Circles di Virginia Farina | Guardare l’ombra. Dialogo con Bruno Tognolini e le sue Rime buie.
“Io sono una pianta
Simmetrica, lenta, potente
La vita più santa
Si nutre di luce e di niente
Conosco vangeli di rami
Teoremi di steli
Silenzi di immensi reami
Millenni di cieli”
da Rime Buie,
su immagini di Antonella Abbatiello, Salani Editore.
Negli scaffali dedicati alla poesia spicca da qualche mese un libro un po’ diverso dagli altri, un libro che sembra volersi far notare e al tempo stesso giocare a nascondersi. E’ un volume che risalta, anche per il formato sensibilmente più grande rispetto alla media dei libri di poesia, e che invita a essere preso tra le mani.
A guardarlo di primo acchito non si riesce a collocarlo. Il titolo e il nome dell’autore sembrano indicare un altro scaffale, quello della letteratura per ragazzi. Così lo si apre, e scoprendolo attraversato, magistralmente, dalle tavole di Antonella Abbatiello, ci si convince ancor di più dell’errore del libraio che distrattamente può aver collocato questo volume nello spazio della poesia per adulti. Il libro, però, non si lascia deporre tanto facilmente. Il titolo, e poi i versi, fin dalla prima pagina esercitano una sottile malia, così che convinti di leggere qualcosa di “innocente”, come immaginiamo, erroneamente, la poesia dell’infanzia, ci ritroviamo a pronunciare parole dirette a noi stessi.
Parole che ci risuonano, e ci rispecchiano, e non si lasciano cadere fino all’ultimo verso.
Rime buie è uno dei pochissimi tra i tanti libri di Bruno Tognolini, pienamente rivolto a uno sguardo “adulto”. E’ un libro che parla di tenebra e che non ha paura di entrare nell’ombra, di attraversarla, per conquistare, definitivamente, il potere di pronunciarla. Anzi, di cantarla, perché le parole di Tognolini risuonano qui come una partitura, si fanno segno di musica, ballata, in cui lo strumento è lo sguardo e il fiato di chi legge, che prima o dopo si ritrova a farne quasi involontaria esecuzione.
Eppure queste rime non sono solo canto, ognuna di esse racconta una storia, compone una storia, come una voce che passa per la bocca dello stesso poeta e che muta a seconda di colui, o colei, a cui ha prestato il suo cuore perché possa parlare. Per questo ogni rima è zona buia, perché è ombra, traccia di un passaggio, di una figura di cui ancora si può seguire nel buio l’impronta. Ci sono uomini e donne, in queste rime, che sembrano volerci raccontare di tutti i sentieri andati perduti, di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Degli smarrimenti, dei limiti in cui ci fermiamo, del cono d’ombra in cui ammutoliamo, del punto in cui ritorniamo consapevoli della verità del dolore, di quel male comune che non è (soltanto) un compiere il male, ma il sentire il male e sentire male, il provare dolore, il sentirsi vuoto nel vuoto, errore, devianza, confusione.
In queste rime si può, così, sentire l’eco di molti cantastorie, da Nick Cave a Leonard Cohen, da Edgar Lee Masters al De Andrè di Non al denaro, non all’amore né al cielo. E forse per questo tanto facilmente in queste rime ci si può riconoscere e si può riconoscere un mondo che ci è familiare. Perché quel buio, quell’indicibile ombra, ci sono dentro, ed è importante imparare a dirlo bene quel male, perché non diventi rimosso e non diventi estetismo, perché sia cura, atto di consapevolezza e tentativo di vero. Perché sia poesia.
La lingua dell’infanzia, la magia della lingua che incanta, può non solo dire cose grandi, ma cose da grandi? Più che a certa poesia sembra che tu voglia guardare a chi ha scritto ballate, come Cohen e De Andrè. Questo fa canto dei tuoi versi, che chiedono di essere letti ad alta voce. Cosa fa, allora, poesia di un testo? C’è poesia senza musica, senza ritmo?
