A tentoni nel buio di Paolo Polvani | Una volta Istanbul è stata mia. Alcune domande a Max Mazzoli a proposito del suo libro The Bosphorus poems – Poesie del Bosforo (Book Editore, 2009)
Tu scrivi: “Questa raccolta è nata in inglese (e da me tradotta in italiano) tra la fine di luglio e l’inizio di agosto 2008, durante un soggiorno di lavoro e ricerca in Turchia”. In base a quale meccanismo, conscio o inconscio, chi scrive in due lingue opera la scelta definitiva?
La voce pensante all’interno della mente è quella che prevale. È lei a dettare le parole. Se sono immerso in un mondo dove l’inglese prevale e dove il mezzo di comunicazione è l’inglese, allora anche il pensiero e quindi il verso è in inglese. La lingua, le parole, le storie e i versi sono veicoli di comunicazione, di conseguenza nascono nella lingua in cui sto vivendo al momento.
Sarebbe vacuo parlare italiano ad una persona che non lo capisce. Poi può succedere che alcuni spunti nascano dall’inconscio e riemergano in un’altra lingua (tra quelle che mi hanno formato). A quel punto spesso mi accingo a tradurre per avere un ulteriore livello di comunicazione. Sicuramente tradurre è anche un po’ tradire, ma non avrei mai potuto leggere “Guerra e Pace” in russo, mentre avendolo letto in inglese mi arricchisce lo stesso, al meglio possibile.
The Bosphorus Poems sono nate in inglese perché le persone a cui mi rivolgevo parlavano tutte inglese e non italiano.
Per quanto riguarda le altre mie raccolte più recenti, spesso gli spunti possono arrivare in modo misto, sia dall’inglese che dall’italiano. Poi traduco nell’altra lingua e addirittura poi dimentico quale era stata la prima delle due a darmi lo spunto. A volte alcuni indizi che rivelano quale delle due lingue è stata la prima si possono trovare nella struttura del verso: più precisa in metrica nella poesia di lingua iniziale e più libera nella traduzione.
Questo perché un pentametro inglese non sempre coincide con un endecasillabo Italiano, specialmente se dobbiamo anche tenere conto di tono, significato e a volte anche della rima.
Nel caso delle Poesie del Bosforo ho optato per un verso libero. Ci sono solo due esempi di acrostici di due nomi di donna che sono l’unica vera “costrizione”, doppiamente difficile da rendere in entrambe le lingue.
Ma, finalmente, per rispondere alla domanda: la scelta definitiva si muove su due piste parallele: a chi mi sto rivolgendo, e quale è la lingua che mi circonda.
Tu scrivi della bellezza provocatrice di Istanbul. In cosa si sostanzia la provocazione?
Il mio incontro con Istanbul fu un colpo di fulmine con elementi di sindrome di Stendhal. La bellezza dell’architettura, delle strade e della gente mi portava ad assaporare spunti di cultura orientale, slava, musulmana, ma anche caratteristiche europee mediterranee. Cosìcché spesso all’angolo di una strada o in una piazza mi sentivo nello stesso tempo nei luoghi del dottor Zivago o nelle città italiane della mia infanzia. Dopo tanti anni di vita in Inghilterra, dove tutto è peculiarmente diverso, incontrare case e strade simili a quelle della mia infanzia italiana in un luogo così esotico, mi sembrava una sorta di provocazione. Una esortazione a contemplare la bellezza e la diversità. La città sul Bosforo è anche ricca di acqua e di colline, di sentieri pendenti in salita e in discesa che ti accompagnano ad ogni passo. Il tutto poi supportato dalla presenza femminile di una donna amica di Istanbul. Figura femminile che non solo mi fu guida nella sua città natale, ma anche compagna spirituale e sentimentale in un momento in cui mi trovavo sia smarrito per l’ubriacatura della bellezza, che esausto a causa del lavoro, ma anche invaghito da un mondo nuovo e ricco di cultura.
Un mio amico ha iniziato a studiare la lingua turca. Che tipo di lingua è?
Il turco è sicuramente una lingua difficile perché non ha un substrato linguistico comune all’Italiano o all’inglese. Infatti non è una lingua indoeuropea (a cui appartengono anche lingue disparate come il russo o l’hindi). Quindi quasi ogni parola è una parola totalmente nuova per noi. È una lingua ricca declinata come il latino o il russo. Inoltre è una lingua agglutinante (al contrario dell’inglese) dove diverse parole si congiungono per formare una espressione unica fatta di diversi componenti. (Un esempio in italiano può essere quando diciamo “glielo dico” – dove in una parola agglutinata, esprimiamo “dico ciò a lui/lei” ).
