Note Psicopoetiche di Valeria Bianchi Mian | Federico Ielusich

 

Il poeta Federico Ielusich scrive La Pietà L’Amor che disseta (2002) ispirandosi alla Pietà romana di Michelangelo Buonarroti e dedica i canti che compongono il testo, un inedito inserito nella silloge non ancora pubblicata Splendor Solis. Ipotesi di bellezza, alla madre che gli è cara, scomparsa improvvisamente.

L’autore compie il gesto poetico terapeutico al fine di sublimare il dolore della perdita e della mancanza. Opera per ricucire lo strappo che lo sfianca, la ferita inesorabile, quella che colpisce tutti noi, prima o poi, in quanto conseguenza dello sfregio agito dalla falce arcana, dalla tredicesima Lama, la Morte (XIII). Scelgo il verbo operare non a caso, trattandosi di un vero e proprio impegno alchemico, che risulta evidente sin dal titolo della raccolta, ed è una scelta che diffonde l’eco di un altro lavoro certosino di trasmutazione, in sette capitoli composti nel 1582 dal leggendario Solomon Trismosin, un adepto dell’Ars regia che fu considerato addirittura maestro di Paracelso

Madre di vita e di morte | VBM

I cinque canti della Pietà offerta e al contempo richiesta alla Madre archetipica sono inseriti nell’insieme testuale come versi bilingue, ovvero in italiano e in dialetto friulano. Nella lingua biforcuta sta la saggezza, quella che secondo Carl Gustav Jung di fatto abita solo il paradosso ed emerge nella comprensione della co-esistenza dinamica di un elemento opposto all’altro, entrambi passibili di confronto, di una correlazione, di una congiunzione persino, ma senza che questa coniunctio sia mai data come un dono, perché sempre, per raggiungerla, è necessaria appunta quella complessa opus contra naturam, quel lavoro duro di cesellamento che ascolta la sofferenza della pietra, quella rinuncia dolorosa che scarnifica il marmo in eccesso per estrarre dalla materia prima una statua in abbozzo. E non è forse proprio il simbolo della statua uno dei tanti nomi della Pietra Filosofale tanto ambita dagli adepti? Le statue sono i contenitori del simbolo che esse stesse rappresentano e, così come i simulacri di un certo dio o di una certa dea contenevano l’essenza degli stessi principi, anche la Pietà è statua corporea che indica ciò che mostra.

“La statua vivens designa il risultato finale dell’opera” (Jung C.G., Mysterium coniunctionis, vol. XIV, pag. 400, Bollati Boringhieri, 1991).

Nel dolore della perdita dell’Altro/a amato/a, il buco nero del sentimento è capace di farsi bocca vorace in ogni universo individuale, di farsi richiamo dello strappo che ci unisce in vita a partire dal momento in cui abbiamo cominciato a respirare. Mi piace utilizzare un termine preciso per indicare questo paradosso situato tra la vita e la fine: vit-amor-te, ma si tratta di un gioco di parole possibile soltanto in italiano. L’amore tra l’inizio e l’ultimo grido tiene il filo significante affrontando la paura che si spalanca nell’animo umano, il terrore del perturbante che perturbando il nostro pensiero solletica lo stupore, apre la mente a Thauma, meraviglia della quale, compiuto il passaggio verso l’ipotesi di pensiero – o l’ipotesi di bellezza – si può dire che sia madre della Filosofia.

Il baratro del nulla, quando scivoliamo nel dolore immondo, nel male immenso, sgretola mondi. Perduti nel sasso, nella terra, nell’inorganico, noi, quando siamo collegati in modo particolare a qualcuno, quando amiamo profondamente l’Altro/a e questo/a inevitabilmente manca – se non siamo noi stessi ad assentarci – non siamo più. E che cosa, se non l’origine, l’atomo di carbonio che potrebbe ricomporsi in filo d’erba o in corpo umano, in nuvola o in pesce, siamo chiamati ad ammirare e amare come bozza di scritto in potenza, come seme che può rigenerarci, nella nostalgia del Puer eterno fanciullo che br-ama il passato abbraccio con la prima genitrice? E con la voce del poeta bramiamo, erranti, ricolmi come un vaso ermetico di nostalgia Pothos, il miele in potenza ottenuto per immaginazione dal fiele della perdita. E chi, se non la madre casa, la madre porto e, soprattutto, la collettiva Madre Terra, invochiamo ora e ancora invocheremo in qualche forma quando saremo perduti? La pregheremo in qualche simulacro immemore dell’esperienza vissuta, finendo tutti per cantare una figura sufficientemente buona di winnicottiana memoria ma già intrisa d’anima nuova, già gonfia di sentimento oceanico, nutriente di anelito angelico, ricolma d’ispirazione poetica – la stessa ispirazione che ci terrà in vita.