Certe domande ci chiedono una sacrosanta incertezza, un’ammissione di ignoranza, che è ignoranza in senso socratico. Più invecchio e meno sono sicuro, meno mi sento capace di fare affermazioni apodittiche, di fare dichiarazioni che somiglino a dogmi, principi. Esiste, allora, poesia senza musica? Io sarei tentato, di primo acchito, per dire no. Per me suono e senso si sostengono insieme, come dico ai bambini nei miei laboratori sono le due ali necessarie a un uccello per volare. Deve esserci tra essi un certo equilibrio perché ci possa essere un volo. Per questo anche quando leggo poesia di autori stranieri cerco, per quanto mi è possibile, di leggerla in lingua originale. E anche nelle traduzioni poetiche che ho curato ho sempre cercato di ricreare la musicalità della mia lingua, non limitandomi a una traduzione letterale di senso. Quindi, sì, sarei tentato di dire che la poesia è “carmen”, canto, incantamento, incanto. Ma la lettura di alcuni poeti, come la Szymborska, mi ha poi messo in crisi. Leggendo le poesie della Szymborska non avevo alcun accesso alla lingua originale, ma nelle sue parole ho sentito profondamente la poesia. C’è allora poesia che può prescindere dal suono e che solo col senso ti porta in un altro reame del linguaggio? Come potrei, altrimenti, apprezzare queste poesie?
Queste domande sono per me opacità nella comprensione, ombre al limite delle quali mi fermo. Al di qua so di sapere, e mi dico con certezza che la poesia è suono, e ritmo, e voce nascosta nei versi. Oltre non so, e lì inizia il punto in cui da capo mi metto in ascolto mi domando.
Parole che cantano in una poesia “per adulti”, dove Suono e Rima, che tu scrivi con la maiuscola per riconoscerne la potenza di strumenti vivi nelle tue mani, hanno ormai poco spazio. Rivendichi spesso nei tuoi scritti questi strumenti nella forza della loro storia, come canto quasi sciamanico, dove tu conduci e al tempo stesso sei condotto dalle parole. Sono Rime che guariscono le tue, che fanno luce imprevista alle parole. Il poeta che tratteggi, dunque, non è chiunque, ma qualcuno che come un bravo artigiano ha maturato e affilato la sua cassetta degli attrezzi.
Ho coltivato per anni questa idea dello sciamano, che non è forse proprio ciò a cui si potrebbe pensare. A dirsi sciamano sembra quasi che uno si dia delle arie, ma in verità quello che intendo esprimere ogni volta che uso questa parola è il senso di un lungo apprendistato necessario a farsi tramite, canale, mezzo per l’irrompere di altre forze. L’immagine allegra me l’ha data un film, “Willow”, portato sullo schermo dalla triade Ron Howard, Steven Spielberg e George Lucas. C’è una scena bellissima in cui lo sciamano, per decidere in che direzione andare partendo per la missione, la “quest” della vicenda, tira fuori il suo sacchetto e lancia le sacre ossa in terra. “Vediamo cosa dicono le sacre ossa!”, esclama. E poi, dopo averle osservate in silenzio, annuncia serio: “Le sacre ossa non dicono un accidente di niente, andiamo da quella parte!”
Ecco, nello sciamano io vedo un artigiano, qualcuno che si esercita a lungo nel lanciare le sacre ossa, finché non matura questa bella confidenza laica coi propri strumenti, perfino un po’ burlona ma affettuosa, come per vecchi amici fidati che lavorano accanto da decenni. La confidenza del mestiere. Qualcuno che ha mestiere. Anzi, il binomio magico: mestiere e maestria.
