La circonferenza della vita di Salvatore Ritrovato (Marcos Y Marcos, Milano, 2022). Recensione di Germana Dragonieri

 

 
Ci troveremo allora in non so che punto,
se ha un senso dire punto dove non è spazio
(E. Montale, Ho tanta fede in te)
 
Di là c’era come un recinto
e lì duravano le cose
(A. Anedda, millenovecentonovantuno )
 
 
Resisterà la poesia alla civiltà in declino?» (p. 23), a un «progresso oscuro e misterioso» (p. 42) che distrugge invece di creare? Questa è la domanda che impregna e motiva dal profondo l’ultima raccolta di Salvatore Ritrovato, La circonferenza della vita, edita da Marcos Y Marcos nel 2022.
La risposta, credo, è nel libro stesso, nel suo stesso esistere.
«Resta a noi la poesia», ha scritto infatti, con meraviglioso ed eloquente iperbato, Patrizia Cavalli in occasione di un convegno su Leopardi: un’asserzione che è insieme attivamente vittoriosa (proprio e solo a noi , si intende a noi uomini) e passivamente rassegnata (è tutto quanto ci resta).
Cosa o cos’altro resta , dunque? Cosa resiste alla dissoluzione, all’«oblio generale» (p.18), al passare velocissimo di tutto («ma tutto, in ogni giardino, dura niente», p. 65)? È questa una domanda, speculare alla prima, che investe tanto le vite individuali – quindi quella del poeta che non riesce a Salire gli anni , che tenta di «ritrovare strade e case» e di «rimett[ere] i nomi / perduti del paese che non muore» (p. 32) – quanto le vite collettive e la Storia, che la minaccia continua ed effettiva dell’oblio riduce a un mucchio di «ipotesi, congetture, e poco altro» (p. 16); quanto ancora la vita geologica, quella del nostro pianeta che tende a dissolversi «come un’oscura vicenda» (p. 15), e che un giorno «cesserà di piangere e danzare» (p. 18).
 
La raccolta realizza pienamente l’esplicito anelito a cercare «un noi dentro l’io» (p. 61) proprio muovendosi su questi diversi piani della vita individuale, storica e geologica, ovvero attraverso il suo costante e contrappuntato dialogare: con i morti – quelli di casa, a cui offrire «una focaccia» da mangiare ancora insieme «come in una giornata di festa» (p. 37), e quelli (poeti, intellettuali, pensatori) che invece riposano per sempre nei numerosi esergo come una costellazione accesa; con il futuro, l’altra faccia della morte e dell’oblio («un giorno Tommi se ne andrà da me e da quella foto», p. 59); con Dio, il «Bibliotecario» (p. 25) che ci attende tutti, indistintamente, e che capronianamente si sottrae al poeta e a sé stesso («Dovunque tu sia stato non esisti» (p. 80); con la donna amata, nella «casa degli occhi» della quale il poeta «abita sempre» (p. 27), con una continuità che sembra suggerire la funzione eternante dell’amore (e della bellezza, con Keats) contro la fugacità della vita; con l’io stesso che, interrogato nel suo continuo trascorrersi e trasformarsi («”nel tuo sorriso qualcosa ormai non vive più”», p. 33), si rifrange e moltiplica.
È una dimensione purgatoriale, quella dentro cui vive e respira questo libro: la dimensione del non più e del non ancora, che coincidono perfettamente nella figura-chiave della circonferenza.
Olof Lagercrantz ha scritto del Purgatorio dantesco che esso è «la rappresentazione di una sofferenza che vale la pena di patire», «nonostante tutto, una speranza salda.
Esso è la nostra vita». Malgrado l’assertività irrecuperabilmente rassegnata del non più , infatti, nel libro si incontrano brillii di speranza tanto rari quanto preziosi, la possibilità di accedere a un non-ancora luminoso: «ogni corpo troverà nell’altro movimenti nuovi / e pensieri lontani, di speranza, che sembravano perduti» (p. 31). A nutrire una simile speranza di bene è la possibilità di un sogno – o forse del sognare – «che vale una vita / e sopravvivrà a questo mondo» (p. 36): un sogno che ci si ostina a portare in cima alla montagna come il masso di Sisifo, una sofferenza che vale la pena di patire  che, citando Camus, «basta a riempire il cuore di un uomo».
 
La poesia nutre e in qualche modo è questa speranza: con la sua parola che «sprigiona luce in ogni ombra» (p. 92), essa risveglia e solletica l’oblio, traendone così qualche scintilla, qualche sopravvivenza , qualche sogno; e forse è proprio il carcere del mondo il «carcere dove resistere» (p. 18), da cui sognare, scrivere. Sull’onda di questa preziosa consapevolezza, al poeta «interessa che questa poesia resti / come un dono, o un ricordo, o un progetto» (p. 47): ovvero come una traccia – indistintamente – di passato e/o di futuro.
La circonferenza che «ordisce finitudine e infinito, poco e molto» (p. 36) è forse proprio in questa indistinzione, in questa coincidenza temporale: a versi quali «come se ogni domani fosse successo ieri» (p. 18), «come se nel futuro ci fosse tutto il mio passato» (p. 33) fanno da controcanto speculare riflessioni come «ricordare, chiudendo gli occhi, un giorno mai vissuto» (p. 29), «…il tempo, già alle mie spalle. Il futuro» (p. 74). Il futuro già accaduto e il passato futuribile danno vita a un «infinito presente» (p. 41) o un Present continuous (p.82), transtemporale e sovrastorico, che esorcizza l’oblio ribadendolo, contenendolo in sé; e portano la poesia e chi la scrive in un montaliano «punto dove non è spazio», dove restano e durano le cose che sanno «disperare del ritorno» (p. 29).