Sogni di Emanuela Rambaldi | Sei. La danza 

 

 

To the courage of the Palestinian people and their leaders
in the struggle to regain a part of their homeland.
This book has nothing to do with their problem.
Patricia Highmith
People who knock on the door
1983

 

Disciplina.
Progettare solo ciò che si vuole realizzare.
Darsi scadenze che si decide di rispettare.
Redigere una lista.
Rispettare la lista.
Svegliarsi.
Smettere con la colpa.
Smettere con conti alla rovescia.
Prima che il passato finisca. E il futuro smetta di esistere.
Un altro inverno alle porte. Cercare il modo di fuggire dai gesti inutili.
Non ritrovarsi a primavera con un nuovo rimpianto.
Tempi lunghi, definitivamente freddi. Pazienza.
Pazienza e lucidità. Calma. Procurarsi idee che annientino la paura.
Mantenere con tenacia un equilibrio, seppur fittizio.
Non farsi cogliere di sorpresa dal cielo azzurro, quando la neve smetterà di cadere.
Stick to the point. Concentrarsi.
Aprire gli occhi.
Rimandare è rinunciare.
Dimenticarsi.

Così nasce un pensiero che dà le vertigini. Un pensiero ambizioso. Immaginare sia questo, il tempo di avere tempo.
Posso fare qualsiasi cosa.
Chissà se in un’altra vita si sarebbe ricordata di questo momento.

Alla fine, si era detta, cosa ho da perdere, trovo l’indirizzo dell’editore o dell’agente o quello che è, e gli scrivo, con preghiera di inoltro.
Illusione, ingenuità, fatamorgana, sono giovane, ho il diritto anagrafico di essere folle.
Mi aggrappo a quest’idea come un naufrago alla boa, che vergogna, una similitudine così banale, la diceva lunga su di lei.
Con i libri, si stabiliscono legami, con i personaggi si stringono relazioni, ci si innamora delle parole e si finisce per non volerle abbandonare.
Scrivere un libro sui suoi libri. Descrivo un progetto, si era detta, lascio intravedere un qualche curriculum, ventilo l’ipotesi che sia una tesi di laurea, bluffo un po’, cito Borges.
Un agente con un minimo di esperienza l’avrebbe scoperto alle prime righe. Lei non era nessuno e lui era uno scrittore noto in tutto il mondo. Uno che si nascondeva. Un mito.

Nel silenzio, mentre l’inverno era avanzato, aveva riletto tutti i suoi libri, aveva riempito pagine di note e compilato un lunghissimo elenco di domande, cercandolo tra le storie, immaginandoselo, illudendosi di carpire indizi dalle pagine.
Aveva trovato un modo per resistere all’assedio della malinconia. Se lo ripeteva come un mantra.
Nella prossima vita lo sapranno tutti, che l’ho incontrato.

E la lettera era arrivata. L’impossibile era precipitato nel possibile. Il velo era stato sollevato.
Un indirizzo. Una data. Un contratto di riservatezza, da accettare, firmare e restituire. Divieto di domande personali. Divieto di divulgazione con qualsiasi mezzo di informazioni private. Divieto assoluto di rivelare nomi, identità, luoghi.
L’aveva riconosciuto subito, il posto.
Una terrazza affacciata su un mare che non vedeva da anni, di cui sapeva tutto.
In un’altra vita – una bambina in bianco e nero teneva tra le mani un grande pallone scuro con la scritta bianca. Sorrideva, nel suo vestito senza maniche, le braccia esili abbronzate, i capelli nerissimi, le trecce che finivano nei fiocchi. Una madre. La sua.
La mattina affondavano insieme le gambe nell’acqua fresca e camminavano fino al canale. Salivano sul molo, pieno di pescatori. Facevano il tifo per i pesci. Guardavano il mare aperto. La linea più scura dell’orizzonte.
Ritrovava ogni pensiero, ogni sensazione, il senso faticoso corpo contro le onde, quello lieve dell’ozio sdraiate sulla sabbia.
Ritrovava la forma triste e spigolosa della nostalgia.
Poi si era ricordata di un altro lungomare. Del sogno di sua madre, quello che le raccontava da bambina, come una fiaba, la sera prima di dormire. Il sogno che le aveva rivelato come lei si era impossessata del suo corpo.