Amo molto leggere dentro le parole, e con passione ne cerco l’etimologia. Mestiere e maestria sono parole bellissime, che discendono dal latino e si raffinano in una lunghissima storia. Mestiere deriva da “ministerium”, che a sua volta viene da “minus”, ovvero lo schiavo, il servo, colui che ha e sa “meno” e per questo è dedito al servizio degli altri. Fa sorridere oggi pensare che la qualifica dei nostri “ministri” discenda proprio da questa umile condizione. Maestria deriva invece da “magister”, che nasce da “magis”, colui che sa “di più” degli altri. Per essere buoni artigiani, come buoni poeti, bisogna avere insieme maestria e mestiere. Essere “maestri”, sapere e saper fare qualcosa di più degli altri: non per elezione o presunzione, semplicemente perché ci si è esercitati a lungo; e al contempo essere “ministri”, avere la volontà e la capacità di mettere la propria maestria al servizio degli altri. Per rimanere nella metafora, lo sciamano è per me un maestro mestierante del commercio con forze superiori. Si tratta di esercitarsi a tirare le sacre ossa a lungo. Quando poi alla fine le sai tirare bene, allora forse (ma non è certo) accade: c’è qualcun altro che ti vede, da lassù – e non intendo dal cielo, ma da un piano più alto di te, che ti eccede: che tu lo chiami Febo Apollo dio delle Muse, o Wakan Tanka, o Dionisio, o Dio, o che lo chiami la tua Comunità, la tua Gente – c’è qualcuno che è più di te, e ti vede, e riconosce la tua capacità: e se ne serve. Ecco l’esclamazione di Dante, “fammi del tuo valor sì fatto vaso”, che invoca la possibilità di diventare canale, contenitore, come il vaso, della sapienza poetica.
Io non dico mai di me, quando scrivo versi. Cosa vuoi che interessi di me alla gente, io sono uno come tanti altri. Io presto la mia voce, attraverso una maestria, ottenuta attraverso un esercizio, a chiunque possa servire, essere buon servizio. E allora credo, o spero, che se uno ha mille persone dietro di sé, che parlano attraverso di lui, mille voci che ha ascoltato, e attraversato e fatto sue, ne avrà mille anche davanti, che si riconosceranno in quello che dice, che sentiranno nelle sue parole qualcosa che li riguarda.
Credo, dunque, nel valore fondamentale della pratica: in ogni arte la maestria nasce dalla ripetizione, dall’esercitazione. Ma anche qui giungo ad una zona d’ombra, ad una soglia davanti alla quale mi fermo, e riconosco di non sapere. Possono esistere poeti istintivi? Poeti spontanei? Può qualcuno che non ha studiato, che non conosce il lavoro dei grandi poeti che ci hanno preceduto sul cammino, che non ha letto, scritto, detto, centinaia di poesie: può queta persona mettersi da un giorno all’altro a scrivere versi stupendi?
Non lo so. Per quel che mi riguarda, cerco di mettere in ogni poesia il meglio del mio mestiere e della mia maestria. E questo ho fatto in misura ancora maggiore nel mio ultimo libro, Rime Buie, dove la forza quasi pericolosa dei temi che mi fiorivano fra le mani verso dopo verso, mi richiedeva di usare al meglio “la regola dell’arte” per renderli comunicabili, governabili, dicibili.
Tanto nero, tanto noir nella nostra letteratura, perché? Tu dici dell’importanza di nominare e pronunciare il Male comune, per portarlo paradossalmente alla luce, per dargli voce e accompagnarlo a guarire, ma non trovi che a volte la letteratura possa non svolgere questa dimensione “catartica” ma nutrire il buio per il gusto del buio? Immagino a certe identità che poi vengono rafforzate, come i noir ambientati in Sardegna, ad esempio, che rafforzano un’immagine barbara dell’isola, violenta, truce, sottraendo complessità e possibilità, a volte, ad altri registri interpretativi. Bellissimo, e in altra direzione, il tuo libro edito da Gallucci, Ciò che non lava l’acqua, dove tanti luoghi, reali e simbolici dell’Isola prendono vita attraverso una prosa musicalissima. In che modo le Rime buie rielaborano il tema del “male” in letteratura?
