra anche molto interessante il ritmo che hai scelto per l’incedere dei versi, un ritmo che richiama l’estremo saluto e tuttavia palpita di domande e di speranze: «Anche la notte ha bisogno di altra luce».
In effetti vi è un discreto scarto stilistico tra la prima e le altre sezioni del libro ben delineato da Maccari nella prefazione, a cui rimando. La ragione di questo cambio risiede nella diversità di contenuto. Nella prima si canta la perdita e la parola ha un andamento tradizionale, di carattere diciamo così elegiaco. La funzione della melodia è quella di consolazione e conforto come sosteneva Petrarca in un celebre endecasillabo: «perché cantando il duol si disacerba». Ma la perdita ha chiuso definitivamente una stagione della vita e ha consentito di fare i conti con il proprio passato e il «giovanile errore» commesso spesso in buona fede a causa di fraintendimenti e forte ingenuità. Il ritmo allora si fa serrato, essenziale, incalzante nella presunzione di stanare il senso più autentico e onesto riguardo a se stessi. Emblema di questa esigenza, anche stilistica, è riassunta nel verso «ho tolto alle parole ogni inganno». Non sono più consentiti abbellimenti retorici. Anche lo stile richiede una coerenza etica. Per spiegare il verso citato nella tua domanda però mi tocca fare una digressione. A partire dalla poesia Pallido cielo, si contesta in primo luogo la ‘poetica del dolore’ che aveva caratterizzato il libro precedente, intitolato Niente mai. Non sembra più tollerabile caricare la sofferenza interiore per nobilitare così scrittura e sentimenti. Viene riconosciuta oggi come atteggiamento e per questo ripudiata. Con la nuova crisi il poeta ha preso coscienza e ha deciso di superare il vecchio esibizionismo con la riconquista di più caldi sentimenti. Il più sincero, anche se fino a ora il più trattenuto per pudore, è quello della compassione verso tutti gli esseri viventi: “Così ho tradito ogni dolore / per un gesto caldo che fosse / ancora amore / e sulla terra ho spento anche l’inverno”. È da questo cambio profondo in poi che diventa possibile la ricerca di una luce nella notte. Si sente una leggerezza nuova che, allo stato attuale, è ancora episodica e in fondo sconosciuta ma lentamente prenderà consistenza e condurrà, finalmente, alla poesia Indulgenze che chiude il libro.
Sulla Greve
Il tuono laggiù è un dono della terra
ma non sa dove sei stata
se tra le nubi o gli astri
o se la notte in fondo al mare tace
e senza pace torna il vento
Troppo a lungo sei rimasta quest’anno
sulla terra e tra le canne di vetro
gli aironi sono tornati sfumando
sulle rive di fango
e nei villaggi d’acqua sono nate
anche le rane senza te
Ti chiamerò dal fondo delle strade
per l’ultimo saluto. I cani
randagi affileranno i musi contro
i venti e sulla terra la tempesta
sarà fredda
Non ci saranno più stazioni
dove scendere o salire e sui campi
di melograno passeranno
le rotaie e tutto sarà muto,
anche l’inverno
E tutto ciò che resta sulla terra
sarà perduto
° ° ° ° °
Spero in un raggio di sole che possa
fermare il suo viaggio, scaldare
le mani fredde e ripartire
per le feste di maggio
oltre il cielo. Possa migrare
sulla nube e trovare l’equatore
prima delle piogge
– sciogliere il gelo, la terra bruciare
E poi tornare dai rossi tramonti
a rovistare i sonni
in cui sola ti trovo
e arginare di te la mia mancanza
azzurra di mare
all’ombra dei cipressi o di novembre
° ° ° ° °
Pallido cielo
Non ti voltare adesso
L’ultimo incendio
non ti riguarda
Anche la verità è muta per sempre
e quello che sono, io, l’ho voluto
(la falsità di mani ladre e non lavate
che t’accarezzano ancora)
Stormire sulla riva come il vento
Così ho tradito ogni dolore
per un gesto caldo che fosse
ancora amore
e sulla terra ho spento anche l’inverno
Non giudicare più adesso
Anche la verità geme a se stessa
ed io l’ho chiamata,
azzurro e corrivo
Anche la notte ha bisogno di altra luce
Ma se la rabbia cresce e si fa tuono
sulla rada dove la luce passa
febbrile come sempre e senza
parole – se il faggio lo sa che sei
muto coraggio o falco – si trasforma
il vento in polvere di niente
e così dopo la pioggia anche la colpa
sarà perdonata, pallido cielo
° ° ° ° °
Il vento sulle case
Quando raggiorna
sento la vita versare il suo corso
sulle case e mi accendo di parole
e non aspetto niente
La notte è questo palpito lieve
che redime senza credere
Sento la verità in una notte qualunque
e la verità si spezza al punto del cuore
La vita non cercata è ciò che sento
Quando saluto e non rispondo
mi raccolgo di vento e parto
Parto con l’azzardo di chi ripudia
il tempo e non ritorna
e su questo cargo pieno di sole
guardo le nuvole
e mi credo innocente
Franco Castellani è nato a Firenze. Nel 2015 ha pubblicato la raccolta poetica Niente mai (Marco Saya Edizioni) con prefazione di Natascia Tonelli, recensita su «La lettura – Corriere della Sera» e su «Avvenire». Ha ottenuto riconoscimenti in diversi premi letterari. Suoi testi sono apparsi su riviste («L’immaginazione», «Semicerchio», «Paragone») e antologie. Ha pubblicato articoli di natura filologica e di critica letteraria.
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