A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Vita, che non lasci via di scampo (Note di lettura a L’inganno della superficie, di Marco Pelliccioli, Stampa 2009 edizioni, 2019)
L’inganno della superficie possiede un impianto narrativo disegnato lungo una struttura circolare, procede con uno svelamento di indizi, spiragli che si schiudono e mostrano la luce bianca di un corridoio d’ospedale, “brandelli di Angiolina”, suggeriscono la malattia, alludono a cose, oggetti, come riflesso di una situazione: la vestaglia, il cerotto scollato della flebo, e ancora la casa spoglia, il buio, il coro di preghiere.
Una predisposizione narrativa che con tutta evidenza pare funzionare, perché il lettore attende che altre fessure si aprano e ci svelino altri pezzi di storia, altri brandelli del racconto, già presi da interesse per la vicenda, “i figli dal balcone immersi nella nebbia / aspettano Angiolina, il brodo, la minestra / la coperta lisa per dormire insieme”.
Il procedimento si giova di salti nel tempo, dilatazioni che si appigliano ad accadimenti incisi nella memoria con dolore, e danno voce a una congerie di elementi, di cose minime elencate a documentazione dei fatti: mensole, coperchi, plastici incompiuti in truciolato, album tritati dal vecchio mangiacarta.
Dunque sono le cose chiamate a testimoniare il passaggio di una vita, di molte vite, a dare voce a quello che dopo soltanto poche pagine si manifesta nella sua essenza di poema corale, e quale migliore scelta far parlare i panni ai lavatoi, lo straccio sulle scale, l’acqua fredda, tenerli in primo piano, protagonisti, e subito dopo uno slargo di storia: “lei si commosse ancora / come il primo istante, quando la accarezzò / dopo averle tolto la ciocca sulla fronte”.
La lettura procede lungo questa direzione: elenchi lunghi, tentativi di inventari, alternando versi e usando la prosa come ambientazione scenica: vagoni, sacchi, reti, gialli altoparlanti, reticolati in ferro, scavi, fondamenta, e più avanti buchi, ganci, cavi attorcigliati, foglie crivellate dure come scorze, cumuli di pietre ai piedi della via, ed ecco che subito dopo ci si trova immersi nel racconto:
(da un davanzale, un giorno
l’Angiolina, a sera, li vide passare;
stringevano le mani, le rughe alla ringhiera,
la vernice verde scrostata una stagione:
il Nino che l’aspetta in fila per la strada
lungo quei campi ora sgualciti dai cantieri)
Il lettore si pone il quesito su quale relazione esista tra il titolo, L’inganno della superficie, e l’ossessivo ricorso al procedimento inventariale, all’andamento per accumuli, per stratificazioni di elementi diversi, che comprendono il paesaggio e le presenze antropiche: “Sospetti, o forse indizi, foglie cangianti, tane, rami amputati, tronchi, cortecce screpolate. Tra colpi di vanga sempre più lontani trascolora la scia delle anatre palmate”. Senza dubbio le incursioni in prosa risultano di grande fascino e aggiungono suggestione all’articolarsi del racconto, alle sue ramificazioni proiettate verso direzioni diseguali: campo lungo dedicato a scorci di Milano, il bosco verticale: “identici quadrati riflettono nel vetro / sagome arruolate, asfittici rovesci”, e primi piani riprendono scorci di quotidianità: (la tovaglia di sugo, i piatti in cucina) e anche: l’incresparsi degli stracci, le mollette.
Ed è una delle prime poesie a indicare una possibile direzione per la comprensione del titolo del libro:
Controfigura
Qui è lui a testimoniare la storia di un dolore:
frammenti di una madre, brandelli di Angiolina,
l’attimo presente di una superficie
che ingoia nell’inganno lacrime comuni.
Dove sembrerebbe che sia esattamente la fugacità di quell’attimo presente a disseminare di inganni la superficie. La parola del primo verso, “testimoniare”, induce a ritenere che quei frammenti, quei brandelli, trovino nella loro stessa presenza all’interno del racconto la loro ragion d’essere testimoni, entità accreditate a fornire una garanzia di realtà all’evolversi della narrazione.
La circolarità della struttura del racconto permette di congiungersi all’epilogo attraversando più vite, facendo più incontri, e ricollegandosi così con i fotogrammi iniziali, che mostrano in tutta la loro evidenza il percorso di una malattia e un epilogo triste, e consentono una rilettura in cui ogni frammento, ogni riferimento aprono a una più soddisfacente comprensione.
