A tentoni nel buio di Paolo Polvani | tornare a Roma – madre – è necessario. Alcune domande ad Anna Cascella Luciani a proposito del suo ultimo libro “tra spighe viola pallido. 2013-2017”, Macabor editore, 2022. Seconda parte.
Si dice che la misura del verso imiti, o almeno assecondi, il ritmo del respiro, abbia a che fare con qualcosa di fisiologico. Il ritmo della sua poesia appare frantumato, ricco di incisi, di rimandi, di riflessioni interne; ricorda molto quello della Dickinson; credo che derivi da una sua personale esigenza, è così?
È lungo rispondere alla sua terza domanda. E forse non so rispondere. Dovrei riprendere il volume che ha le dieci raccolte – Tutte le poesie. 1973-2009, 2011 -, e sono oltre settecento pagine, credo, e rivedere come e quanto, e quando, nel tempo, siano, ad esempio, apparsi i primi trattini. Mi pare siano, i primi, in alcune poesie in Tesoro da nulla. 1983-1989, 1990. Perché ho iniziato a usarli? – avevo ripreso a scrivere versi nel 1973 -, a farli entrare in quello che lei chiama “ritmo” – parola enorme, che può far paura giacché davvero sembrerebbe tutto comprendere – nel significato di tutto accogliere, accettare, far sorgere e portare a termine, e dunque anche lo scorrimento del tutto, che egli, o esso, tenta di farci “comprendere”, nel senso di capire.
Elenco qui a caso e senza nessuna pretesa esaustiva: ritmo del tempo – ritmo della vita – ritmo dei giorni – ritmo delle stagioni – oggi, con l’umanità tutta, dentro il mutamento del clima – ritmo delle ore – ritmo d’una crescita – d’un declino – ritmo dei versi – d’una frase – d’un discorso orale o scritto – ritmo del cuore – del pensiero – velocità lentezza corsa indugio – ritmo del silenzio – o d’una pausa – ritmo del lavoro – d’una danza – degli innumeri balli nei luoghi del mondo – ritmo delle maree – e delle onde – del desiderio – ritmo della voce – del canto – del passo – d’un teatro – d’un film – quante volte si sente dire sì bello ma un poco mancava di ritmo – ritmo della musica – delle musiche – d’una colonna sonora – d’una lettura a voce alta – ritmo d’una prosa – d’un romanzo – d’un racconto – a ognuno il suo – ritmo del respiro – guarda! dorme tranquillo! – tranquilla! – si alza e si abbassa il diaframma – fisiologia – no si arresta!- oh! riprende – continua… -.
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Tutto questo, o anche solo una piccola parte, in una poesia? Mah…
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Che posso dire? Comunque: il trattino separa e lega?, unisce e divide? – e non certo solo nei miei versi -, è pietra d’inciampo, e d’indugio, chiama a un’attenzione -, se può, se ci riesce, chiarisce forse a me stessa – e a chi capitasse su qualche mio verso – quello che tento di dire in una o altra poesia, ma anche entra (“irrompe”? parola troppo forte, e non sta a me usarla – ma alla captazione di chi legge o di chi si occupa per lavoro, di poesia), “irrompe” e dirotta il verso “verso” altro significato, altra rotta. Ma non do ai trattini ogni! responsabilità, giacché sono io a scriverli, insieme alle parentesi, agli incisi…
Emily Dickinson: no, non vengono da lei, dalla sua poesia – tra le somme espressioni poetiche, e tra i caposaldi del fare poesia -, i miei trattini. Nel senso che non discendono da lei. Non li ho copiati da lei… Non so più l’anno in cui cominciai a leggere la Dickinson, ma mi pare anche impensabile che non conoscessi la sua poesia da molto prima del 1973. E per molti anni, invece, a partire dal ’73, nella mia poesia i trattini non appaiono, non ci sono. Ma poi, ha lasciato scritto, Emily, da qualche parte, perché usasse i trattini? Lo sappiamo da qualche sua riga scritta? Non mi pare – o forse non so -.
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A un certo punto non mi sono più piaciute le virgole. Il punto e virgola credo d’averlo usato sempre pochissimo. Il punto fermo lo usavo, poi invece, spesso, un trattino finale. I trattini che uso , sia in poesia sia in prosa, sono sempre nel formato breve, mai nel lungo, ed è per me importante. Il trattino finale rende “stabile” la poesia, la appoggia.
Finita, non la fa pencolare, ma non la chiude.
Ritmo, e “misura” – altra parola da lei usata quasi a inizio di domanda. Sono due entità terribili da definire, definizioni che scappano come un gatto che si voglia a forza tener fermo, e in ogni modo si divincola. Perché l’uno genera l’altra, e viceversa. E “misura” ha dentro – va da sé – plurime entità: la misura sillabica del verso iniziale e dei successivi compagni, la misura come controllo della “fluizione” – esiste tale parola? forse no -, del tono del testo poetico, la misura del pensiero da cui la poesia sorge, la misura del respiro che genera il ritmo…
Mi fermo, temo di dire sciocchezze. Sì, a 82 anni temo di dire sciocchezze.
All’inizio della sezione dal titolo Famme restà co’ tte sinnò me moro, un’ampia e interessante nota biografica ripercorre le tappe più importanti della sua vita. Racconta anche di un libro incontrato verso gli undici, dodici anni, dal titolo “Mitologia”, e scrive: “Me ne innamorai. Da adulta, poi, molte letture tra gli scritti di studiosi della infinita materia”. Risale dunque a quell’innamoramento adolescenziale la presenza di personaggi della mitologia?
