Brevità a confronto di Alessandra Cerminara.
L’articolo che vi proponiamo avrebbe dovuto essere pubblicato nel numero di luglio di Versante ripido dedicato a la Poesia breve. Per ragioni tecniche non è stato possibile e lo trovate ora qui, nel blog di VR. Vi ricordiamo che l’intero numero di VR è visualizzabile al link https://www.versanteripido.it/category/_numero/2019/2019-luglio-numero-3/
La poesia breve, che conosce la sua massima diffusione tra Ottocento e Novecento in seguito alla scoperta della dimensione subcosciente, non è in verità un ritrovato del mondo moderno. Anche in questo caso, come sempre quando si tratta di letteratura e filosofia, i nostri antenati greci ci hanno preceduto di parecchi secoli con l’invenzione dell’epigramma, forma rudimentale di poesia sviluppatasi già in età arcaica e consistente in iscrizioni brevi di carattere funerario, encomiastico e commemorativo su pietra o bronzo. Nato dall’esigenza della sintesi, l’epigramma constava di pochi versi organizzati metricamente, che nel corso del tempo acquisirono una sempre maggiore eleganza e icasticità. Le origini di questa primordiale forma poetica coincidono con le più antiche attestazioni della scrittura alfabetica in Grecia: la “Coppa di Nestore”, risalente agli ultimi decenni dell’VIII secolo e rinvenuta a Ischia nel 1954, riporta un’iscrizione anonima formata da un trimetro giambico e due esametri:
Io sono la bella coppa di Nestore,
chi berrà da questa coppa, subito
lo prenderà il desiderio di Afrodite
dalla bella corona
Le successive inattendibili attribuzioni a poeti famosi come Alceo, Saffo, Anacreonte e allo stesso Platone consacrarono l’ingresso dell’epigramma nella letteratura, quando ormai si erano affermati il distico elegiaco e una pluralità di temi che, oltre a quelli tradizionali, spaziavano dalla guerra all’amore. Di certa paternità sono alcuni componimenti attribuiti a Simonide di Ceo, di cui Erodoto riporta il celebre epitaffio in onore dei “trecento” guidati da Leonida e caduti valorosamente alle Termopili:
Vai, dì agli Spartani, o viandante,
che qui noi giacciamo,
obbedienti alle loro leggi
Erodoto, Storie VII, 228-222
Nell’età alessandrina la produzione breve raggiunse il suo apice per varietà di temi, eleganza stilistica e icasticità, con poeti come Callimaco e Teocrito. In una fase storica in cui al cittadino era subentrato il suddito in seguito alla crisi del “sistema poleis”, l’epigramma, intimo e soggettivo, si impose come alternativa al poema epico, roboante e oggettivo, dipanando tutta una gamma di momenti e situazioni della vita reale quotidiana e portando alle estreme conseguenze, grazie alla connaturata brevità, la cura formale e la ricercatezza stilistica tipiche della raffinata sensibilità ellenistica. Così scrive Callimaco all’amico poeta:
Mi dissero, o Eraclìto, la tua morte, e lacrime
ho pianto: mi ricordai quante volte entrambi
in chiacchiere facemmo tramontare il sole…ma tu
da qualche parte, amico di Alicarnasso, sei antica cenere,
e però vivono i tuoi canti, su cui, chi tutto
rapisce, Ade, non porrà la mano.
Anche a Roma la brevità si affidò soprattutto alle forme dell’epigramma, che si diffuse in seguito al processo di ellenizzazione. Maestri della “sintesi” furono Catullo, di cui tutta la terza parte del Liber è costituita da poesie brevi (Nugae), e Marziale, che seppe dosare e concentrare in pochi versi quel “sale italico” tipico della migliore tradizione latina.