Anni fa ho scritto per il programma TV “La Melevisione”, quindi per bambini, una filastrocca che sembra essere stata profetica per il mio percorso. È la “Filastrocca dello scrittore”, che dice:
Marcia scrittore, vai cavaliere
Prendi la penna e fai il tuo dovere
Tocca con mano, corri coi piedi
Vai nella notte e di’ quello che vedi
Tieni pulite le tue parole
Da nomi stupidi e verbi cattivi
Guarda la luna, poi guarda il sole
Poi chiudi gli occhi e scrivi.
Io mi considero uno scrittore di luce, scrivo dell’infanzia e per l’infanzia e sono felicissimo di farlo: e per l’infanzia si scrive la luce del mondo, non il buio. Ma posso dire di aver sempre scritto anche di ombra, in qualche modo: anche perché senza ombra è inconcepibile, e forse inutile la luce. Senza le ombre delle cose le immagini son piatte, bidimensionali, si mescolano allo sfondo. Io forse ho sempre scritto, senza volerlo, come un filo sottile di ombra intorno alle cose in luce; tanto sottile che quasi non si vede. Ma c’è, ed è quello che le fa risaltare sullo sfondo. Ora, semplicemente, in quel buio sottile mi sono tuffato. Anche per dar seguito alla filastrocca dello scrittore di cui sopra, che lanciava avanti un compito: “Vai nella notte e di’ quello che vedi”. Ecco, ci sono andato e dico ciò che ho visto.
Dico di un buio che a volte sembra anche un po’ esagerato, totale, melodrammatico. Le Rime Buie somigliano forse a certe antiche ballate inglesi e celtiche, dove tutto si fa netto, doloroso, estremo. Questo è un buio cantato, come può cantarlo qualsiasi infelice sul bordo della notte, facendo della sua infelicità, che è simile a quella di tanti e di tutti, un “male comune”, e il canto di quel male. Per questo, questa volta, in queste rime, ho messo ancora più canto. Ho usato tutta la mia “regola dell’arte” per far suonare le parole, far sì che si richiamassero, e si ricamassero, fra verso e verso e dentro ogni verso. Proprio perché ero consapevole della prudenza che si deve usare, forza e prudenza, forza e sottomissione (alle regole dell’arte), “strenght and submission”, come dice il padre Eliot (in “Four Quartets”), quando si parla di un “male comune”.
C’è qui una domanda antichissima: quanto, o quando la letteratura è catartica o incendiaria, emulativa, induttiva? Le storie violente ci inducono a essere violenti o al contrario ci permettono di sfogare, cioè sfuocare, e dunque consumare, placare, esorcizzare la violenza? Siamo di nuovo alle soglie di una zona d’ombra, in cui non vedo risposte certe. Quello che posso dire è che così come il Bene deve essere “detto bene” per diventare efficace – e penso qui a tante filastrocche che girano nelle scuole italiane, melense, edificanti, si potrebbe dire neo-deamicisiane, che pur condite di buone intenzioni banalizzano idee e valori, e finiscono per nuocere agli stessi valori che vogliono promuovere. Il Bene deve essere detto bene: dev’essere “bene-detto”. Ma anche il Male si può e si deve dire bene, perché non perda vita vera, complessità. Ed ecco di nuovo il muro d’ombra: si può “bene-dire il Male”?
Penso ad esempio alle parole con cui gli sceneggiatori di Gomorra si sono difesi da alcune critiche, dicendo che loro non fanno educazione, “educational”, ma narrazione, “fiction”, cioè arte, per cui rivendicavano pieno diritto di espressione senza vincoli morali o moralistici. Queste parole sono, nel migliore dei casi, ingenue, e nel peggiore un po’ ipocrite. Perché, semplicemente, non si può non educare. Chiunque racconti esprime una visione del mondo: informa il mondo, lo descrive, lo prescrive. Cioè educa. La serie Gomorra diffondeva, senza giudicarli, modelli di comportamenti, stili di vita, addirittura di tagli di capelli. Nel romanzo “La paranza dei bambini” Saviano descrive una festa, dove arrivano tre ragazzi, e precisa: “Tutti e tre erano pettinati alla Genny Savastano”; che non è una persona reale, ma un personaggio della serie. Ecco, il gioco è fatto: il modello è diventato moda. E quanti ragazzi, a Napoli e altrove, si sono pettinati così?