Sì, a quel tempo – nei miei undici, dodici anni – mi capitò in mano un libro sui miti greci e latini – giunto a casa in omaggio, da leggere per il nonno, tra vari altri libri – nonno insegnava materie letterarie – tra cui segnalare delle scelte per i volumi di testo nelle classi.
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Mi erano ignoti, fino a un momento prima, quei personaggi. Quei nomi, del corteo olimpico, mi erano sconosciuti. Le storie narrate, i racconti delle loro avventure o disavventure mi affascinarono. Ho conservato il libretto per decenni: un ricordo della freccia di uno scoccato amore? Può darsi… – nelle poesie, poi, quei miti, quelle figure, quei racconti sono ritornati, prima con più cautela o timore, poi con una maggiore confidenza sono apparsi nei versi – . Tra i recenti, un “Hermes / – piedi nudi – testa / d’oro” dorme in un pomeriggio d’estate, nella natura dell’Appia antica – lì l’ho pensato -, mentre “Pan – signore dichiarato / dei meriggi – le rituali / scale di siringa innalza – / tra spighe viola pallido / di muscari ai sentieri – / che donne e uomini / camminano – nei cesti / selvatica cicoria / le erbe prelibate dette / “misticanza” – in attenta / raccolta – cauto / andare e la borragine / – petali azzurrini – / fioriva ai bordi dei campi / in uso degli dèi -”
Da uno dei versi (p. 170) viene il titolo del libro che lei, Polvani, cita in apertura d’intervista. Conoscevo i muscari, li avevo acquistati, anni prima, in due piccoli vasi. Non avevo balcone, però, in quella casa, e difficile curare i fiori solo in un interno. Qualcuno mi regalò il mio amato ibisco purpureo e resistette! Ma ecco riapparire i muscari tra un Hermes mollemente adagiato, a fianco della strada romana, un Pan – il flauto alla bocca -, che se ne va per l’assolata campagna circostante, dove in certe ore camminano gli umani , scendono gli dèi, gli uni gli altri non vedono ma sanno…
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Una primissima apparizione, invece, è quella di Plutone – l’Ade greco -, in Venaria. 1973-1977, la prima raccolta – la più antica (in Tutte le poesie, 1973-2009, 2011, pp. 53-4) -.
“[…] appoggiato al mercato / rionale / Plutone aspetta qualcosa, /…/”, e appena prima una Euridice perduta, smarrita “[…] via, / muovi la testa, / Euridice, / l’inferno già lo conosci / sai bene le statue / di pietra fangosa / rapinata sugli argini / del tuo particolare / mi hai detto il vestito /…/.
Ho promesso d’essere breve e posso qui solo accennare alle tante presenze mitiche “dell’infinita materia”- come mi pare io abbia scritto nella sezione in prosa – al cui interno si mischiano alcune poesie – in Famme resta’ co’ tte sinnò me moro, che è alle pagine 199-236, del libro edito nel ’22.
Da Venaria, dunque, con inizio nel 1973, e fino ad altri versi di La vita precedente – raccolta di questi ultimi anni, alla cui struttura in sezioni sto lavorando, – l’amore scoccato dalla freccia di quel libretto – nei miei undici, dodici anni d’età – e poi in età adulta arrivato alla letture di studi, di saggi di autori sulla ”infinita materia” – è durato nel tempo – il suo fascino aprendo in me, e nei versi – passando per la vita. – altri echi, altri rimbalzi. Da narrative in paesaggio urbano in Gli amori terreni (2009-2012, 2016, p.70) “[…] un apollo / un dioniso – un mercurio / giacche gettate sulle sedie – / sono ancora a banchetto / su quel tetto – e nel terrazzo – / immemore di voglie / una diana – sventata – puntuale – / arriva al bagno – all’ora / dell’acqua sulle foglie e niente / sanno d’autunno quegli dèi / né del nostro tempo d’equinozio / che cambia ai corpi l’ordito / delle foglie – aggiustando – / con monete d’oro – il tributo / esatto del passaggio –
(ingenuità)
appena cala il vento
se ne cade il respiro
e il fiato perde vela
e sulla immobile tela –
salmastro sale – appare
appare tutta intera
l’attesa – del mare
° ° ° ° °
luna vocata barbara
sanguigna – traversi
il cielo sghemba
– obliqua – perché
non si capisca – noi
umani – che potente
mantieni la misura –
° ° ° ° °
non è importante dire
chi tu eri – chi tu
sia stato – fatta la vita
è di pochi nomi –
si perdono – per sempre
– poi, qualcuno
forse – avverbio
di un futuro che va oltre
-si chiederà chi era
la persona – e chi
sei stato –
Anna Cascella Luciani (Roma, 1941) ha pubblicato: Le voglie, in Nuovi poeti italiani 1 (1980), Tesoro da nulla (1990), Piccoli campi (1996), i semplici (2002), Tutte le poesie. 1973-2009 (2011), Gli amori terreni ( 2016). Ha tradotto e curato una sua scelta in Emily Dickinson. Rosso, purpureo, scarlatto (2011) e dedicato a F.S. Fitzgerald I colori di Gatsby. Lettura di Fitzgerald (1995). È del 2020 (Macabor) il volume di contributi critici per la sua poesia La luna e le sue forme.
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