Con la rivoluzione di Atatürk (il padre politico e spirituale dei turchi) nel 1921 la lingua turca adottò i caratteri latini, giusto per avvicinarsi all’Europa e per facilitarne l’apprendimento. Come conseguenza, ora abbiamo una lingua la cui ortografia è completamente fonetica, tutto si scrive come si pronuncia. Una volta imparate le lettere, ogni parola si può pronunciare facilmente. Esistono alcuni suoni che non sono presenti in Italiano, come la vocale “ı” (una “i” senza il puntino. Un suono molto presente nella lingua cinese).
Durante il mio soggiorno in Turchia, prima a Samson sul Mare Nero a insegnare inglese, poi a Istanbul, riuscii a crearmi un repertorio basico di circa cento parole essenziali. Le prime che imparai furono “onbeş” (“quindici”, perché ogni giorno mi occorrevano quindici fotocopie per i miei studenti); e l’altra fu “teşekkürler” (grazie).
Inoltre il turco ha la caratteristica di possedere una “armonia vocalica” (termine tecnico linguistico), ovvero solo le vocali con le stesse caratteristiche (frontali o posteriori) possono essere presenti nella stessa parola.
Ma aldilà di questi tecnicismi (mi perdoneranno i lettori, ma la mia prima laurea è in linguistica), la bellezza della lingua turca la si apprezza in pieno quando si sentono le ragazze parlare, per strada, nei caffè, sugli autobus. Infatti la sua melodia e la sua prosodia possono essere di una dolcezza disarmante, con giochi ed effetti fonetici per noi strani ma accattivanti.
La presenza degli angeli non è una novità nella poesia. Nel tuo percorso poetico compaiono solo in questa raccolta?
Non credo gli angeli compaiano spesso nella mia poesia. Non escludo di aver usato questa idea in precedenti poesie. Certamente non l’ho usata in modo sistematico, come fa Rafael Alberti in una sua bellissima raccolta (Sobre Los Ángeles, 1927-1928). Ma nonostante io mi senta uno agnostico e uno scettico, più vicino a Bertrand Russel, che alla Bibbia, amo contemplare le “invenzioni” narrative che si sovrappongono alla religione, alla filosofia e alla umana necessità di creare significati a domande che non hanno risposte.
Tu scrivi che la figura dell’angelo rappresenta l’elevazione ultima della figura femminile. Dunque siamo di fronte a una doppia dichiarazione d’amore, per la donna e per Istanbul?
Questa è una delle interpretazioni. Certamente non l’unica. Come ben sappiamo l’angelo va anche oltre la distinzione di genere. Io direi che siamo addirittura di fronte ad una quadruplice dichiarazione d’amore: per Istanbul, per la donna nella sua “muliebrità” (come sosteneva Mario Luzi), ma anche una dichiarazione d’amore nei confronti del creato in generale, e infine una necessità di trovare una connessione tra il mondo reale del qui ed ora con l’oltre, ovvero con il bisogno di trovare un senso a questo nostro esistere. L’angelo diventa simbolo di bellezza, di virtù, di gratitudine, e di connessione ad un universo ulteriore.
Posso essere indiscreto e chiederti chi è Zuhal che “ora abbraccia il cuscino e sogna i delfini”?
Zuhal è la donna di Istanbul che mi ha accompagnato durante il mio soggiorno sul Bosforo. Con lei ho avuto modo di entrare nelle case e negli usi della gente del posto. Lei mi ha condotto per mano e mi ha fatto assaporare tutta la bellezza del posto e della gente. Spesso vedevamo i delfini saltare dall’acqua, passeggiando o anche seduti in un caffè vicino al mare. Lei prese il mio cuore per un’estate, ma poi mi guidò anche verso la donna che ho sposato e a cui tutto il libro è dedicato.
Un tuo bellissimo verso afferma che siamo “nient’altro che una scintilla nella notte”. Intuizione e riflessione, che peso hanno nella tua poesia?
Questa immagine mi è arrivata probabilmente da una poesia di Jaques Prevert, dove due amanti nella notte accendono fiammiferi nel buio per dirsi parole d’amore. La riflessione è continua, in ogni momento dell’esistenza; a volte a che fare con il pratico e l’effimero, altre volte si diletta con il filosofico e l’esistenziale.
L’intuizione è un dono che si attiva quando meno te lo aspetti; cercarla programmaticamente è una contraddizione, perché – per definizione – non può che essere spontanea.
Credo che entrambe riflessione e intuizione abbiano un peso rilevante in ogni attività umana. Ma la poesia, contraddittoriamente a quanto appena detto, è più uno “stato di grazia”, un momento di “trance”, dove la lucidità lascia il posto alla sensazione epifanica e onirica. A volte è lei a dettare le parole che sembra vengano da un altro mondo.