L’India è come sempre. Lo dicevo ad alta voce ai tre occidentali incontrati sull’autobus mentre guardavo fuori dal finestrino e cercavo goffamente di catturare immagini con una piccolissima fotocamera. Sono stata qui tante volte, ed è esattamente la stessa, seppure diversa. Same same but different. E poi, col tempo le cose cambiano, diceva una di loro. Ma percepivo un tono canzonatorio e avevo la sensazione che mi avesse frainteso. Volevo aggiungere che non si trattava di un cliché, ma in un attimo il mio tentativo di spiegare si era dissolto, irrimediabilmente.
D’un tratto mi accorgevo che non ci eravamo presentati. Mi voltavo verso la mia compagna di viaggio, una mite ragazza indiana in abiti occidentali, seduta qualche panca più indietro. Per un attimo mi ero sentita in colpa per non averlo fatto prima, ma mi aveva risollevato il fatto che il terzo dei tre, quello che parlava francese, le stava tenendo compagnia.
Mi avvicinavo a lei e dopo essermi presentata, facevo un gesto ampio con la mano, come per renderle omaggio e dicevo, ecco la mia compagna di viaggio. Ma mi accorgevo di non ricordarne il nome e per un secondo rimanevo in silenzio, tentando di individuare le possibili cause della mia amnesia. Sono confusa. Sono preda di un incantesimo. Mi sono persa. Ma lei, prontamente aveva rimediato, e aveva risolto la mia imbarazzante esitazione pronunciando il suo nome con dolcezza, Savita.
Anche il francese si era presentato, ma non capivo bene. Tomo. Momo. E io – in francese – chiedevo se fosse un nome o un diminutivo. E lui, può essere entrambi, nel mio caso è un diminutivo.
Mentre l’India continuava a scorrere davanti ai finestrini, dicevo qualcosa a proposito delle città, del girare in tondo, del non arrivare da nessuna parte.
Si era fatto buio e d’improvviso era comparso un grande albergo bianco, in stile coloniale, illuminato da una luce calda, pieno di giovani sulle scalinate che chiacchieravano e ridevano, come fuori da un bar all’ora dell’aperitivo.
Gli altri due sconosciuti parlavano italiano. E uno dei due mi aveva appoggiato una mano sulla spalla mentre aveva cominciato a dire degli alberghi, della difficoltà di trovare stanze libere, delle alluvioni che rendevano complicati gli spostamenti.
Mi toccava e io non sapevo se essere lusingata o infastidita, che avesse scelto di fare proprio quel gesto, così intimo e insieme così volgare, dato che eravamo due estranei.
Volevo ancora fotografare. Per farlo posavo il bicchiere che avevo in mano sulla panca. Era un grande bicchiere da aperitivo, completo di cannuccia, ma di forma quadrata. Mi verrà una terribile diarrea, pensavo fissando il contenuto che si era riempito di polvere e insetti. Mi saliva in gola un debole senso di nausea.
Venivano pronunciati nomi di città che conoscevo. Poi, chiedevo, ora dove siamo. Perché un conto è volersi perdere, vagabondare, un conto è farlo davvero. E qualcuno degli sconosciuti diceva serio: Malibu. E io pensavo, con precisione, ecco. Ci stanno prendendo in giro. E ora sì, ero davvero infastidita.
Alzavo gli occhi all’interno dell’autobus, che non era più un autobus, ma uno dei battelli che dalla Porta dell’India conducono all’ isola Elefanta, spazioso, con le panche in legno.
Era una giornata luminosa e mi accorgevo con sollievo che gli sconosciuti erano scomparsi.
Tra la gente seduta, d’improvviso appariva una ragazza occidentale, con una maglia rosa pallido, che stava in piedi, ad occhi chiusi, e ballava. Al suono di una musica che non sentivo.
Sorridevo a Savita, che ricambiava il sorriso.
D’improvviso eravamo fuori , sull’ampio marciapiede di Marine Drive, tra la strada a doppia corsia e la grande spiaggia.
Era prima del tramonto. L’ora in cui ci si prende una pausa dal rumore, dalla fatica, e si ci gode la brezza. L’ora in cui le famiglie scendono in spiaggia e accompagnano i bambini a fare una corsa in riva al mare e a comprare lo zucchero filato. L’ora in cui gli innamorati si siedono sulla spiaggia rivolti al mare e sussurrano al sole che cale dietro i palazzi più alti. L’ora in cui si sollevano i gabbiani.
La ragazza occidentale continuava a ballare, al suono di nessuna musica.
La osservavo seduta ai bordi del marciapiede, dando le spalle alla baia, che cominciava a diventare dorata.
Ecco, Hélène, quella eri tu, che mi avevi scelto, e avevi preso a danzare nella mia pancia.

 

***continua***