Alcuni tra noi pregano assorti, magari, un mero manichino d’intelligenza artificiale, un ideale distante dalla madre in carne e ossa che hanno conosciuto e che li ha cresciuti, poiché in alcuni l’esperienza dell’esistere non è abbastanza significativa per cogliere la parola che collega vit-amor-te. Altri, come Federico Ielusich, nella madre scomparsa piangono la stessa Vergine che piange il Cristo, gridano la Cibele che impazzisce per il figlio-amante Attis che evira e dissangua se stesso, in una relazione che si svolge dentro una stanza degli specchi, riflettendo la commozione reciproca, rifrangendo ruoli uguali e contrari, per poi varcare la soglia dell’oltre. L’immensa Demetra canta l’assenza di Persefone e Persefone versa lacrime infinite per Demetra che urla il suo nome. A perdersi è sempre la prole, nell’assenza della madre – vale per gli umani e anche per gli altri animali.

L’immagine della Pietà, quando a morire è lei, la generatrice, è il paradosso dei paradossi, poiché nel cordoglio i ruoli si invertono ed è ancora lei, la madre, in qualità d’anima, a farsi culla consolante, a farsi abbraccio per lenire il male nel ritorno all’incontro che precede la dualità, che cancella la differenza nella sofferenza, che fa brillare le parole di sostanza salina, e il Sal nel procedimento alchemico è l’elemento della conoscenza bruciante, quella ottenuta solo a patto di poter accogliere la permanenza nel talamo mortale fino al farsi della coscienza, fino alla maturazione. 

Madre abbraccio e madre bara si uniscono per un figlio poeta che finisce di essere tale quando la madre muore, e da giovinetto si fa a forza uomo, autore di sé, poiché con la separazione sancisce il proprio ruolo d’orfano e dal qui e ora in poi può dare all’eroe archetipico il senso del viaggio, epopea individuale. Quel se stesso nudo e ferito, morente tra le mani della donna che è morta si rivela icona del riconoscersi ferito per potersi dire – magari, un giorno – risorto cicatrizzato. 

Il regalo poetico di Ielusich alla Pietà è il verbo di partenza verso la scoperta di un Sé che passa, per forza di cose, dalla parola fine. 

Non c’è più quel che che prima rendeva il cerchio. Non c’è ancora un altrove.

Nella riflessione dell’autore, l’alterità dolente veste i panni della società contemporanea e non sembra rappresentare un ideale da raggiungere per il navigante rimasto solo, senza porti sicuri di partenza e di arrivo, tra la madre e la macchina, alle prese con le fredde brutture del mondo, errante nel non-lieu anomico del mondo surmoderno di Marc Augè Nessun Luogo – ma il simbolo indicato oltre il segno è sempre l’amor tra vita e morte – quello che disseta, quello che placa l’arsura nel Sal della consapevolezza, grazie alla Madre Moro, alla Madre faro.

*

“Madre, mio Moro maestoso, guardi quel mare?”

 

“Giovinetto mio, io vedo l’Altro Mare,

un Mare che è Morte, deriva, Notte, Altrove,

Nessun Luogo, oscuri e nebbiosi lidi.”

“Madre mia, Maestra mia, dimmi, ora,

le disïate parole che la mia Sete

placano”. “L’amore disseta.

Perché tu sei l’Amòr, perché tu sei Seta.”

(Canto IV)

*

Leggendo i testi di Federico Ielusich mi colpisce come la densità dei  riferimenti faccia da contraltare alla linearità dell’esprimere gli affetti profondi, alle associazioni carnali che il poeta intreccia in canto, nel viaggio tra culla e bara, nel ritorno alla parola.