Controfigura, commiato
Scivolano nel vento, o giacciono distese in mucchi
disadorni, le foglie nel viale, lasciandosi alle spalle
stanze d’ospedale…
ricordo la Centoventisei, lo scivolo innevato,
la ruota forata, il pollo nel chiosco,
solo alla vetrata grande dell’asilo
nell’attesa che rientrassi, mamma, da Milano:
l’epifania, la grazia che non conosce inverni
(posso testimoniarlo)
Poi ho lasciato il parcheggio deserto, le scale, ho
pianto davanti alla tomba di lei, le mani di gnocchi,
le sue dita storte, dovrei, forse, farlo pure domani e
domani ancora e ancora daccapo: l’inchiostro
sorgivo che il foglio trattiene…
Al centro del libro, come una bella e utile digressione, sta la sezione Nuovi vocabolari, che rappresenta un bellissimo gesto di resistenza contro l’imbarbarimento della lingua. Se abitiamo il mondo grazie alla lingua, se la lingua è la misura della realtà e la sua possibilità, dare libero accesso alla barbarie equivale a rendere barbaro il territorio che abitiamo.
E’ soprattutto in ambito lavorativo che la contaminazione conquista spazi sempre nuovi, aiutata in questo dal linguaggio della carta stampata e delle televisioni. Ci si chiede perché tante nuove leggi portino nomi estranei alla lingua italiana. Per mascherare un inganno, per confondere, per alterare i contorni, ed ecco che questa digressione si colloca in una zona perfettamente funzionale al racconto, e rafforza l’idea che la superficie è intessuta di inganni, esattamente come la superficie della lingua che va deteriorandosi e nel degrado si trascina spazi sempre nuovi di esistenze.
La formula
“Empathize” – “Define” – “Ideate” – “Prototype” – “Test”:
la formula per vendere nuovi prodotti sul mercato.
Sagome la annotano posizionate in “loft”, spazi
di lavoro condivisi.
Ci sono alcune parole che ricorrono e stanno come in agguato a suggerire la possibilità di un esito nefasto, e sono tregua e resa, che si accomodano nel corso della narrazione in posizione defilata ma non abbastanza da assurgere al ruolo di controfigure o di mere comparse: “…increspature, trame / sanciscono una tregua / o, forse, una resa”.
L’intera raccolta possiede una colorazione lirica, come se un’infusione di sentimento potesse stemperare la durezza degli eventi, potesse ammorbidire la spigolosità della tragedia che si compie sotto i nostri occhi di lettori.
Anche Maurizio Cucchi nella sua prefazione al libro rimarca questa peculiarità:” Ma i personaggi, le figure della sua narrazione lirica sono molti e si muovono in una cornice di paesaggio che è un habitat semplice e umile come quelle stesse figure, un ambiente di fatica e lavoro: “Prefabbricati, tubi, tralicci, autogrill schiacciano i filari, brandelli di campagna”.
E più avanti allude alla poesia civile di Nelo Risi. Ci sono alcuni tratti, alcuni passaggi, che a me ricordano il Pagliarani della ragazza Carla, come questo bellissimo scorcio che quasi chiude la sezione L’inganno della superficie:
Quanto dolore spalancano le strade
nella lama rossa del mattino
lei avvolta da un formicolio di foglie
lui che avanza mesto a capo chino
lei ristretta al fianco nella borsa,
vita, che non lasci via di scampo
se non stringere la blusa
rimboccare le maniche sul braccio
lasciare aperti i polsi
per un rivolo di cielo
che scorra nelle vene.
Marco Pelliccioli è nato a Seriate (Bergamo) nel 1982 e cresciuto a Brusaporto, piccolo paese della provincia bergamasca. Laureato in lettere moderne e cinema alla Sapienza di Roma, lavora nell’editoria. Ha pubblicato le raccolte di versi: L’inganno della superficie (Stampa2009, 2019), L’orfano (LietoColle-Pordenonelegge, 2016; Premio Colline di Torino), C’è Nunzia in cortile (LietoColle, 2014; Premio Albero Andronico). Del 2015 è il romanzo A due passi dal treno (Edizioni Eclissi), segnalato dal Premio Calvino. Un dandy a teatro. Oscar Wilde e Woody Allen (Ed. MEF) è un saggio del 2008. È incluso nell’antologia Giovane poesia italiana (Pordenonelegge, 2020), tradotta in inglese, francese, spagnolo e tedesco e nell’Antologia di giovani poeti italiani (Vakxikon, 2019), tradotta in greco.
Cura la rassegna La poesia e la fontana al Teatro Fontana di Milano, dedicata a voci emergenti e maestri della poesia contemporanea.
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