Il fatto è che il male “è figo”, ha una sua attrattiva forte: basti pensare all’interesse per l’Inferno dantesco che è nettamente superiore a quello per le altre cantiche. Il male crea curiosità, attrazione. Mi sono interrogato spesso sulle persone che si fermano a guardare gli incidenti, che cercano di vedere i corpi violati nei loro particolari più crudi. E mi sono detto che forse ciò che le attrae non è solo, come si dice, “curiosità morbosa, è forse una sorta di impulso umano, ancestrale, di vedere dentro, di sbirciare come quei corpi umani son fatti dentro: tutti, loro rotti e noi integri. Può darsi che ci sia una sorta di profonda primordiale empatia, in quella “curiosità”. Addirittura compassione. E lo stesso possiamo dire dei mali dell’anima. Per questo abbiamo bisogno di leggere l’ombra, di cantarla, ma facendo attenzione a non farne un modello estetico, a non abdicare alla consapevolezza, e di conseguenza, e soprattutto, alla responsabilità, di ciò che le nostre parole possono illuminare oppure oscurare negli altri.
Dunque perché non mangi? Figlio delle mie brame
Perché piangi così? Cosa c’è, non hai fame?
Ma io sì.
Questo accenno di cannibalismo toglie il fiato, ma dopo il primo smarrimento lascia spazio per uno sguardo interrogante più ampio! Il banchetto non è solo il corpo del figlio, ma anche il mondo del figlio, il futuro del figlio. La nostra fame di genitori sta consumando tutto ciò che rimane del pianeta, e rischia di lasciare dopo di noi solo i resti. Il mito, l’archetipo, sembrano vivere su due piani, uno più simbolico e uno molto concreto, connesso alla nostra esperienza…
Questi versi sono nati, come molti altri della mia produzione, dal lavoro sul suono, sui ritmi, la metrica, i chiamarsi e rispondersi delle parole nel verso; da quel suono poi spesso nasce il senso, non viceversa. Quel verso è venuto quasi da solo: lì mi sono fermato, e ho capito che questi rime non erano destinate ai bambini, ma agli adulti. La prima immagine che ho avuto dopo aver realizzato il significato più profondo di questo passaggio, è stata quella di Chronos divoratore dei figli, ma i testi sono vivi e prendono forma e postura nel loro andare per il mondo. Ecco, in questa tua osservazione posso rintracciare una mia visione che in qualche modo si innesta nella tua. Lavorando in mille incontri con le scuole ho iniziato da tempo a pensare a come il mondo adulto stia invadendo quello dei bambini, prendendo ogni spazio, dichiarando ogni attività, artistica, sportiva culturale, indispensabile alla crescita e allo sviluppo. Siamo forse poco consapevoli di chi siano i bambini, di quale sia realmente il loro mondo, il loro spazio, e di quanto il nostro voler essere sempre e ovunque fornitori di soluzioni (educative, ludiche, terapeutiche, sportive, musicali, artistiche, del tempo libero…) possa alla fine rischiare di creare i problemi. Siamo un mondo di adulti che non sa più vedere la forza dell’infanzia, la sua resistenza, la sua capacità di vivere in modo anche autonomo rispetto a noi, e che spesso non riesce a pensare al futuro come al tempo dei propri figli. Ma accanto a questa visione più “buia” e distopica ne coltivo un’altra, la mia “pars construens”: è la visione di una grande forza rigeneratrice nei bambini e dei bambini. La figure di Pinocchio Corridore è stata per me, in un lontano periodo della mia vita, ma ancora oggi, quasi uno spirito guida. Pinocchio è quello che non acchiappi mai, che è continuamente inseguito da adulti di ogni tipo, assassini, carabinieri, padri, impostori, e lui con quelle gambette di legno, sempre scattante sfugge, è imprendibile. L’ho scritto così:
Non farti prendere fuggitivo
Corri sul bordo del campo visivo
Sempre più in là della coda dell’occhio
Corri Pinocchio.