Il mondo antico dunque, ha sempre conosciuto la poesia breve, attraverso cui ha veicolato eventi e sentimenti. Ma è nell’era moderna che questa esplode, fino a soppiantare le tradizionali forme di comunicazione. Tra fine ‘800 e inizio ‘900 si attua in tutta Europa una rivoluzione del linguaggio che non riguarda solo la letteratura, ma anche altre forme d’arte come musica, scultura e pittura. Nasce il verso libero: gli autori rompono con i ritmi regolari e simmetrici della tradizione e creano versi asimmetrici, dotati di una forte carica evocativa. Rimbaud, Verlaine, Mallarmé, sulla scia del loro padre Baudelaire, affidano l’intimo segreto delle cose a immagini dense e allusive, sperimentando un linguaggio alogico, evocativo ed estremamente musicale:
La stella ha pianto rosa al cuore
delle sue orecchie
l’infinito è rotolato bianco dalla tua
nuca alle reni
il mare è imperlato rosso alle tue
mamme vermiglie
E l’uomo ha sanguinato nero al tuo
fianco sovrano
La stella ha pianto rosa, A. Rimbaud
In Italia già Pascoli, pur conservando un’architettura dal punto di vista formale, subisce il fascino oscuro del Simbolismo che procede per “illuminazioni”; ma il processo di dissoluzione del verso prosegue con toni sempre più marcati con poeti come Ungaretti e Quasimodo, in cui la versificazione ipotattica, tipica della classicità, è ridotta all’osso:
Ognuno sta solo
sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Ed è subito sera, S. Quasimodo
Ad un certo punto della storia della letteratura la poesia adotta un linguaggio polisemico, contraendo al massimo la sintassi. Cosa è accaduto alla nitida razionalità classica? Che ne è stato?
Con l’avanzare del mito della macchina e la conseguente reificazione dell’umano, si assiste ad un ripiegamento delle coscienze: l’individuo, privato di una sua identità, si riduce a vivere in una dimensione di isolamento. L’isolamento diviene frattura quando l’intellettuale, non sentendosi più rappresentato dalla nuova classe dirigente (la stessa che aveva guidato la Rivoluzione) e non rispecchiandosi nei valori sui quali essa aveva costruito il nuovo mondo, cessa di collaborare col potere. Se ancora nell’età Ellenistica la declassazione del cittadino a suddito aveva fatta salva “l’umanità”, questa, al contrario, nell’era moderna viene svenduta e surclassata da principi “inumani”, quali calcolo, produttività e guadagno. La vecchia aristocrazia aveva dominato le masse, ma vantò sempre il merito di essersi fatta portavoce di quella “humanitas” di cui oggi si avverte così tanto la mancanza; la nuova borghesia, invece, ha depredato il mondo, fino a lasciare il poeta a secco di parole:
Non chiederci la parola che squadri da ogni
lato
l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un croco
perduto in mezzo a un polveroso prato
…
Non chiederci la parola, E. Montale
E Ungaretti recita
Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata
…
Versi, questi, altamente rappresentativi della condizione dell’uomo moderno, sempre più smarrito, e brancolante in un mondo incomprensibile in cui nulla, nemmeno la vita, ha più valore, se valori quali altruismo, fratellanza e solidarietà, come in un perverso gioco di specchi, soggiacciono al loro speculare: egoismo, divisione e guerra, non più dure necessità da sempre esistite, ma principi guida del nuovo mondo. La disgregazione del verso è causata, in parte, anche dalla diffusione delle coeve teorie irrazionalistiche e dalla scoperta della dimensione dell’inconscio, luogo interiore misterioso e indecifrabile non meno di quello esteriore. Nietzsche e Schopenhauer nel campo filosofico, Freud e Einstein in quello scientifico mettono a nudo tutta l’intrinseca debolezza dell’ideologia positivista, poggiando sull’assunto che né il progresso, né la scienza sono in grado di assicurare all’uomo la felicità e che le certezze su cui il mondo fino a quel momento aveva fondato la propria stabilità, sono venute meno. Il senso di smarrimento che ne deriva, induce il poeta a crearsi un mondo ideale, fatto di segni che solo lui comprende, e nel quale può recuperare quell’alloro poetico e quella missione profetica di cui era stato privato. Alla sintesi classica, razionale, ipotattica e promotrice di istanze, si sostituisce quella moderna, irrazionale, paratattica e povera di istanze; e se la brevità classica consisteva nel numero dei versi, quella moderna riguarda, di contro, il verso nel suo interno, che si contrae fino alla dissoluzione:
M’illumino d’immenso
Mattino, G. Ungaretti
Senso di smarrimento, spersonalizzazione e irrazionalità sono dunque gli input che hanno ingenerato la moderna esigenza di sintesi, ben lontana ormai dal lucido e ponderato nitore da sempre fiore all’occhiello del mondo classico.
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