A tentoni nel buio di Paolo Polvani |Sono tornato a mostrarti il palmo della mano  (note di lettura a Io scrivo nella tua lingua, di Massimiliano Damaggio, editrice Zona 2022)

 

Massimiliano Damaggio rappresenta uno di quei casi non frequenti in cui scelte di vita e poetica evidenziano una perfetta e miracolosa coincidenza. Dopo il bellissimo Edifici pericolanti, dopo Distratti vinceremo, il libro in cui ha curato la traduzione e la presentazione delle poesie di Paulo Leminski, propone ora al pubblico un libro altrettanto significativo e memorabile: Io scrivo nella tua lingua, edito da Zona nel 2022.

L’infanzia costituisce quella splendida miniera di ricordi, esperienze, sensazioni, sentimenti cui Rilke consigliava di rivolgersi come meravigliosa fonte di ispirazione, e sembrerebbe davvero essere un territorio privilegiato se tanti autori vi hanno fatto continuamente ricorso, se qualcuno ha definito quel tempo una cattedrale, volendo certamente alludere alla bellezza delle architetture, alla maestosità delle radici, al senso sacro che ispirano quei tempi in cui ci siamo affacciati alla vita con una variegata infinità di sentimenti.

Io scrivo nella tua lingua è un titolo scopertamente programmatico, ricorda il gesto infantile del protendere le braccia per essere accolti, compresi in un abbraccio, stabilisce fin da subito un invito al dialogo sincero e paritetico. al confronto nel territorio del ricordo e soprattutto dell’uso della lingua come atto di scambio. 

L’ultimo verso della prima, bellissima poesia, Polaroid, è: “di fronte a un’improvvisa  voragine di luce”, un bagliore accecante che favorisce la messa a nudo dei sentimenti segreti, perché non tutte le infanzie equivalgono a età dell’oro e della felicità senza nubi, in primo luogo perché è la stessa vita che prevede cieli tersi e cieli tempestosi, e poi perché l’infanzia si snoda lungo un arco temporale durevole, per cui credo che non esistano infanzie immuni da temporali, da bufere, e che nessuno sia sfuggito a situazioni dolorose durante quel periodo.

Ma a chi si rivolge, chi è il tu sottinteso nel titolo? Certamente il lettore, essendo per così dire il titolo un gesto pubblico con cui si presenta il dono, l’offerta della poesia, essendo i termini prodotto e merce parole che non sposano bene i versi. Un titolo che rappresenta un gesto di pace, un affidarsi allo sguardo, all’ascolto del lettore.

 

Polaroid

 

mi guardi dalla fotografia

ma io non so scrivere nella tua lingua

di cosa si chiamava bambino

ed era viaggio di vento, irruzione

nel nuovo giorno, al calendario

scandalo

 

incontrarti oggi in uno specchio di carta

mi ha fatto tremare le mani

perché ti ostini ad accompagnarmi di nascosto

all’uscita di ogni galleria

 

quando insieme per la sorpresa ridiamo

di fronte a un’improvvisa voragine di luce

foto di Alberto Bregani

Dunque l’infanzia viaggio di vento, irruzione nel nuovo giorno, e l’incontro in quello specchio di carta costituito dalla fotografia, ma anche dalla poesia che ha favorito l’incontro che ha fatto tremare le mani, ci spiegano che io scrivo nella tua lingua è rivolto a quel bambino guardato nella fotografia, è un tentativo di recuperare quella lingua aurorale per stabilire una connessione esistenziale, per riallineare lo sguardo a partire dalla forma di comunicazione linguistica. È allora un dialogo tra l’uomo che scrive per recuperare pezzi del suo passato e il bambino che torna a farsi vedere nella fotografia e accende la luce su quei ricordi, inquadra frammenti di storie della madre, del padre, dei luoghi che lo videro vivere e crescere, delle sensazioni incise fortemente nella memoria e che ancora fanno male.