Riferendoti a una figura femminile scrivi: “sei il labirinto in cui mi azzardo a entrare”. da dove nasce quest’ altro verso profondo e insieme lapidario?
Il concetto del labirinto è una figura molto usata nella letteratura sudamericana (da Borges a Paz). Ho fatto studi di ricerca sulla cultura latino americana all’Università di Cambridge con una tesi Pablo Neruda. Sicuramente il mio riferimento viene da lì. Il labirinto è una sfida e un azzardo, ma è anche seducente e provocatorio. È la metafora di quello che l’esperienza umana ci mette di fronte: dover cercare una soluzione a qualcosa che non comprendiamo immediatamente. Allo stesso modo l’amore e la relazione con chi ci seduce si presenta difficile, la sconfitta è sempre dietro all’angolo, ma ciò nonostante sentiamo che vale la pena rischiare, sentiamo che dobbiamo metterci in gioco.
I tuoi versi procedono pacati e maestosi come le navi che attraversano il Bosforo. È un retaggio della letteratura inglese?
Il pacato e il maestoso esistono fianco a fianco in molte letterature. Quel Dante e quello Shakespeare che mi spaventavano da ragazzo, sono diventati con il tempo più familiari e più abbordabili. Certamente l’atteggiamento comportamentale inglese è più pacato di quello italiano. C’è una tendenza generale a smussare l’arroganza e a far leva su la cooperazione nelle relazioni interpersonali. Poi le contraddizioni esistono sempre: abbiamo in Gran Bretagna uno dei primi parlamenti nella storia, ma c’è ancora la monarchia e la camera dei Lords dove molti membri non sono eletti ma designati dal potere costituto. Abbiamo il fair play nello sport, ma anche gli hooligans. Abbiamo la tradizione e il rito del tè, ma qui è dove è nato il punk. Qui nelle tribune politiche gli interlocutori non parlano uno sopra l’altro, ma si scambiano parole roventi e offensive con pacatezza e dignità. Ma poi si vota per lasciare l’Unione Europea. Per quanto mi riguarda, il retaggio della letteratura inglese e della cultura inglese, è quello di avermi spalancato le porte al mondo. Quello di avermi messo in connessione con un dibattito culturale molto ampio e molto vasto.
“Le navi sono il simbolo del viaggio e dell’umano peregrinare”. Di quali altri simboli è intessuta la tua poesia?
Oltre alle navi, ai già citati angeli, e la metafora del viaggio, spesso mi sono sentito attratto da stazioni come luoghi di transito, di incontro e di partenza. Nei miei versi ci sono alcune stazioni di metropolitane londinesi a testimoniare la poliedricità e il cosmopolitismo della metropoli, insieme alla solitudine degli individui immersi nella moltitudine. Inoltre, alcuni fiumi e l’acqua sono tornati più volte, sia fiumi italiani che il Tamigi o il fiume Cam di Cambridge.
Spesso ho usato termini come “solstizio”, “equinozio”, o riferimenti alle costellazioni di Orione e della Croce del Sud. Questo perché li sento come la rappresentazione di un calendario cosmico che ci comprende ben oltre i nostri confini terreni.
Hai partecipato alle attività poetiche in Inghilterra. Con quali esiti e ricchezza di relazioni?
In Inghilterra ho soprattutto partecipato a incontri organizzati dall’università di Cambridge e da University College London in veste prima di studente, poi da ricercatore e a volte da spettatore. Ho avuto modo di conversare con Valerio Magrelli, con Roberto Mussapi e con Antonio Riccardi quando vennero a fare i loro seminari.
Tra gli incontri più interessanti ne annovero molti con ricercatori su Neruda; in particolare con uno dei sui più autorevoli biografi, Adam Feinstein, che in occasione del centenario della nascita del poeta cileno, nel 2004 fece uscire uno dei libri più completi sul grande poeta. Ne posseggo ancora una copia firmata e con dedica del biografo – rigorosamente scritta in “tinta verde” (inchiostro verde), 22colore col quale Neruda amava scrivere i suoi versi.
Buona notte mio angelo custode,
sarò silenzioso per un poco
ma ti prego scrivimi e pensa a me,
adoro le tue parole e i tuoi pensieri.
Sento il suono della tua voce attutita
nella quiete della notte.
Le ombre dei tuoi sguardi mi visitano
nel vuoto di questa stanza immobile,
che presto lascerò, abbandonando l’angoscia
e la tristezza tra questi mobili umidi e vecchi
e queste pareti bianche.
Così bianche e vuote da farmi perdere
ogni senso di direzione.
Per questa e nessun’altra ragione,
nell’intimo delle mie preghiere,
ho bisogno che tu pensi a me,
mio angelo custode.
Non c’è bisogno che io sappia, ma ho bisogno
che tu tenda le tue ali su di me.