I bambini sono qui davanti a noi, ma sempre anche altrove rispetto a dove li guardiamo, sono come Pinocchio. Imprendibili.
Ecco una poesia inedita e sconosciuta, che scrissi forse ormai quarant’anni fa, quando non sapevo che sarei diventato un poeta filastrocchiere per bambini. Ma il ritmo di tamburo, nei piedi dei versi, era già quello: sia nel senso che nel suono.
Pinocchio corre, Gesù centometrista,
nel bel paesaggio dell’Italia liberista.
Più veloce della vista e della voce,
più veloce del sogno e del disgusto,
battibaleno, fuori misura, più che giusto
e più che va. Idiota mercuriale,
colpo partito accidentalmente,
e non lo ferma niente:
non lo arrestano i gendarmi impennacchiati,
non lo tengono i centri handicappati,
non collide con gli elettroni accelerati.
Lui, figlio di tronchi, è Cristo e croce:
non può essere nemmeno crocifisso.
Ma via che va, a pelo dell’abisso,
sotto il cielo oggettivo del mercato:
è già partito dove è già arrivato,
è già lontano dove non c’è più.
Perché è Gesù.
Perché il suo cuore di somarello corridore
o corre o muore.
E correrà finché c’è posto,
finché ci sono chilometri rimasti.
Dopo, si pianterà nel nostro cuore.
A fare guasti.
Ecco, questo mi conforta in questa visione un po’ oscura di noi adulti che dovunque inseguiamo e placchiamo i bambini: per fortuna non li fermeremo mai.
Nel tuo sito tu parli di una letteratura “adulta” che si differenzia da quella per l’infanzia perché l’infanzia non ha ancora quegli “enzimi” che le permettono di digerirla. Dove questi confini si fanno più netti? E dove invece si sfocano, si confondono e vanno nella direzione della “Letteratura punto e basta”?
La letteratura per l’infanzia per me è come una miniatura, è un oggetto “più piccolo, ma completo di tutto”, non mancante di niente. Come le macchinine giocattolo, che sono tanto più preziose quanto più fini e ricche di dettagli. Creare una miniatura è un atto radicalmente diverso dal praticare un’amputazione, dunque non possiamo immaginare che fare letteratura per l’infanzia sia fare letteratura tagliando, togliendo, eliminando. Si tratta piuttosto del rimpicciolire in scala, perché quegli oggetti siano alla portata delle mani, degli occhi, della voce e delle orecchie dei bambini, senza rinunciare alla complessità. Le filastrocche sono imbuti, che servono a ridurre la narrazione del mondo in parole e versi piccoli, commisurati a orecchi piccoli, ma senza rinunciare alla complessità del mondo. Una volta, in Sicilia, parlavo delle filastrocche-imbuto in un incontro con adulti, e una mamma raccontò che il suo bambino, guardandola mentre travasava l’acqua nelle bottiglie con un imbuto, le disse: “Sai mamma, ho capito a cosa servono gli imbuti! servono a stringere l’acqua!” Ecco le filastrocche servono a “stringere” il mondo e la sua complessità per permetterci di travasarlo, di comunicarlo. Ma l’acqua non si può stringere, è un liquido incompressibile: be’, neanche la poesia.