 

durante il naufragio

 

di tutto questo naufragio si salva forse un bambino

che seduto sul pallone

nelle pozze dell’asfalto

vede riflesso il cielo come un canto

 

se potessi gli direi guarda che sei ancora in tempo

saltala quest’acqua

ora che è solo una linea

 

girati, e guardala mentre s’ingrossa

l’onda alta delle nubi sui palazzi

e come mi chiude gli occhi, adesso

e come sfuma la risata

di te che corri, e della

polvere

foto di Alberto Bregani

La postfazione che accompagna il libro ha per titolo Le cose che accettano di arrendersi, ed è firmata da Mia Lecomte, ne riporto questo significativo brano: “Io scrivo nella tua lingua è il verso scelto da Massimiliano Damaggio per intitolare la raccolta. Perché la rifrazione dei richiami è amplificata e sorretta proprio dalle sponde vive delle lingue, che offrono il fianco a ogni risonanza verbale e musicale. Damaggio è infatti traduttore di poesia dal portoghese, soprattutto – profondi sono i suoi legami con la poesia brasiliana – e dal greco. E la relazione tra il bambino e l’adulto di questa raccolta è costituita da un tessuto di lingue poetiche sempre al confine di se stesse, subito prima di trascolorare in altro”.

Ne Il giovane Holden c’è una frase che mi è sempre piaciuta e che a volte ho utilizzato: – Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira -. Ho avuto questa fortuna con Max Damaggio, una bella fortuna avere come amico un poeta che stimo, e che stimo molto anche come uomo, così non l’ho chiamato al telefono ma gli ho fatto alcune domande, e mi ha spiegato alcune cose:

“La lingua che parlavo da bambino era infinitamente diversa da quella che ho parlato poi. Era la lingua imparata in montagna, fatta di molti suoni e nessun pensiero. Una lingua primitiva. Immagini. Sensazioni di caldo e freddo, gelo e acqua, sole, foglie, vento. Ore passate a giocare con le campanule, a guardare le marmotte e le lucertole, a cercare le vipere sotto i sassi: l’esistenza momento per momento. Una lingua differente da quella dell’età adulta: l’esistenza programmata. Come può un adulto capire davvero l’infanzia? Solo rifiutando di essere adulto. È la decisione che ho preso senza saperlo durante la scrittura del libro. Per ritornare a uno sguardo vuoto, a un’assenza di pensiero. Per tornare ad essere pura accoglienza della vita che avviene nel mondo. Per tornare alla pace del vuoto.

Tutto questo ha molto a che vedere con la mia idea di poesia, che è profondamente contraria al “pensiero”. Nel ’19 ho scritto un libro che nessuno ha voluto pubblicare dove ho formulato la frase “Non pensiero ma sentiero”, che spiega bene la mia idea di poesia. Le parole che scrivo non sono espressioni di un “pensiero” ma sgorgano le une dalle altre, come immagini che creano altre immagini a ritmo infinito. “La vita che precipita sulla pagina”, scriveva Di Ruscio. In questo modo, spontaneamente, prende forma “l’argomento” del testo, che sia riflessione, che sia osservazione, che sia reazione. Non m’importa cosa è. È una cosa che vive da sé. Per questo le mie poesie non conducono a particolari ragionamenti, non “parlano”, non “pensano”. Sono creature, più che creazioni”.