In Concupiscenza, ad esempio:

*

Sfogliata – declinata parola

lentamente compitata

concupiscenza…

 

questo mio saperti

ti fa risolta

 

il respiro tuo –

tu – che persisti in me

concupiscente

 

sboccia la parola tua – pronunciata

si fa carnea e la carne mia concussa

si fa parola sulle tue labbra

*

Ritornando alla Pietà, riavvolgendo il filo del rapporto madre-figlio, mi viene in mente un dipinto che definirei di educazione del fanciullo alla regola. Lo citerò come immagine anomala all’interno di un percorso iconografico che delle Madre – Grande – tende a offrire al pubblico, da centinaia di anni, la versione migliore dell’inconoscibile, mai rappresentabile nella sua totalità, archetipo. Tra le innumerevoli maternità ritratte nel tempo in momenti e pose più o meno impregnati di Pathos, c’è un quadro che Max Ernst dipinse nel 1926 e che si discosta nettamente dalle Vergini in allattamento e da quelle in lutto – Pietà. Piuttosto, qui è il pargolo che potrebbe invocare una certa pietà per ottenere venia dalla propria genitrice, maestra di vita. La santa Vergine castiga Gesù Bambino davanti a tre testimoni è uno degli arcani più originali che io abbia mai visto. Non c’è crudeltà ma sacrosanto diritto di affermazione della parola di madre, nell’atto della stessa. Una  muscolosa, severa e imponente Madonna incombe al centro dell’immagine come una cattedrale sulla città; Ernst ha fermato l’istante in cui lei sta per colpire con forza il roseo fondoschiena di un Gesù infante del quale non si scorge il volto. Tre uomini spiano quel gesto di punizione con un’aria  tra il voyeuristico e il dubbioso: commentano, forse, tra loro, la tragica maestosità della scena – nel trio è compreso l’artista, allo specchio nel paradosso identificativo. Qui la madre non è amorevole né disperata, non è culla né bara. Non è ideale né archetipo: è madre del momento, madre nel qui e ora, madre del gesto, e la carne del figlio – battuta, indotta al sentire – può generare parola, pianto vitale. Potrebbe, forse, come in una manovra salvifica, aiutare il figlio a portare fuori il pianto, il grido, il dolore, la parola viva. Il piacere e il dolore li possiamo cucinare operando nell’area che sta tra l’Io e l’Altro/a, nel calderone winnicottiano di transizione nel quale possiamo indurci alla relazione e che, se non è luogo abbastanza spazioso, ci mantiene nel nodo indifferenziato.

In quel “tra” me e te, madre e figlio/a, è possibile mettere in scena l’opus alchimistica evolutiva, fatta di avvicinamento e di perdita, di morte e di rinascita al linguaggio che ci cura, di verbo che lenisce la carne concussa e forma lettere di significanza. Nell’area di mezzo, allora, mettiamo il latte e il rimprovero, tutti gli abbracci e le sculacciate, riempiamo lo zaino del Matto (0) che dà inizio al cammino dell’eroe e incontra il Mago, e comincia a operare se stesso. Soli, orfani, a volte reietti. Ma viventi, amanti, diretti al Mondo (XXI) per incontrare – a tempo debito – il mistero finale. Nel mentre, è parola che pulsa, carnea.

 


Federico Ielusich
Ielusich è un cognome croato/bosniaco – in origine, scrive il poeta, il termine era Jelušić.
Federico Ielusich è, di fatto, poeta e artista che scrive in lingua italiana e in dialetto friulano.  Nato nel 1976 a Cividale del Friuli, nutre un forte legame con la sua terra. Scrive versi e haiku ma anche critica letteraria.
La sua prima raccolta di poesie, “Il Sentiero delle Magnolie in Fiore”, una selezione di testi che attraversano un decennio, scritti tra il 1993 e il 2007, è stata pubblicata da L’autore Libri Firenze nel 2007, con prefazione di Lucia Gazzino.
Alcune sue poesie sono state tradotte in inglese, russo, ucraino, ma è anche lo stesso poeta a occuparsi di traduzioni, pubblicate su lit-blog e riviste letterarie in Italia e all’estero (USA).
Vive a Torreano, in provincia di Udine.

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