Ho avuto la fortuna nei miei giri per tutta l’Italia di incontrare molti bambini. Negli ultimi quattro o cinque anni ho cominciato a raccogliere, registrandole con lo smartphone, le loro voci mormoranti e recitanti rime di gioco, collezionandole in un bell’archivio sonoro che ho chiamato P.O.L.P.A: Poesia Orale Ludica Puerile Autentica. Sono più di un centinaio, tutte stupende. Ho donato questo archivio alla Biblioteca Salaborsa Ragazzi di Bologna, e ora, in giugno, sarà inaugurato un bel progetto che continuerà il lavoro. Queste testimonianze insegnano che spesso le competenze poetiche orali dei bambini sono davvero elevatissime; mentre purtroppo i materiali poetici proposti nelle scuole, tratti dall’editoria scolastica (o peggio raccolti nel web e nei social, infestati da rimatori improvvisati), sono spesso banali, retorici, edificanti, si direbbe neo-deamicisiani; ma soprattutto, ahimè, “brutti”. Di gran lunga inferiori ai livelli estetici a cui i bambini arrivano spontaneamente, autenticamente, nei loro giochi di parole lontani dalle orecchie degli adulti. Questo mi ha aiutato a guardare ai bambini in modo più complesso, a restituire alla loro immagine grandezza e in qualche modo anche libertà.
Torniamo alle RIME BUIE. Smarrimento: perdersi, nel bosco, nella distrazione, nel salire le scale verso qualcosa che non arriva, nel passare il mare come nel “Salmo 68”, la Rima Buia che hai dedicato ai migranti. Il buio è smarrimento, come nelle fiabe, come per Pollicino, o nella fiaba della Baba Jaga, ma non c’è buio senza luce, né smarrimento senza ritrovarsi. Qui il possibile ritrovarsi sembra la parola stessa, il poter pronunciare lo stesso smarrimento: o ci sono altri luoghi, secondo te, in cui questo può diventare possibile? Puoi darci una traccia, senza anticipare la conclusione e l’illuminazione delle ultime parole dell’Angelo?
Anche qui mi confronto con qualcosa che non so, che quindi apre domande ulteriori, al di là di dove posso vedere. Lì suonano però le voci dei grandi poeti, che rimangono nelle orecchie e nell’anima, e che noi ripetiamo, ri-mormoriamo come in una litania. In quella Rima Buia ho lasciato riemergere la voce del canto di Ariel nella Tempesta di Shakespeare:
Full fathom five thy father lies
Of his bones are coral made
Those are pearls that were his eyes
Nothing of him that doth fade
But doth suffer a sea-change
Into something rich and strange.
Ecco, quella possibilità di trasformarsi in qualcosa di ricco e di strano è proprio ciò che non avremmo mai detto, ciò che non ci aspettiamo. Nulla di mio padre annegato si perde nel fondo del mare; ma sopporta un cambiamento in qualcosa di ricco e strano. Chi l’ha detto che ciò che ci attende sarà per forza un’Apocalisse? Può essere che il nostro mondo soffra un cambiamento in qualcosa di nuovo che noi non possiamo immaginare minimamente. E questo è, forse, ciò che la poesia può davvero donare, la possibilità di trasformare una visuale in una visione.
Poi saranno i bambini a costruire il loro futuro, a smontare la realtà che noi gli lasciamo, a farla a pezzi, e a poi a rimontarla in forme sorprendenti che neppure sospettiamo. Il nostro compito non è disegnare il loro futuro, che non è visibile né comprensibile per noi, ma lasciare loro semi di bellezza, i mattoncini migliori possibili con cui potranno poi ricostruire il loro mondo.
Rime buie, di Bruno Tognolini su immagini di Antonella Abbatiello, Salani Editore
10/06/2021 alle 21:48
bellissima e ricchissima intervista! la spiegazione di mestiere e maestria da incorniciare, da approfondire e da utilizzare in futuro, pertanto grazie a Bruno e grazie a Virginia!!
10/06/2021 alle 22:48
Condivido in pieno la constatazione sulla ricchezza del contributo di Bruno, ho imparato tantissimo in questo incontro. Quindi grazie Paolo, davvero di cuore, perchè senza di te quest’intervista non sarebbe esistita. Un abbraccio!