Il libro è strutturato in cinque sezioni che rappresentano diversi momenti di una storia che s’indirizza verso un’ascesa, un ripercorrere le tappe da dove presero inizio con gli arrivi e le partenze, per snodarsi lungo la “sfavola”, la presa d’atto di un disallineamento esistenziale di quelli che ne porti le cicatrici per tutta la vita, e poi inoltrarsi nel bosco, dove si spegne il rumore dell’uomo, dove “sono tornato a mostrarti il palmo della mano”, il gesto di pace finalizzato a riconoscere che la vita è bellissima, e anche il ricordo s’illumina di bellezza – quando cane e bambino / in tragitti controvento / si rifugiano sotto l’albero / come in una casa – e finalmente ci si ritrova, nel bivacco, – io e te sediamo sull’erba / guardiamo / la sera, e come scolora / il tuo nome nel suo -.  E dove finisce il bosco bisogna allenarsi a dimenticare, e bisogna allenarsi a ricordare, perché c’è il vuoto, la pace del vuoto, ma c’è anche il rumore, e avere qualcosa cui aggrapparsi è importante per resistere, per trovare un appiglio stabile, – tu sai che l’uomo che è tornato / per donarti / all’amore degli insetti e delle vipere / cerca ancora il tuo respiro -. Dove inizia il rumore è lì che si incontrano gli uomini rotti, dove tutti i vuoti coincidono. E dove la salvezza assume le sembianze di un palloncino rosso, dove si scopre finalmente che è ancora possibile una forma di gioia, e la gioia – è come un bambino che corre / dietro a un palloncino rosso, e lo tiene con i denti / e pensa che durerà, e lo lascia libero -.

Dove abita la bellezza di questo libro? Nelle voragini di luce che si spalancano durante la lettura. Io penso che un libro di poesie, quando è buona, ottima poesia come in questo caso, rappresenta un oggetto che porta dentro di sé qualcosa di sacro, che leggendo e rileggendo regala ogni volta scoperte luminose, come quelle musiche che al primo ascolto ci sembrano poco inclini a svelarsi, ma che avvicinando con curiosità e rispetto lasciano nell’ascolto una scia di dolorosa bellezza, così in questo libro biografia e creazione trovano punti altissimi di coincidenza e coinvolgono il lettore in sempre nuove scoperte. Semplicità e rigore riescono a fondersi mirabilmente, a dire cose bellissime e che possiamo riconoscere e fare nostre, come avviene nella poesia alta: – e aspetto d’abitare / il calore mai fiorito nel tuo nome -.

Un viaggio di riconciliazione e di salvezza, – vede riflesso il cielo come un canto -, un ritorno alle parole come efficaci medicine, come strumento di rinascita e di purezza: – ma io ho visto un vento, fermo alle radici / di un bambino / e della sua spada di legno -.

Il mestiere del poeta è in fondo investire le parole di una carica emotiva che va oltre il semplice significato, così alcune parole come rumore, e vuoto, possiedono una valenza ricca di allusioni sociologiche e non solo estetiche, spalancano orizzonti, schiudono meravigliose voragini di luce.

madre

 

non è corretto

e non è poesia

raccogliere un dolore

per scrivere parole

 

se stai piegata in due dentro la stanza

al primo piano della casa abbandonata

mentre urli al bambino

che scappa, e cade per le scale, e si nasconde

 

nel buio ascolta

il latrare del tuo male

che sfonda il tetto

 

°   °   °   °   °   °   °

 

macchina del tempo

 

t’incontro dove comincia il bosco

e si spegne il rumore dell’uomo

sono tornato a mostrarti il palmo della mano

il nostro itinerario di sangue

dai tuoi sette anni, fino ai miei paesaggi

di vuoto che si schiude

 

la vita è bellissima, sai, e a tratti

potrai sfiorarla, nelle pause

ma solo per un attimo, prima di tornare

nel rumore

 

è come un amore negato che però t’aspetta sempre

come l’albero dove t’arrampicavi

adesso punito dal recinto

 

ma poi lo capirai anche tu

che questo tirare avanti

in fin dei conti è una mancanza d’amore

 

quando hai sempre in bocca un sapore

che non è il suo

 


Massimiliano Damaggio vive in Grecia. Ultime pubblicazioni: Poesia come pietra (2011); Edifici pericolanti (2017); Ceux qui prennent un café face a la mer (Francia, 2017); Paulo Leminski, Distratti vinceremo (Traduzione, 2022). Suoi testi e traduzioni compaiono su riviste e antologie in Italia e all’estero.