Poi il sonno verrà, e la notte non mi farà più paura.
Buona notte mio angelo custode,
buona notte.
° ° ° ° °
Sei venuta e te ne sei andata
in un batter d’occhi.
E non è proprio questo quello che siamo,
nient’altro che una scintilla nella notte?
La luce verrà ad abbracciarmi
nella calma del giorno estivo,
quando esseri animati e cose sono assopiti
nell’intenso calore mediterraneo.
Silenzioso e pensieroso ritraccerò la mia strada
seguendo la bianca scia viscosa
lasciata da un’innocente lumaca.
Senza saperlo il mondo continuerà
a macinare il suo passo,
incosciente di noi, imperterrito e non curante.
E senza rimorso un altro giorno verrà,
senza di te.
° ° ° ° °
Nella pioggia estiva dell’alba che avvolge Istanbul,
navi cargo entrano lentamente
e maestosamente dal Mare della Marmara,
(tra i lamenti dei gabbiani, e reminiscenti di Valparaìso,
in una simmetria d’immagini a specchio
tra gli emisferi Nord e Sud).
Emettono un lungo e baritonale richiamo,
come balene pazienti che spruzzano acqua verso l’alto
e passano con una modestia
che contrasta le loro dimensioni.
Sono un monito che mi ricorda che il mondo
continua a girare intorno,
con o senza di me.
° ° ° ° °
Passeggiando lungo il Bosforo,
vedo delfini, ogni giorno,
come scoiattoli nei parchi di Londra.
Penetrano l’azzurro delle acque,
inarcandosi senza tregua, mentre disegnano
segmenti di cerchi perfetti tra aria e mare,
dando dimostrazioni sulle leggi del ritorno,
maestri delle linee e della geometria,
padroni della prospettiva,
guida dei marinai,
mentre scortano le navi,
compagni e amici in solitudine
e in preghiera,
barlume di speranza,
fratelli e sorelle delle stelle.
Max Mazzoli è nato in Italia nel 1963. Si è laureato a Londra (University College London), poi a Cambridge (Cambridge University) con una tesi su Pablo Neruda. Ha doppia cittadinanza britannica e italiana.
Per quasi trenta anni ha insegnato Lingua e Letteratura Italiana, Lingua e Letteratura Inglese, Critical Thinking, Filosofia, e English for Academic Purposes a Londra e a Cambridge, in scuole secondarie superiori, all’università e in corsi Pre-Masters.
Ha al suo attivo otto raccolte di poesie pubblicate da Book Editore e Ladolfi Editore, di cui quattro sono in versione bilingue (italiano e inglese). Alcuni suoi versi sono stati letti su Rai Uno nel programma Zapping.
Vive tra Parma e Cambridge.
Ha scritto le seguenti raccolte:
Con Book editore: In La minore (1989), Dissepolta polvere (1992); (premio Citterio, Città di Lodi 1992), Nella flagranza dell’istante (2005), L’altra metà del Tempo (2007), The Bosphorus Poems – Poesie del Bosforo – edizione bilingue – (2009). (Premio eccellenza al Sandomenichino 2022), Prima ch’io ti tocchi – Before I may touch you – edizione bilingue – (2012), Oltre Questi Luoghi – Beyond These Places – edizione bilingue – (2014), vincitore del Premio Speciale Portus Veneris Tematica al Concorso letterario internazionale, “Lord Byron Porto Venere Golfo dei poeti” (2023). Con Ladolfi Editore: Il segno e la parola (1000 versi) / Signs and Words (1000 lines) (2022). Con Diabasis Editore: Quel che ricorda l’oblio / What oblivion may recall (Marzo 2024). Con Puntoacapo Editrice: Fragili Consonanze (raccolta di 20 racconti), (sarà pubblicata nella primavera/estate 2024). Con Bertoni Editore: La latitudine del silenzio / The latitude of silence (sarà pubblicata nel marzo 2025).
22/02/2024 alle 08:27
Ottima intervista. Complimenti a tutti.
23/02/2024 alle 06:33
Grazie Paolo per averci immersi in una conoscenza piu` approfondita di questo brillante autore di cui una settimana fa ho potuto apprezzare, in aggiunta, la simpatia e l’affabilita`. Giustissima, direi quasi obbligata, la scelta della versione bilingue, perche` nella traduzione ( che Max assimila un po` a un tradimento) si perde effettivamente qualche importante elemento poetico nel passaggio dal concetto ispirato ( che nei versi qui proposti emana uno struggente afflato contemplativo) all’espressione verbale, soprattutto se si tratta di un confronto fra lingue germaniche e romanze , o slave (del turco non saprei proprio): basti pensare a quanto perderebbe la Divina Commedia tradotta in altre lingue, rime e metrica a parte.